L' Associazione per i Diritti umani ha
partecipato al Festival di Fotografia etica che si è svolto a Lodi
dal 10 al 25 ottobre.
Come ogni anno la manifestazione ha
proposto al pubblico molte esposizioni di autori italiani e stranieri
che lavorano sull'atualità, calandosi nelle situazioni più gravi
che attanagliano l'umanità: conflitti, razzismi, malattie, miseria,
per citarne solo alcune. Durante le giornate dedicate alla
fotografia, gli organizzatori organizzano anche approndimenti e
interviste; quest'anno abbiamo assistito ad un convegno dal titolo
“Etica e fotografia: un rapporto complesso” alla presenza di Elio
Franzini, Sandro Jovine, Gianmarco Maraviglia, Pirtro Collini, Lucy
Conticello, Marco Capovilla e Emanuela Mirabelli.
Riportiamo, per voi, alcuni interventi.
Elio Franzini inizia citando Walter
Benjamin il quale soteneva che la fotografia non ci fa cogliere il
senso della realtà perchè è una risproduzione della stessa.
Restituendo una interpretazione della realtà, non si consegna una
verità reale. Ma la dimenticanza consiste nel fatto che la
fotografia è una RAPPRESENTAZIONE per cui, quando si parla di
fotografia o di un'immagine con una valenza comunicativa, la loro
caratteristica è quella di racontare qualcosa che sta dietro, che
rinvia ad un senso che non si esaurisce con l'immagine in sé. Per
questo motivo tali immagini possono avere anche una certa
pericolosità per il pubblico: qual è, infatti, il loro limite? C'è
un limite per la rappresentazione?
C'è un modo etico POSITIVO che è
quello di far intuire la storia sottostante; in questo caso
l'immagine è simbolica, è una struttura di rinvio a qualcos'altro.
Ma c'è anche un modo etico NEGATIVO: qui il fotografo deve chiedersi
se la realtà ripresa è comunicativa oppure se è irrapresentabile.
Alcuni oggetti non andrebbero ripresi perchè offenderebbero la
sensibilità degli spettatori? Kant risponde a questa domanda,
ponendo un limite soggettivo alla rappresentazione: non possiamo
rappresentare ciò che ingenera in noi disgusto (che è un rifiuto
anche fisico perchè i nostri sensi non accettano quell'immagine).
La risposta del filosofo, però, non è
del tutto soddisfacente perchè c'è un altro problema: Lessing, già
nel '700, scrive un Manifesto dell'immagine moderna in cui la
rappresentabilità o meno di una scena dipendeva dai segni da cui era
costituita. I segni dell'immagine sono icnici (non diacronici) per
cui noi spettatori non recepiamo l'immagine come brutta o violenta.
Ciò significa che il mondo delle immagini è pericoloso quando
rappresenta lo sgardevole perchè l'immagine stessa non ha
intrinsecamente quei segni che fanno accettare allo spetttaore ciò
che è disturbante.
E' anche vero, d'altra parte, che il
disgustante mette in luce la nostra mancanza di accettazione del
Male. Il pittore Paul Klee si chiedeva: bisogna che tutto sia
conosciuto? La risposta del Prof. Franzini è: “Io non lo credo”.
Pietro Collini lancia alcune
provocazioni. Vedere, registrare, mostrare: questo sarebbe il motto
del bravo fotografo. Ma questo non è possibile perchè l'obiettività
assoluta non esiste, dato che – attraverso il background culturale,
la fede politica o la religiosità – il fotografo è condizionato
dalla propria vita, dalle esperienze, dalle opinioni e da questo
nascono le manipolazioni delle immagini e dell'opinione pubblica.
Trovare sempre temi e stili nuovi:
questo è l'imperativo della fotografia moderna e questo ha generato
anche un'ansia nel professionista che – soprattutto da quando la
fotografia si è accostata alla politica – ha iniziato ad usare
maggiormente la tecnica (luci e colori), finendo col distaccarsi
progressivamente dalla documentazione della realtà.
Marco Capovilla fa riferimento ai
principi etici del giornalismo perchè anche la Fotografia deve
adottarne i principi e le logiche. Esiste un codice di autodisciplina
(che non è una legge dello Stato) affidato alle associazioni di
categoria (la deontologia professionale), secondo cui anche il
fotografo deve aderire ai fatti, deve essere onesto e imparziale,
autonomo e indipendente e deve avere umanità nei confronti dei
soggetti deboli rappresentati e consapevolezza della responsabilità
sociale del proprio operato. Questo principi, come sappiamo, vengono
spesso disattesi e con la fotografia è più facile violarli perchè
le immagini sono maggiormente manipolabili grazie alla tecnologia.
Gianmarco Maraviglia dirige una
rivista che si chiama “ECHO” perchè i grandi eventi di attualità
lasciano un'eco per cui lui e i suoi collaboratori raccontano le
conseguenze di tali eventi.
Racconta di un progetto intitolato
“Break the silence” realizzato in Egitto, un paio di anni fa. Per
realizzarlo ha ascoltato molto musica hip hop, ha seguito i ragazzi
che usano gli skates e fanno parkour, ha frequentato il modo dei
tatuatori: ha, cioè, ripreso un mondo underground egiziano,
strettamente legato alla rivoluzione e ha dimostrato, con i suoi
scatti, che quei giovani stavano mettendo in atto non tanto una
rivoluzione politica, ma una rivoluzione socila,e culturale e di
impegno civile.
Poco prima della sua partenza per
l'Egitto, racconta Maraviglia, riceve una telefonata di intimidazione
da parte dei Fratelli musulmani. Lui parte ugualmente e realizza il
progetto. Viene contattato, dopo qualche tempo, dal Washington Post
che pubblica le sue foto e, nel giro di qualche minuto, il suo
account di Facebook viene riempito di insulti, soprattutto in linga
araba. Cos'era successo? Era successo che la testata principale
egiziana, El Watan, aveva preso le foto del Washington Post,
modificate, manipolando titolo e articolo e aveva strumentalizzato
politicamente il reportage.
Il fotografo racconta anche di
un'esperienza professionale sui rifugi siriani di origine armena. Per
realizzare questo progetto, ha cercato alcuni sopravvissuti alla
battaglia di Kessab ed entra in contatto con persone che erano
riuscite a scappare grazie all'aiuto di un'associazione: tra queste
c'era un ragazzino che gli racconta la propria storia terribile.
Appena usciti dalla ONG, il ragazzino gli passa un numero di telefono
per prendere un appuntamento da soli: durante l'incontro dà al
fotografo una versione totlamente diversa. Racconta che, in realtà,
lui era scappato per sfuggire all'esercito di Assad che aveva messo
in mano a tutti i bambini e ragazzi un fucile, ma lui non voleva
andare a combattere al confine con la Turchia.
Questo esempio mette in luce il serio
problema della propaganda.