Di
Enrico Campofreda (da Agoravox.it)
Mattinata d’occupazione a
Istanbul al quartier generale della Koza İpek
Holding’s media (quotidiani Bugün e Millet,
più Bugün Tv e Kanaltürk). La
polizia è giunta in forze alle quattro del mattino, s’è
introdotta nell’edificio che ospita le redazioni, ha oscurato i
canali televisivi (“cari telespettatori non sorprendetevi se
fra poco vedrete la polizia nei nostri studi” annunciava il
conduttore), impedito l’uscita dei giornali. Applicava
un’ordinanza del tribunale che pone la struttura sotto la “tutela”
di Turkuvaz Media Group, un editore filogovernativo che diventa
fiduciario, e di fatto censore, del gruppo concorrente accusato di
sostegno al terrorismo. I cronisti ancora presenti nelle redazioni
sono diventati ostaggio degli agenti in borghese, mentre a quelli
accorsi in sostegno veniva impedito l’accesso nel luogo di lavoro.
Quando la tensione è salita sono stati bersagliati con gas
lacrimogeni e urticanti e cannonate d’acqua assieme a decine di
cittadini radunati per protesta sotto la sede. Mahmut Tanal, un
avvocato del partito repubblicano, ha provato a mediare col capo
dell’antisommossa presente in strada, non c’è stato nulla da
fare. Agli scontri, peraltro sedati dopo non molto, sono seguiti
fermi e arresti.
Il conflitto con l’apparato
mediatico vicino al movimento gülenista Hizmet è in
atto da tempo, ma non è l’unico perché nel mirino di Erdoğan
c’è ormai ogni voce d’informazione che si smarca dal coro
d’appoggio e propaganda al suo sistema di potere. Il recente
rilascio del direttore del quotidiano Zaman, Bulent Kenes, è solo
un diversivo, visto che l’attacco alla libertà di stampa è
totale e senza precedenti. Ovvero riporta alla Turchia piegata dalla
tipologia di dittatura militare e fascistoide del buio trentennio
Sessanta-Ottanta. L’hanno sottolineato alcuni deputati del partito
repubblicano che denunciavano la totale illegalità dell’azione
poliziesca anche nei loro confronti, visto che gli è stato comunque
impedito l’accesso all’edificio della holding dove s’erano
recati per osservare quanto stesse accadendo. “Questo è stato
di polizia” ha tagliato corto il parlamentare del Chp Barış
Yarkardaş. Mancano quattro giorni all’apertura delle urne e il
partito di maggioranza (Akp), che ha evitato volutamente qualsiasi
tentativo d’accordo con altre formazioni, sceglie di giocarsi il
tutto per tutto. Punta a recuperare terreno, per quanto i sondaggi
non gli siano favorevoli. Dicono che rischia di subire un ulteriore
calo di consensi dopo la flessione dello scorso giugno che l’ha
privato di quegli ottanta deputati (ottenuti dall’Hdp, che
riunisce filo kurdi e sinistra) con cui ambiva di trasformare la
nazione in Repubblica presidenziale.
Il piano
erdoğaniano sembra sfuggire di mano al presidente, lanciato
in un’escalation di autoreferenzialità autoritaria. Ai suoi acuti
repressivi o, come ritengono vari commentatori, in sintonia con essi,
s’aggiungono le trame oscure che diffondono terrore. La
repressione, di cui la quotidianità è costellata con persecuzioni e
divieti, trova nella libertà d’espressione un bersaglio
macroscopico, ma cerca vittime egualmente in oppositori e avversari
politici: dai kurdi, guerriglieri e pacifisti alla Demirtaş, ai
gruppi marxisti armati e non, agli ex alleati seguaci
dell’autoesiliato imam Gülen. L’abisso della paura introdotta
dalle bombe sposta lo scontro sul terreno psicologico, lo trasferisce
su un livello nel quale solo la coscienza socio-politica unita alla
forza d’animo di attivisti e militanti, votati peraltro a diventare
bersagli, può tenere. Uno scontro impari, perché punta a creare
defezioni fra i cittadini che reclamano democrazia e un’azione
politica normale, basata sul dibattito, la dialettica, la critica.
Nel delirio d’onnipotenza che caratterizza la sua azione Erdoğan
cerca d’impedirlo. A ogni costo. Polarizza e spacca il Paese, non
combatte il terrore, cavalca i timori, chiede una delega per andare
avanti da solo contro tutti.