di Monica Macchi e Paolo Castelletti (da formacinema.it)
Babylon
si configura sia come un esperimento sul linguaggio che come un
esperimento di utilizzo del materiale: infatti durante le riprese, i
tre registi hanno diffuso in tempo reale tramite Internet video,
fotografie, clip audio, testi open source invitando chiunque
volesse, a riutilizzarli per creare nuove opere.
Sono
state fatte mostre sui diversi lavori e anche un film-concerto di
Zied Meddeb Hamrouni in cui ha mixato dal vivo la colonna sonora
originale del film. Questo film non recitato può essere dunque
considerato un “ipertesto” o come ha scritto Vertov un “film
che produce film” nel senso che ogni inquadratura può essere
utilizzata per altre ricostruzioni. Del resto, la comprensione
dell’immagine dipende dalla correlazione con quelle che la
precedono (secondo il cosiddetto “effetto Kulešov”) e questo
flusso organizza le percezioni ed i processi interpretativi dello
spettatore. Inoltre Babylon sarà proiettato nell'ambito della
mostra “Le
Pont” (http://www.mp2013.fr/evenements/2013/05/le-pont/)
fino al 20 ottobre 2013 al Museo di Arte Contemporanea di Marsiglia
(capitale europea della cultura 2013), un evento che ospita più di
cento lavori di artisti provenienti da tutto il mondo (tra cui
Marina Abramovich e Basquiat) sul concetto di migrazione e
“deplacement”.
Quando è scoppiata la rivoluzione tunisina nessuno dei tre registi ha deciso “a caldo” di filmarne gli eventi. E dopo che la loro società di produzione Exit viene saccheggiata dalla polizia il 14 gennaio, decidono insieme al produttore Chawki Knis di andare a Choucha, un campo profughi a sette chilometri dal valico di frontiera di Ras Jdir e a tre chilometri dalla città di Ben Guerdanne (già teatro all'inizio del 2010 di una rivolta). Quasi un milione di persone di tutte le nazionalità e le lingue sono in fuga dai combattimenti tra i rivoluzionari e le truppe lealiste di Gheddafi. In Libia erano infatti presenti moltissimi migranti provenienti soprattutto dall’Africa Sub-Sahariana, che, dal punto di vista interno erano funzionali al sostenimento dell’economia libica e dal punto di vista internazionale erano funzionali al cambiamento della figura di Gheddafi che voleva passare dall’essere leader panarabo all’essere leader panafricano. Ma sin dai primi giorni delle rivolte si scatena la “caccia al nero” definiti “mercenari di Gheddafi” che scappano quindi verso la Tunisia. Il gruppo si propone di essere un “gruppo di auto-creazione” (in riferimento ai “gruppi di auto-difesa” in cui si erano organizzati i tunisini), senza l'idea di girare un film ma con l’intento di “mettere gli occhi su un frammento di Tunisia che ha vissuto un tempo diverso e un evento diverso…siamo stati attratti dal campo così come andava emergendo tra due territori in rivoluzione, in una no revolution’s land….non crediamo che la rivoluzione sia un evento compatto e limitato nel tempo, al contrario è complesso e frammentato”. E mentre sono entrati in contatto col campo, i rifugiati ed il territorio circostante (non solo Choucha ma anche Zarzis, Djerba e Medenine), il film ha iniziato a prender forma, una costruzione formale che però non diventa pura osservazione perché, come hanno ribadito i registi, “non crediamo nel mito dell'oggettività, anche se non abbiamo mai dato alcuna indicazione alle persone”.
Secondo
la descrizione di uno dei registi “Questo film è una tragedia in
cinque atti” con una struttura in cinque parti distinte, separate
da schermi neri: lo spazio prima dell'arrivo dei profughi in cui ci
si sofferma sulla natura (in particolare sul deserto e sugli alberi,
che osservano “come l'umanità cresce e poi distrugge se stessa”)
e su come essa si trasforma in base al passaggio dei profughi;
l'occupazione del campo; l'organizzazione della vita della
tendopoli; l'emergere di tensioni e rapporti di potere al suo
interno; ciò che resta dopo la partenza dei profughi. Dopo una
lunga sequenza iniziale su grotte e vegetazione del deserto
incentrata, con primi piani temporali, su uno scarafaggio che fa
rotolare una sterpaglia al rumore del vento; iniziano ad arrivare
ruspe, tende e telecamere e poi giornalisti, operatori umanitari e
profughi che costituiscono la singolarità plurale che attraversa la
tendopoli.
Tendopoli
che è la vera protagonista del film, un luogo effimero nato dal
nulla in mezzo al nulla, destinato ad essere costruito per poi
essere rapidamente distrutto, caratterizzato da un movimento
incessante dei rifugiati, una galleria di personaggi senza alcun
protagonista, che tagliano lo schermo come in una danza…Ed il
movimento della danza permea di sé anche una delle sequenze più
significative del film: il corteo di protesta dei bengalesi che si
muove sinuoso come un serpente passandosi un corpo, non si riesce a
capire se morto o svenuto; ma è presente anche nei piccoli
spettacoli inscenati per passare il tempo e nella candela sotto la
tenda in cui alcuni nigeriani parlano di Dio. Nel film si susseguono
così inquadrature di “storie nella storia” che scivolano le une
sulle altre senza dare alcun appiglio allo spettatore se non quello
di lasciarsi sommergere dal flusso visivo e linguistico di un
movimento effimero. Non si tratta quindi di una o più persone che
raccontano lo spazio ma di uno spazio che racconta le persone
inserite in un ambiente da cui traggono significato e che esalta le
potenzialità delle immagini liberate dalla rigidità della parola.
La scelta di raccontare attraverso la massa porta i registi ad
utilizzare il campo lungo, le ombre e le sagome sfocate (come
dimostra anche la locandina) per connotare esteticamente
l’alienazione nella massa, alternandole sapientemente a zoom su
dettagli che raccontano la vita nel campo: i momenti della preghiera
e le lunghe code per il cibo rallentano il film e ben rappresentano
la lentezza, fluidità e precarietà del destino e della permanenza
dei migranti. Infatti il campo rappresenta un non-luogo di
passaggio, anche se in realtà, a Choucha ci sono ancora diverse
persone riconosciute come profughi che sono in attesa di venir
“ricollocati” e 300 deboutés cioè “non-rifugiati” esclusi
dal sistema di protezione ONU, che in un vero e proprio limbo
giuridico aspettano lo smantellamento del campo previsto per il
prossimo 30 giugno. Del campo di Choucha si è molto discusso anche
nel recente “Forum di Tunisi” dove sono stati sollevate molte
criticità tra cui la mancanza di assistenza giuridica nella
compilazione delle domande, l'assenza di una commissione di
controllo e le interferenze delle rappresentanze diplomatiche di
Ciad e Nigeria; l’Onu da parte sua ha replicato proponendo ai
deboutés
il
rimpatrio volontario assistito con pagamento del viaggio di ritorno
e di una buonuscita o, in alternativa, la permanenza in territorio
tunisino, con la possibilità di percorsi di inserimento
professionale.
Quando
la maggior parte dei profughi se ne va, resta la tendopoli con il
suo pavimento cosparso di spazzatura e con sacchetti di plastica che
volano al vento, non una mera registrazione meccanica ma una
costante colonna sonora che ha la capacità di esaltare le
espressioni delle immagini. E visto che ogni opera d’arte si basa
su una gerarchia dei mezzi utilizzati, il suono è qui al servizio
di immagini ed azioni che prescindono dalla parola: del resto come
ha scritto Arnheim: “Il dialogo costringe l’azione visiva a
mettere in primo piano l’uomo che parla, otticamente sterile”. E
l’importanza dei suoni emerge nel lungo lavoro di post-produzione:
le riprese sono durate tre settimane con una trentina di ore di
girato ma ci sono voluti circa dieci mesi per il montaggio. In
parte
per problemi finanziari (il film è interamente auto-prodotto), in
parte perché non volevano essere risucchiati nel filone “primavera
araba”, (ecco cosa mi ha scritto Ala Eddine in uno dei primi
scambi di mail, presentando il film: Je note que notre film est un
peu “loin” des sujets traitants du “Printemps Arabe”.
Veuillez ne pas l'inclure comme un film “direct” sur “la
révolution” tunisienne.) ma soprattutto per costruire il film
seguendo il ritmo e la musicalità delle voci ed il lato crudo dei
suoni della natura fa provare la sensazione di essere in un
territorio inesplorato e sottolinea la differenza con le produzioni
televisive.Babylon rompe infatti con la tradizione del cinema
tunisino mainstream per queste scelte estetiche radicali, per la
diffusione del materiale via Internet, per il fatto di essere
autoprodotto senza sussidi statali ma anche per l’abbandono delle
tematiche ormai cristallizzate (la vita sociale nella vecchia
Medina, la famiglia conservatrice…) ed incentrate su tematiche
sociali, che erano esattamente le stesse delle produzioni televisive
delle “musalsalat” cioè delle telenovele mandate in onda
durante il Ramadan per affrontare una spinosa questione politica. Il
connubio tra l’accesso alle nuove tecnologie e la caduta di Ben
Ali ha totalmente cambiato lo scenario sbloccando lo spazio pubblico
caratterizzato dalla progressiva chiusura delle sale
cinematografiche (dalle quasi duecento degli anni Settanta ne sono
sopravvissute una manciata): ad esempio facendo rivivere la
tradizione del cinema itinerante e realizzando una Carovana del film
documentario o molti festival come quelli di Rgueb
o
di Hergla.
Ma
soprattutto sono stati girati diversi film audaci e innovativi che
hanno fatto molto discutere: tra questi “Anbou El Fosfato” di
Samy Tlili sui lavoratori del bacino minerario di Redeyaf (e per
poterlo far vedere agli abitanti della regione il regista e i suoi
collaboratori hanno dovuto personalmente riaprire una sala chiusa da
quasi trent’anni) e “Ni Allah, ni maître” di Nadia Al-Fani
(dopo scontri, polemiche e minacce di morte, la regista ha deciso di
cambiare il titolo in “Laicitè, inshallah”) sul ruolo della
laicità come garante della diversità e della libertà di coscienza
in una democrazia. Ma questa situazione di effervescenza e
creatività cinematografica potrebbe cambiare a breve: è appena
stata presentata una proposta di “Riforma per lo sviluppo del
cinema e dell'audiovisivo in Tunisia” che prevede la creazione di
uno sportello unico per il cinema e l’inasprimento dei requisiti
richiesti alle case di produzione per accedere a forniture o
sussidi. Chi contesta la legge sostiene che abbia un’ispirazione
politica perchè il Governo sarebbe terrorizzato da questi nuovi
cineasti che, come nel caso di Babylon, in piena autonomia girano
video senza richiedere autorizzazioni o sovvenzioni statali e li
condividono tramite Internet rendendoli immediatamente fruibili. Del
resto che giustificazione artistica potrebbe avere la norma secondo
cui le case di produzioni possono girare lungometraggi solo dopo
aver girato un “numero sufficiente” di corti?!? E possono
collaborare a produzioni straniere solo dopo aver raggiunto una
“certa notorietà”?!? Gli oppositori puntano anche il dito sugli
autori del progetto, definiti “un’accozzaglia di dinosauri e
burocrati”, coinvolti nella degenerazione del cinema in Tunisia e
che ora starebbero per completare l’opera svendendo quel che ne
resta alla televisione e agli sponsor dei multiplex.