martedì 10 novembre 2015

Fotografia: libertà di espressione, etica e e diritto alla dignità




L' Associazione per i Diritti umani ha partecipato al Festival di Fotografia etica che si è svolto a Lodi dal 10 al 25 ottobre.

Come ogni anno la manifestazione ha proposto al pubblico molte esposizioni di autori italiani e stranieri che lavorano sull'atualità, calandosi nelle situazioni più gravi che attanagliano l'umanità: conflitti, razzismi, malattie, miseria, per citarne solo alcune. Durante le giornate dedicate alla fotografia, gli organizzatori organizzano anche approndimenti e interviste; quest'anno abbiamo assistito ad un convegno dal titolo “Etica e fotografia: un rapporto complesso” alla presenza di Elio Franzini, Sandro Jovine, Gianmarco Maraviglia, Pirtro Collini, Lucy Conticello, Marco Capovilla e Emanuela Mirabelli.



Riportiamo, per voi, alcuni interventi.



Elio Franzini inizia citando Walter Benjamin il quale soteneva che la fotografia non ci fa cogliere il senso della realtà perchè è una risproduzione della stessa. Restituendo una interpretazione della realtà, non si consegna una verità reale. Ma la dimenticanza consiste nel fatto che la fotografia è una RAPPRESENTAZIONE per cui, quando si parla di fotografia o di un'immagine con una valenza comunicativa, la loro caratteristica è quella di racontare qualcosa che sta dietro, che rinvia ad un senso che non si esaurisce con l'immagine in sé. Per questo motivo tali immagini possono avere anche una certa pericolosità per il pubblico: qual è, infatti, il loro limite? C'è un limite per la rappresentazione?

C'è un modo etico POSITIVO che è quello di far intuire la storia sottostante; in questo caso l'immagine è simbolica, è una struttura di rinvio a qualcos'altro. Ma c'è anche un modo etico NEGATIVO: qui il fotografo deve chiedersi se la realtà ripresa è comunicativa oppure se è irrapresentabile. Alcuni oggetti non andrebbero ripresi perchè offenderebbero la sensibilità degli spettatori? Kant risponde a questa domanda, ponendo un limite soggettivo alla rappresentazione: non possiamo rappresentare ciò che ingenera in noi disgusto (che è un rifiuto anche fisico perchè i nostri sensi non accettano quell'immagine).

La risposta del filosofo, però, non è del tutto soddisfacente perchè c'è un altro problema: Lessing, già nel '700, scrive un Manifesto dell'immagine moderna in cui la rappresentabilità o meno di una scena dipendeva dai segni da cui era costituita. I segni dell'immagine sono icnici (non diacronici) per cui noi spettatori non recepiamo l'immagine come brutta o violenta. Ciò significa che il mondo delle immagini è pericoloso quando rappresenta lo sgardevole perchè l'immagine stessa non ha intrinsecamente quei segni che fanno accettare allo spetttaore ciò che è disturbante.
E' anche vero, d'altra parte, che il disgustante mette in luce la nostra mancanza di accettazione del Male. Il pittore Paul Klee si chiedeva: bisogna che tutto sia conosciuto? La risposta del Prof. Franzini è: “Io non lo credo”.



Pietro Collini lancia alcune provocazioni. Vedere, registrare, mostrare: questo sarebbe il motto del bravo fotografo. Ma questo non è possibile perchè l'obiettività assoluta non esiste, dato che – attraverso il background culturale, la fede politica o la religiosità – il fotografo è condizionato dalla propria vita, dalle esperienze, dalle opinioni e da questo nascono le manipolazioni delle immagini e dell'opinione pubblica.
Trovare sempre temi e stili nuovi: questo è l'imperativo della fotografia moderna e questo ha generato anche un'ansia nel professionista che – soprattutto da quando la fotografia si è accostata alla politica – ha iniziato ad usare maggiormente la tecnica (luci e colori), finendo col distaccarsi progressivamente dalla documentazione della realtà.



Marco Capovilla fa riferimento ai principi etici del giornalismo perchè anche la Fotografia deve adottarne i principi e le logiche. Esiste un codice di autodisciplina (che non è una legge dello Stato) affidato alle associazioni di categoria (la deontologia professionale), secondo cui anche il fotografo deve aderire ai fatti, deve essere onesto e imparziale, autonomo e indipendente e deve avere umanità nei confronti dei soggetti deboli rappresentati e consapevolezza della responsabilità sociale del proprio operato. Questo principi, come sappiamo, vengono spesso disattesi e con la fotografia è più facile violarli perchè le immagini sono maggiormente manipolabili grazie alla tecnologia.


Gianmarco Maraviglia dirige una rivista che si chiama “ECHO” perchè i grandi eventi di attualità lasciano un'eco per cui lui e i suoi collaboratori raccontano le conseguenze di tali eventi.
Racconta di un progetto intitolato “Break the silence” realizzato in Egitto, un paio di anni fa. Per realizzarlo ha ascoltato molto musica hip hop, ha seguito i ragazzi che usano gli skates e fanno parkour, ha frequentato il modo dei tatuatori: ha, cioè, ripreso un mondo underground egiziano, strettamente legato alla rivoluzione e ha dimostrato, con i suoi scatti, che quei giovani stavano mettendo in atto non tanto una rivoluzione politica, ma una rivoluzione socila,e culturale e di impegno civile.

Poco prima della sua partenza per l'Egitto, racconta Maraviglia, riceve una telefonata di intimidazione da parte dei Fratelli musulmani. Lui parte ugualmente e realizza il progetto. Viene contattato, dopo qualche tempo, dal Washington Post che pubblica le sue foto e, nel giro di qualche minuto, il suo account di Facebook viene riempito di insulti, soprattutto in linga araba. Cos'era successo? Era successo che la testata principale egiziana, El Watan, aveva preso le foto del Washington Post, modificate, manipolando titolo e articolo e aveva strumentalizzato politicamente il reportage.

Il fotografo racconta anche di un'esperienza professionale sui rifugi siriani di origine armena. Per realizzare questo progetto, ha cercato alcuni sopravvissuti alla battaglia di Kessab ed entra in contatto con persone che erano riuscite a scappare grazie all'aiuto di un'associazione: tra queste c'era un ragazzino che gli racconta la propria storia terribile. Appena usciti dalla ONG, il ragazzino gli passa un numero di telefono per prendere un appuntamento da soli: durante l'incontro dà al fotografo una versione totlamente diversa. Racconta che, in realtà, lui era scappato per sfuggire all'esercito di Assad che aveva messo in mano a tutti i bambini e ragazzi un fucile, ma lui non voleva andare a combattere al confine con la Turchia.

Questo esempio mette in luce il serio problema della propaganda.