sabato 11 aprile 2015

Sette paia di scarpe: un romanzo sulla Siria tra cambiamento e tradizione


Eliana Iorfida si è laureata in Archeologia nel 2007 a Firenze. Ha partecipato a importanti missioni di scavo nazionali e internazionali in Medio Oriente (Siria, Egitto e Israele) ed è l'autrice del romanzo d'esorsio intitolato Sette paia di scarpe, vincitore del secondo posto nel concorso nazionale “La Giara” (Rai Eri). 


Beirut, 2006, Imad è il padre di Aidha, Nashat e Tahir, è vedovo e ha molta paura di mettere in pericolo la vita dei suoi tre figli perché a Beirut ci si attende l’offensiva israeliana contro gli hezbollah libanesi.
Affidati i ragazzi alle cure della figlia maggiore, Imad li mette su un aereo per Aleppo e da lì continueranno il loro viaggio verso la Jaazera, l’interno desertico della terra siriana, fino ad un piccolissimo villaggio dove vivono i parenti della moglie defunta. Nel villaggio li aspettano i nonni materni insieme agli zii e ai cugini che li accolgono in una vita rigidamente organizzata sui tempi del lavoro e i ruoli di una famiglia patriarcale.
Completamente soggette al volere dei mariti e fratelli maggiori, le donne vivono nella grande casa comune nel sogno del matrimonio che dovrebbe affrancarle dalla casa paterna. Aidha è spinta da una serie di segnali rivelatori a scoprire il perché della frattura tra sua madre e la famiglia d’origine, e sarà Karima, grande amica della madre fin dall’infanzia che le svelerà il segreto della contrastata giovinezza di lei. Piano, piano Karima dipana il filo dei ricordi svelando ad Aidha un altro aspetto della madre. Innamorata con passione di un berbero, le famiglie avevano per mesi intessuto trattative matrimoniali, ma il riscatto sarà possibile.

La commissione del concorso si è così espressa: “La scrittura della Iorfida riesce a rendere con espressività l’atmosfera di un villaggio rurale della Siria vissuto attraverso gli occhi della giovane protagonista. Senza frapporre giudizi morali e politici, narra un mondo arcaico facendocelo sentire comunque molto vicino al Mediterraneo di casa nostra. Un bel ritratto di una cultura diversa, sentita come ricca di valori anche se fortemente autoritaria”.



L'Associazione per i Diritti Umani ha intervistato per voi Eliana Iorfida che ringrazia.



Come si è documentata per scrivere questo romanzo?



Questo romanzo è il frutto spontaneo di un’esperienza vissuta in prima persona da archeologa nei territori che fanno da scenario alla narrazione – i villaggi di Tell Mozan e Umm Ar-rabiah, nel Kurdistan siriano – dove ho trascorso due stagioni al seguito dell’importante missione di scavo internazionale diretta dal Prof. Giorgio Buccellati. Le mie “note di viaggio” si sono presto intrecciate alla vicenda reale e commovente di una donna del posto. Direi, quindi, che la “documentazione” è avvenuta sul campo, semplicemente vivendo a stretto contatto con le persone che ci ospitavano; trovando nella loro quotidianità, nelle tradizioni e nei racconti dei più anziani, tesori preziosi come quelli custoditi dalla sabbia.



Beirut, Aleppo e poi la campagna siriana: qual è la differenza culturale tra le città e l'entroterra?



È una differenza enorme. Gran parte dei Paesi mediorientali sono attraversati da squilibri e dualismi estremamente marcati da un punto di vista storico-culturale, politico e geografico. Uno dei più tangibili sussiste proprio tra città e campagna: le prime, soprattutto le capitali e le grandi metropoli, sono scandite da ritmi e tenori di vita del tutto simili a quelli ai quali siamo abituati “noi” occidentali – assimilando, talvolta, il peggio dai nostri cosiddetti modelli di emancipazione – viceversa, le comunità multietniche dei piccoli centri rurali patiscono ancora pesanti condizioni di miseria, vessazione e degrado sociale. È in queste diseguaglianze che affondano le radici del malcontento e, al tempo stesso, della presa di coscienza che hanno animato la stagione delle “Primavere Arabe”, almeno nel loro slancio genuino iniziale, ed è da qui che occorre ripartire per dare speranza a queste popolazioni.



Le persone anziane sono depositarie della memoria e della tradizione: come conciliare il loro vissuto e la loro mentalità con quella dei più giovani?



Nel romanzo, Aidha, la giovane protagonista, conosce se stessa e le proprie radici attraverso il filo della memoria familiare e della riscoperta del proprio passato: una ragazza di città che si scontra e s’incontra con le antiche tradizioni di una terra lontana, nel tempo e nello spazio. È un dialogo che nasce sulla base della curiosità e del rispetto reciproco, e si costruisce in punta di piedi. Al giorno d’oggi è difficile conciliare il vissuto di generazioni così distanti, e la realtà mutevole e consumistica che ci circonda non fa che distrarci, ostacolando con ogni mezzo questo prezioso “passaggio del testimone”. Tuttavia, i giovani non possono e non devono abdicare così facilmente alla conoscenza storica, personale e collettiva, perché solo l’esperienza di ciò che è stato (e che siamo stati) può prepararci a comprendere e accogliere i mutamenti che ci attendono.



Nel libro si parla anche di matrimonio combinato e di emancipazione: quali sono i diritti negati e quali, invece, quelli acquisiti da parte delle donne?



La storia che racconto è fatta di dolore e riscatto, ma anche di consapevolezza e rispetto verso tradizioni (patriarcali e matriarcali) di origini antiche, sulle quali si fondano molte comunità umane e dalle quali, spesso, dipende la sopravvivenza di interi clan familiari. Anche se la storia narrata è “al femminile”, trovo riduttivo, soprattutto in questo drammatico momento, limitare il problema dei diritti alle sole donne: non esiste una questione femminile fine a se stessa – benché la donna sia un centro cosmico e sul suo corpo si combattano guerre di ogni genere – quanto un problema di negazione o affermazione di diritti umani universali e inalienabili, a tutte le latitudini. Nei Paesi di cultura arabo-islamica la donna è declinata in mille sfaccettature, non sempre rispondenti agli stereotipi di cui siamo infarciti, e l’affermazione dei diritti, così come l’emancipazione personale e professionale, dipendono dal contesto socio-economico e culturale dal quale cui si proviene: s’incontrano spesso donne come Rima Karaki, la giornalista libanese che, di recente, ha fatto notizia per aver tenuto testa a un prepotente islamista conservatore; e poi ci sono donne che a quella prospettiva d’indipendenza non hanno alcuna possibilità d’accesso, succubi di umiliazioni e privazioni. In casa nostra le cose non sono poi così diverse, senza contare la piaga del femminicidio, che nel 2013 ha mietuto una vittima ogni due giorni.



C'è un collegamento tra la Siria da lei raccontata e le Regioni del nostro Sud?



Ho guardato il Medio Oriente con occhi da calabrese e ci ho visto le mie radici! Non è un caso che in apertura e chiusura del romanzo abbia scelto di citare l’illustre corregionale Corrado Alvaro che, per primo, negli anni ’30, colse le innumerevoli assonanze mediterranee tra i rispettivi Sud, nel bellissimo reportage “Viaggio in Turchia”. Gli arabi ci hanno insegnato a irrigare la terra, a coltivare gelso, cotone, melanzane, spezie e tanti altri alimenti tuttora alla base della nostra tradizione culinaria. Le donne velate e vestite di scuro mi hanno richiamato l’immagine delle nonne calabresi e siciliane che, non più tardi di qualche decennio fa, si coprivano i capelli con la sajia prima di uscire di casa e facevano il bucato con la cenere. È a questa radice mediterranea che dobbiamo guardare per sentirci partecipi di un destino comune.