"Alla ricerca di Fatima: una storia palestinese" narra la vita di Ghada Karmi, medico palestinese, che trascorre l'infanzia in un sobborgo benestante di Gerusalemme con due fratelli, i genitori e il cane Rex, affidata alle cure della domestica Fatima. Quando la famiglia è costretta a fuggire in Inghilterra a causa delle crescenti violenze degli ebrei nei confronti della popolazione araba, Ghada deve imparare a convivere con la perdita progressiva e definitiva del paese in cui è nata, sostituito da Israele. L'impatto con l'Inghilterra non è troppo traumatico: la scelta di privilegiare l'identità inglese è naturale e all'inizio risolutiva. Quando, ormai laureata in medicina, sceglie di sposare un inglese, Ghada difende il suo matrimonio agli occhi della famiglia tradizionalista e giudicante, difendendo allo stesso tempo la fittizia identità inglese che ha attribuito a se stessa e rifiutando in toto quella araba. Ma ben presto le contraddizioni di una tale decisione esplodono in tutta la loro violenza: durante la guerra dei Sei giorni Ghada farà i conti con l'indifferenza, o addirittura l'ostilità, di tutti quelli che credeva vicini, marito incluso. Consapevole di non potersi più nascondere e convinta di dover cercare se stessa scavando nel passato, Ghada si getta anima e corpo nell'impegno politico, quasi cercasse un'assoluzione per aver trascurato la storia del suo popolo: negli anni Settanta inizia a lottare per far sentire la voce dimenticata degli esuli palestinesi, si reca nei campi...
Una
lettura psicoanalitica di Alla Ricerca di Fatima: Una Storia
palestinese, memoir di Ghada Karmi
di
Flavia Donati
La vita di Ghada Karmi ha attraversato gli snodi drammatici della storia del suo popolo ed è stata attraversata e travolta insieme alla sua famiglia e alla sua comunità.
Parlo di una donna. Parlo di una storica.
Historia, nel suo significato originale usato da Erodoto, vuole dire "conoscenza".
Ghada Karmi ha attraversato il trauma della catastrofe del suo popolo, superando, come mostrerò, il diniego transgenerazionale ed arrivando con la sua scrittura a rendere testimonianza dell'orrore che è accaduto "là e allora".
I disastri causati dall'uomo e dalla mano dell'uomo, le guerre, le persecuzioni politiche ed etniche, mirano all'annichilimento dell'esistenza sociale e individuale dell'essere umano. Questa è la de-umanizzazione cui il lavoro paziente dello storico si oppone. Lo storico integra le esperienze traumatiche in un atto narrativo.
Questo ha fatto, questa donna-studiosa, Ghada, di cui vi parlerò.
Il mio scriverne è un rendergliene grazia.
Lo storico Walid Khalidi ha dovuto scrivere “All That Remains: The Palestinian Villages Occupied and Depopulated by Israel in 1948”, pubblicato nel 1992, per salvare alla memoria ciò che il sionismo e, poi, lo stato israeliano hanno rubato (case, terre, acqua, alberi, ulivi millenari) hanno distrutto (vite umane, villaggi popolati e inermi) hanno espulso (centinaia di migliaia di abitanti resi profughi o esuli come Ghada) per costruirci sopra cancellandone i nomi arabi per azzerarne anche il ricordo. Per negarne l’ esistenza.
La vita di Ghada inizia come una bimbetta riflessiva, con tanti legami affettivi ben radicati nella comunità di appartenenza, con una nutrice che è per lei una vera àncora di accoglienza e sicurezza e con un cane, Rex, compagno di giochi e di intesa. Parlerò della sua famiglia e dell’intreccio con le complessità di lutti e della loro impossibile elaborazione.
Questa bimbetta un giorno perde tutto. Messa di fretta in un taxi, lasciando Gerusalemme senza il tempo per capire e per un vero addio, vede per l’ ultima volta, una mattina all’alba, Fatima, la nutrice e Rex; li vede figure sempre più piccole in lontananza finché si perdono. Non le vedrà mai più e non saprà nemmeno mai quale fu il loro destino (pag. 113). Era l’ aprile del 1948. La nakba, la catastrofe. Confusi, storditi, ammassati, annegati nel dolore e nella paura, prima tappa Damasco, poi Londra.
Il libro intreccia la grande storia e la storia personale. Ghada Karmi è medico e storica accurata, dallo sguardo ampio ed è mossa da una dolorosa sincerità personale sui suoi percorsi, ingenuità, errori, illusioni, fallimenti e ritrovamenti della strada perduta.
La cornice della grande storia: La Dichiarazione di Balfour novembre 1917, in merito alla spartizione dell’ impero ottomano, venne mandata dall’allora Ministro degli Esteri inglese Balfour a Lord Rothschild inteso come rappresentante della comunità ebraica inglese e referente del movimento sionista. In questo documento ufficiale il governo inglese guardava con favore alla creazione di un focolaio ebraico in Palestina. Dice Ghada Karmi: ”con quella dichiarazione il governo inglese aveva promesso ad un popolo la terra di un altro, benché non potesse rivendicare alcun diritto di proprietà su quella terra” (pag. 71). La Dichiarazione di Balfour fu inserita nel trattato di Sevres del 1920 che stabiliva la fine delle ostilità con la Turchia e assegnava la Palestina al Regno Unito, successivo titolare del Mandato della Palestina. Nei primi capitoli del libro si seguono le vicende prima della trasformazione di Gerusalemme nel XIX secolo: “quando si stabilirono le prime missioni cristiane…in appena cinquant’anni costruirono centinaia di chiese, scuole, ospedali…” (pag. 31) . La ferrea occupazione del mandato inglese, attivamente contrastata da movimenti di resistenza palestinese “dal 1936 al 1939 la protesta palestinese contro la linea politica seguita dalle autorità del mandato britannico che governavano il paese era inarrestabile…ma i capi della rivolta non riuscirono ad accordarsi su una strategia comune per sconfiggere l’ avanzata ebraica né tantomeno gli inglesi...” (pag. 10-11) “i due partiti pro Husseini e pro Nashashibi, ai ferri corti, stavano conducendo la resistenza palestinese alla disfatta, lasciando il campo agli ebrei immigrati, ogni giorno più decisi a prendere il potere” (pag. 44). La progressiva migrazione ebraica in Palestina: “Prima dell’ inizio dell’immigrazione ebraica in Palestina nel 1880 la comunità (ebraica ndr) contava circa 3.000 persone, su un totale di 350.000 abitanti nel paese” (pag. 37). Quella piccola comunità che Ghada Karmi chiama “i nostri ebrei” era indistinguibile dagli arabi, perché ne parlava la lingua ed era fisicamente indistinguibile. Ma si ingrossò il fiume della migrazione ebraica sotto gli occhi dell’ occupazione militare del mandato inglese. Ebrei poveri degli anni ’20-’30…ma anche ebrei benestanti “ricevevano sostanziosi aiuti economici dal governo britannico” (pag. 13) diventavano sempre più possidenti. Ghada dice: “lasciati a se stessi, i popoli si mescolano. Matrimoni misti, amicizie tra i vicini di casa …..” ( pag. 45)…..
Ma i sionisti avevano un altro piano. Il JNF (il Fondo Nazionale Ebraico) fondato nel 1901 al congresso sionista di Basilea, mappò la terrà e pianificò la sua espropriazione. Le strutture politiche e militari sioniste, inizialmente addestrate ed armate dall’esercito inglese, progressivamente diventarono il braccio armato (Haganah, esercito clandestino, Irgun, Banda Stern) contro la popolazione palestinese e contro l’esercito inglese che divenne obbiettivo di attacchi sanguinari (ad es King David Hotel quartier generale del governo britannico in Palestina fu devastato da una bomba nel luglio 1946 (pag. 54), o per es la Goldsmith House sede degli ufficiali britannici (pag. 61). Dice Ghada Karmi: “Le autorità inglesi sembravano sopraffatte dalla ferocia delle aggressioni degli ebrei”.
La popolazione palestinese, la comunità intorno a Ghada, la sua famiglia divennero sempre più terrorizzate dagli attacchi delle milizie sioniste (ai mezzi pubblici ad Haifa, alla folla alla Porta di Damasco, ai cinema, ai caffè, agli Hotel ritenuti sedi delle deboli organizzazioni palestinesi di resistenza, divise e malamente organizzate e dirette, il massacro di Deir Yassin il 9 aprile 1948…) fino a quel giorno di aprile del 1948 quando per non morire, lasciarono la loro terra.
Lascio alle pagine di Ghada la storia della fine del Mandato britannico e la Dichiarazione Onu e il dramma della popolazione palestinese, di quella che rimase nel territorio e di quella che diventò esule, 800.000 donne, uomini e bambini e dei 531 villaggi distrutti.
Io mi devo occupare della storia piccola, della storia personale che si dipana in questa grande storia. Vorrei proporvi 4 aree di lettura di questa storia per entrare nei suoi aspetti psicologici, per come io ho cercato di comprenderli. Spero che Ghada senta il mio rispetto per lei e per l’onestà del suo racconto, lo senta anche se devo concentrare in pochi paragrafi l’ entrare in grandi complessità e in intense emozionalità e ciò lo sento rischioso.
1)Aree
di fragilità pre-nakba
2) Il trauma ed i suoi fattori PRE-disponenti l’impossibilità di una elaborazione compiuta
3) I tentativi difensivi (per es: pseudo-integrazione post-migratoria)
4) La riconnessione con la propria storia
2) Il trauma ed i suoi fattori PRE-disponenti l’impossibilità di una elaborazione compiuta
3) I tentativi difensivi (per es: pseudo-integrazione post-migratoria)
4) La riconnessione con la propria storia
La bambina Ghada viveva nella sua famiglia con il papà, la mamma, una sorella nata nel ‘32 ed un fratello nato nel ’36 più grandi di lei nata nel nov ’39 . Immersa, radicata in una comunità ricca di scambi umani e di attività commerciali.
Ghada guarda alla sua storia da adulta e la pietà per i dolori della vita dei suoi genitori le permette di ricordare con tenerezza aspetti della dinamica intra-famigliare che avrebbero potuto essere ricordati con venature critiche che si permette solo in alcune pagine, dimostrando la sua profonda consapevolezza e sincerità.
Ma non solo questo: questo sguardo pietoso è un primo movimento di elaborazione del lutto che le permette di attingere alla memoria sia della sua storia individuale sia alla grande storia.
Ghada chiede a Fatima “dimmi cosa succede?” (pag. 107) quando l’angoscia nella comunità cresce. Non lo chiede alla madre, non lo chiede al padre. Per lei l’àncora è Fatima. La madre è una donna volitiva e intelligente ma sembra distratta dalla sua intensa necessità di interazioni sociali che inseriscono la famiglia in un tessuto affettivo sociale stretto ma lasciano Ghada un po’ solitaria. Ghada dice: “io non venivo notata da nessuno, mi vedevo pelle ed ossa, mi sentivo brutta ed ero gelosa marcia” dei cuginetti coccolati dalla madre e dei maschi che avevano diritto a trattamenti speciali (pag. 22)...“dai bambini, come dagli adulti ci si aspettava che se la cavassero da soli”….”la vita senza Rex e Fatima era impensabile” (pag. 76).
Queste frasi danno l’ immagine di una bambina che non trovava sufficiente accoglimento e attenzione e che non si sentiva vista dagli occhi della madre. E quindi poteva trovare difficoltà nella formazione dell’immagine di sé. Un vissuto di svalutazione, di insufficiente rispecchiamento e rassicurante conferma che può rendere il bambino più esposto a inquietudini-insicurezza-autocriticità nel suo senso di sé stesso e all’ ansia di rifiuto nella relazione con il mondo esterno. L’ancoraggio a Fatima è di tipo affettivo-protettivo, una grande tenerezza calda. Fatima era una donna saggia ma nella società palestinese del tempo la posizione di Fatima era svalutata: “Anche se ero piccola avevo già assimilato la tripartizione usuale della società palestinese: in fondo alla scala c’era la gente di campagna, poi i proprietari terrieri e in cima gli abitanti delle città” (pag. 17)… “fin dall’ inizio considerai Fatima come mia madre…sapevo che lei non era la mia vera madre ma nutrivo un affetto così profondo che i miei fratelli mi canzonavano: Non sei mica nostra sorella…Ti abbiamo trovata in giardino…i tuoi genitori sono contadini come Fatima…prima o poi ti rimandiamo da loro...”… “piangevo disperata”...”mia madre li rimproverava”…”Ma il mio strazio era solo in parte dovuto al fatto di non voler essere considerata una reietta nella mia stessa famiglia. In maggior misura mi turbava l’ idea di essere associata ai contadini”...( pag. 16). Quindi già da allora il modellamento sull’immagine della figura femminile di riferimento era complessa. Complessa la formazione dell’ immagine di sé. Da una parte Ghada trovava la sicurezza, pace, tenerezza e accoglienza incondizionata con Fatima, dall’altra era in conflitto con quell’ immagine di riferimento da introiettare in quanto svalutata e che l’avrebbe messa fuori dalla famiglia.
Il rapporto con il padre è tenero. Siede sulle sue ginocchia quando la madre esce e lui legge, gli parla anche se lui non si sa quanto ascolti. E’ un uomo responsabile con aspirazioni intellettuali e lavora all’interno dell’ entourage inglese cosa che gli crea forti imbarazzi per la sua forte collocazione leale dentro la sua comunità. Una complicazione che lo accompagnerà anche dopo la migrazione in Inghilterra perché troverà lavoro nella divisione araba della BBC. Ghada dice: “i padri hanno un’importanza cruciale nella nostra cultura. Rappresentano la principale figura di riferimento, l’ autorità, sono gli artefici della reputazione della famiglia, l’ unico suo mezzo di sostentamento economico e la base della sua identità” (pag. 76). Ma il padre, lui stesso vittima della grande storia che si abbatte sulla sua terra dice: “non andremo da nessuna parte e nessuno farà nulla ai miei libri” (pag. 83). E quindi che cosa succede alla bambina Ghada verso questa autorità che doveva essere, per lei ancora piccola, guida autorevole nella lettura della realtà ed efficace protezione consapevole? Lo si perdona in quanto vittima ma: che ferita lascia? Quanto traumatica è la perdita improvvisa dell’aura di onnipotenza che i nostri genitori dovrebbero perdere un po’ alla volta nel corso della nostra adolescenza mentre ci attrezziamo a navigare da soli la realtà?
Queste considerazioni ci aiutano a capire meglio il senso di fragilità e di dubbio identitario che sarà parte della fase successiva, post-migratoria.
Sia la mamma che il papà di Ghada hanno difficoltà a parlare delle esperienze e di ciò che succede a loro e nei loro figli sia prima della nakba che negli anni del post-migrazione. Ghada ne parla con stupore, con tristezza, a volte con dolore arrabbiato. “nessuno dei due sembrava interessato alle nostre vite” (pag. 205) “non riesco a perdonare i miei genitori per averci gettato con tanta noncuranza in simili sabbie mobili culturali e politiche” (pag. 191) “lacrime di papà per che cosa? Era impossibile dirlo perché papà non parlava mai dei suoi sentimenti” (pag. 144). Noi lettori possiamo cercare di immaginare lo stato di angoscia continua e sotterranea nel quale i genitori vivevano intuendo, forse non a livello conscio, che il loro mondo era minacciato e sarebbe stato distrutto. Forse non erano in grado di ascoltare perché non potevano dare risposte. Non potevano avvicinarsi al lutto che stavano per vivere, stavano vivendo, avevano vissuto e avrebbero continuato a vivere. Ma se guardiamo l’esperienza dalla parte di Ghada possiamo sentirci vicini alla sua esperienza interiore. I bambini hanno bisogno di essere aiutati a mettere in parole le loro esperienze perché vengano accolte senza reprimerne le emozioni, anzi per aiutarli a capirle e collegarle, per validare le loro risorse per poter affrontare le sfide, per non vergognarsi della paura, per non dover far finta di…. e per consolidare il senso della propria identità. Gli attacchi di panico di cui Ghada ci racconta soffrirà a Londra per molti anni (pag. 186) iniziati al museo delle cere di Madame Tussauds (forse non per caso: tutti come morti, come un cimitero) rimandano forse a questa scissione tra forti emozioni e un insufficiente tentativo di contenimento negli anni formativi attraverso l’ascolto-rassicurazione attraverso la sintonizzazione dell’ adulto-affidabilità della parola dell’ altro.
Gli impatti forti della nostra vita vanno a mettere in evidenza le nostre aree deboli e poi, come Ghada arriverà a fare nel suo percorso, se riusciamo a riconnetterci con le nostre risorse e le correnti dinamiche autentiche della nostra identità abbiamo l’opportunità di riparare, di occuparci in modo curativo di quelle aree friabili.
2)
Il trauma: Palestina Damasco Londra
Perdita del mondo che è la sua vita. Affetti, legami identitari, comunità di riferimento. Odori. Suoni. Paesaggi. Fisionomie. Arriva l’ Aprile 1948.
Prima il montare di una paura che impregna tutti. I genitori erano terrorizzati (pag. 104) i bambini non possono contare su alcuna rassicurazione, conforto, spiegazione su ciò che sta avvenendo e potrà essere di loro: “nemmeno il tempo di dire addio alla nostra casa, al nostro paese a tutto ciò che avevamo amato un tempo” (pag. 113). La fuga a Damasco dove c’erano i nonni.
C’è un dolore che tutto pervade ma un meccanismo difensivo, la negazione, che illusoriamente protegge dal dolore ma ne complica enormemente la possibilità di elaborarlo senza eccessive scissioni che invece congelano parti del proprio mondo interno con conseguenze complesse emotive-cognitive-relazionali: “dopo il nostro arrivo a Damasco, nessuno accennò più alla vita di prima. I nostri genitori non parlavano più né di Fatima….nè della casa o di Gerusalemme. Mi sembrava di essere l’ unica a serbarne il ricordo…così stordita e confusa decisi di seguire il loro esempio e tenni per me la confusione. La mia devozione a Fatima, alla nostra casa e alla mia infanzia divennero una questione privata, un segreto da custodire e proteggere.” (pag. 126)…”i ricordi congelati nel tempo” (pag. 161).
“Scappare è fare il gioco degli ebrei, rimanere è esporre i figli alla morte” (pag. 82). Fuggiti lasciando gli anziani indietro per salvare i bambini: come si può elaborare o convivere con una tale colpa? Come affiorerà o si cercherà di non farla affiorare?
Poi, dopo varie traversie, e “una temporanea follia dei genitori” (pag. 145) la famiglia arriva a Londra. A Londra la famiglia Karmi tiene una stretta routine araba; la infelicissima mamma entra in una vera fase depressiva (pag. 167): isolata, rifiuta per anni di attrezzare con il riscaldamento la casa gelida e umida; rifiuta di considerare quella casa, quel luogo come destinazione permanente, definitivo, finale. Non imparerà mai l’inglese, e non stringerà mai amicizie con gli inglesi. Molto diversamente da come aveva fatto in Palestina dove le porte di casa erano sempre aperte e i vicini di casa erano amici al di là di appartenenze e caratteri. Mai mise piede nella scuola dei figli (pag. 179) e spegneva la musica classica che sempre aveva allietato la casa in Palestina (pag. 183).
Come si può elaborare una perdita così globale e drammatica? Il fallimento della migrazione nella generazione adulta si appoggia su una prevalenze di un dolore che eccede la proprie capacità di sopportarlo, sulla negazione come mezzo difensivo
prevalente, sulla natura obbligata dell’esilio, sulla globalità della perdita di ciò che ancora esiste ma è stato devastato e rubato. Gli invasori vivono nella loro casa. Il presente viene congelato perché non è più il passato e perché non deve diventare quel futuro. Congelamento dell’oggetto perduto insieme a ciò che di noi si esprimeva nella relazione con esso.
Idealizzazione del mondo perduto-estraniazione e denigrazione del mondo presente sono oscillazioni che rendono difficile la vita anche ai ragazzi che invece escono da casa, vanno a scuola, devono imparare la lingua e devono negoziare il loro inserimento in una nuova cultura, con nuovi valori, abitudini, validazioni.
Infatti come scrive Faimberg (2006) una negazione trasmessa di generazione in generazione impedisce il più delle volte di elaborare il lutto delle varie catastrofi del ‘900. La cripta di questo lutto incistato, chiusa quasi irrimediabilmente, dà luogo ad uno spazio intra-soggettivo e inter-soggettivo dove ciò che è negato ritorna nella forma di una mutilazione, in senso stretto ed in senso lato. Ma non sono solo i bambini ad essere “mutilati” della possibilità di affidarsi ai genitori: i genitori sono a loro volta “mutilati” non solo della loro patria ma della possibilità di essere per i loro figli punti di riferimento forti. Il terrore li fissa nella negazione. Gli adulti, si sa, sono meno plastici dei bambini, incistano il trauma in una cripta irrevocabilmente.
Quali operazioni mentali Ghada deve fare per poter continuare a vivere?
Perdita del mondo che è la sua vita. Affetti, legami identitari, comunità di riferimento. Odori. Suoni. Paesaggi. Fisionomie. Arriva l’ Aprile 1948.
Prima il montare di una paura che impregna tutti. I genitori erano terrorizzati (pag. 104) i bambini non possono contare su alcuna rassicurazione, conforto, spiegazione su ciò che sta avvenendo e potrà essere di loro: “nemmeno il tempo di dire addio alla nostra casa, al nostro paese a tutto ciò che avevamo amato un tempo” (pag. 113). La fuga a Damasco dove c’erano i nonni.
C’è un dolore che tutto pervade ma un meccanismo difensivo, la negazione, che illusoriamente protegge dal dolore ma ne complica enormemente la possibilità di elaborarlo senza eccessive scissioni che invece congelano parti del proprio mondo interno con conseguenze complesse emotive-cognitive-relazionali: “dopo il nostro arrivo a Damasco, nessuno accennò più alla vita di prima. I nostri genitori non parlavano più né di Fatima….nè della casa o di Gerusalemme. Mi sembrava di essere l’ unica a serbarne il ricordo…così stordita e confusa decisi di seguire il loro esempio e tenni per me la confusione. La mia devozione a Fatima, alla nostra casa e alla mia infanzia divennero una questione privata, un segreto da custodire e proteggere.” (pag. 126)…”i ricordi congelati nel tempo” (pag. 161).
“Scappare è fare il gioco degli ebrei, rimanere è esporre i figli alla morte” (pag. 82). Fuggiti lasciando gli anziani indietro per salvare i bambini: come si può elaborare o convivere con una tale colpa? Come affiorerà o si cercherà di non farla affiorare?
Poi, dopo varie traversie, e “una temporanea follia dei genitori” (pag. 145) la famiglia arriva a Londra. A Londra la famiglia Karmi tiene una stretta routine araba; la infelicissima mamma entra in una vera fase depressiva (pag. 167): isolata, rifiuta per anni di attrezzare con il riscaldamento la casa gelida e umida; rifiuta di considerare quella casa, quel luogo come destinazione permanente, definitivo, finale. Non imparerà mai l’inglese, e non stringerà mai amicizie con gli inglesi. Molto diversamente da come aveva fatto in Palestina dove le porte di casa erano sempre aperte e i vicini di casa erano amici al di là di appartenenze e caratteri. Mai mise piede nella scuola dei figli (pag. 179) e spegneva la musica classica che sempre aveva allietato la casa in Palestina (pag. 183).
Come si può elaborare una perdita così globale e drammatica? Il fallimento della migrazione nella generazione adulta si appoggia su una prevalenze di un dolore che eccede la proprie capacità di sopportarlo, sulla negazione come mezzo difensivo
prevalente, sulla natura obbligata dell’esilio, sulla globalità della perdita di ciò che ancora esiste ma è stato devastato e rubato. Gli invasori vivono nella loro casa. Il presente viene congelato perché non è più il passato e perché non deve diventare quel futuro. Congelamento dell’oggetto perduto insieme a ciò che di noi si esprimeva nella relazione con esso.
Idealizzazione del mondo perduto-estraniazione e denigrazione del mondo presente sono oscillazioni che rendono difficile la vita anche ai ragazzi che invece escono da casa, vanno a scuola, devono imparare la lingua e devono negoziare il loro inserimento in una nuova cultura, con nuovi valori, abitudini, validazioni.
Infatti come scrive Faimberg (2006) una negazione trasmessa di generazione in generazione impedisce il più delle volte di elaborare il lutto delle varie catastrofi del ‘900. La cripta di questo lutto incistato, chiusa quasi irrimediabilmente, dà luogo ad uno spazio intra-soggettivo e inter-soggettivo dove ciò che è negato ritorna nella forma di una mutilazione, in senso stretto ed in senso lato. Ma non sono solo i bambini ad essere “mutilati” della possibilità di affidarsi ai genitori: i genitori sono a loro volta “mutilati” non solo della loro patria ma della possibilità di essere per i loro figli punti di riferimento forti. Il terrore li fissa nella negazione. Gli adulti, si sa, sono meno plastici dei bambini, incistano il trauma in una cripta irrevocabilmente.
Quali operazioni mentali Ghada deve fare per poter continuare a vivere?
3)
La pseudo-integrazione post-migratoria
Non può accettare la denigrazione del presente se vuole vivere, congela ricordi e perdite e gli elementi fondanti la sua identità culturale. “iniziai a cancellare il passato come se non fosse mai esistito...mi chiedo se i nostri genitori stessero cercando di favorire quella cancellazione un po’ per non rivivere il dolore e il trauma e un po’ forse, per una ragione più oscura e diversa. Magari a spingerli era la vergogna per aver disertato la madre patria, per averla lasciata, indifesa, nelle mani dell’invasore” (pag. 193). Verso chi era stato abbandonato, lasciato là. Inizia per Ghada un lungo processo di adattamento che potremmo chiamare camaleontico, facilitato dalla sua frequenza in una scuola cattolica dove le suore la trattavano con una certa dolcezza, un gusto di accoglienza femminile quasi un’associazione a Fatima. La sua migliore amica è Leslie e viene ben accolta dalla sua famiglia ebrea.
“Mi ero fatta l’ idea che tutto quello che era arabo…era mediocre e non meritava il mio interesse” (pag. 208). La svalorizzazione è tra i sintomi del lutto patologico. “avevo fatto mio il risentimento verso gli immigrati, come se io e la mia famiglia appartenessimo alla popolazione indigena…secondo lo stesso principio volevo confondermi con gli inglesi, imitare il loro comportamento, il loro modo di vivere….non mi sfiorò mai il pensiero di essere io stessa oggetto di quel disprezzo che gli inglesi provavano per i miei compagni immigrati e nemmeno che, in quanto palestinese, era proprio a loro che dovevo la perdita recente del mio paese…(208-209).
Qui va messo in luce il doppio livello della scissione e della negazione: una negazione della perdita da parte dei genitori e una negazione della storia del popolo palestinese da parte degli inglesi, nei media e nell’insegnamento scolastico, che volevano dimenticare il loro ruolo pre-nakba e stavano sempre di più promuovendo, per associazione coloniale, Israele a paese amico dimenticando tutta la storia del mandato britannico in Palestina finita con il loro sangue oltre a quello palestinese. Infatti i due momenti cruciali di rottura del suo percorso “adattativo” dal ’49 al ‘67 sono legati alla guerra per lo stretto di Suez del ottobre-novembre 1956 e alla cosiddetta guerra dei 6 giorni del 1967. Queste crisi internazionali vedono emergere nell’ambiente sociale e scolastico intorno a Ghada forti spinte di alleanza tra gli ebrei inglesi e Israele in aperta ostilità anti-araba e contro l’Egitto di Nasser, e una chiara collocazione inglese in alleanza anti-araba insieme agli altri stati post e neo-coloniali. “gli ebrei inglesi iniziarono con il ‘67 il loro coming out per appartenenza religiosa e per i loro legami con Israele (pag. 351). Ghada subisce penose esperienze di bullismo a scuola (pag. 262) e raffreddamenti nelle sue relazioni sociali: si sente dire “ti sembra giusto quello che ha fatto il vostro Nasser?” (pag. 252). Scrive: “Mi ci sarebbero voluti un altro decennio e un’altra crisi profondissima perché quell’edifico alla fine crollasse. Ma, senza che lo sapessi, a seguito della guerra di Suez, le prime crepe si erano già aperte.” (pag. 268).
Ghada per un po’ non aveva avuto scampo: aveva cercato di inserirsi per assimilazione. Ha la cittadinanza nel ’52. Vive come se avesse una doppia vita. Si accentua un distacco affettivo dai suoi genitori che vivono in un mondo a parte, soprattutto la madre. Ad un certo punto viene accolta con affetto e calore dalla famiglia di John che la vuole sposare. Ghada tentenna perché “sa” che John per lei è la casa inglese che le dà un senso di appartenenza ma, credo, sentisse la voragine che sottostava al suo rapporto. Quel senso di appartenenza si basava sulla negazione della sua storia - di cui non si parlava - della sua identità araba originaria e delle ragioni storiche della sua forzata migrazione delle quali non si parlava (pag. 332).
Ghada sceglie inconsapevolmente come data per le nozze il 15 maggio: la data della nakba. La data della perdita della sua terra ora diventa anche la data del distacco dalla sua famiglia che non riesce ad accettare la sua scelta. Forse il sovrapporre le date è nella scia della negazione. O all’ opposto accendere i riflettori sulla storia.
Ma la grande storia entra di nuovo nella sua vita questa volta ridandole una nuova possibilità di elaborazione e di integrazione personale. È la guerra delle 3 ore…chiamata dei 6 giorni con la disfatta araba e il trionfo di Israele. Nel 1967. Si afferma nel mondo la saldatura tra i colonialismi in funzione anti-araba con la possibilità di oscurare la responsabilità europea nell’olocausto passando agli arabi il ruolo di minaccia agli ebrei.
Momento cruciale con John che le dice: “non posso non ammirare Israele” . Il matrimonio viene travolto ma Ghada fa soprattutto precipitare dentro di sé una crisi profonda, difficile: “adesso mi sentivo doppiamente sola. Era come se quella settimana di guerra mi avesse smascherata. Mi chiedevo chi fossi in realtà”, (pag. 344). Pagine dolorose, turbolente ma che indicano quel lavoro di riconnessione interna alla realtà della propria storia e ai propri legami culturali sotterrati.
Le aree di ambiguità che dobbiamo mantenere - per permettere un adattamento che viene associato alla sopravvivenza, scindendo e sopprimendo aree importanti della nostra identità - è proporzionale alla fragilità della nostra identità, alla quota di vergogna e di autodenigrazione che la minaccia, alle dinamiche collusive dell’ambiente circostante (nella negazione, nella denigrazione, nell’ amnesia) alla violenza dell’esclusione sociale e della punizione in caso di manifestata diversità o critica.
L’integrazione interna (eredità, appartenenza, modelli identificatori, transgenerazionali, la nostra individuazione=creazione della nostra originalità nella fase infantile, i suoi dilemmi…) è l’ unico presupposto per un‘integrazione esterna che non sia basata sulla perdita di parti importanti di noi stessi e su un camaleontismo superficiale.
Israele riuscì attraverso un’articolata e abilissima strategia politico-mediatica a trasformare l’immagine del popolo palestinese, la vittima che era stato espulsa dalla sua terra, nell'immagine di una presenza senza diritti, intrusoria, aggressiva, che andava annullata e distrutta in quanto minacciosa. Gli stati arabi, divisi, con poteri autocratici miopi e disorganizzati, non ebbero mai, dopo Nasser, alcun ruolo nello scacchiere geo-politico dell’area medio-orientale e mediterranea. Ora in Israele con la legge del marzo 2011 lo Stato toglie i fondi statali a quelle istituzioni che commemorino il giorno della fondazione dello stato di Israele come giorno di un loro lutto. Parlare della nakba è proibito a scuola. Cioè i migliaia di palestinesi che sono rimasti in quello che è diventato lo Stato ebraico, non possono ricordare il giorno in cui hanno perso la loro coesione comunitaria e migliaia di loro amici e parenti sono diventati profughi permanenti, alcuni esuli sparsi per il mondo (come la famiglia di Ghada), molti altri, milioni di altri ora vivono ancora in campi profughi senza diritti e senza identità nazionale. Il vero “negazionismo” impedisce alla vittime di essere riconosciute: Ghada scrive “compresi amareggiata che non avevo solamente perso la mia patria ma anche il diritto di piangerla e di volerne a qualcuno perché se ne era appropriato” (pag. 354).
Non può accettare la denigrazione del presente se vuole vivere, congela ricordi e perdite e gli elementi fondanti la sua identità culturale. “iniziai a cancellare il passato come se non fosse mai esistito...mi chiedo se i nostri genitori stessero cercando di favorire quella cancellazione un po’ per non rivivere il dolore e il trauma e un po’ forse, per una ragione più oscura e diversa. Magari a spingerli era la vergogna per aver disertato la madre patria, per averla lasciata, indifesa, nelle mani dell’invasore” (pag. 193). Verso chi era stato abbandonato, lasciato là. Inizia per Ghada un lungo processo di adattamento che potremmo chiamare camaleontico, facilitato dalla sua frequenza in una scuola cattolica dove le suore la trattavano con una certa dolcezza, un gusto di accoglienza femminile quasi un’associazione a Fatima. La sua migliore amica è Leslie e viene ben accolta dalla sua famiglia ebrea.
“Mi ero fatta l’ idea che tutto quello che era arabo…era mediocre e non meritava il mio interesse” (pag. 208). La svalorizzazione è tra i sintomi del lutto patologico. “avevo fatto mio il risentimento verso gli immigrati, come se io e la mia famiglia appartenessimo alla popolazione indigena…secondo lo stesso principio volevo confondermi con gli inglesi, imitare il loro comportamento, il loro modo di vivere….non mi sfiorò mai il pensiero di essere io stessa oggetto di quel disprezzo che gli inglesi provavano per i miei compagni immigrati e nemmeno che, in quanto palestinese, era proprio a loro che dovevo la perdita recente del mio paese…(208-209).
Qui va messo in luce il doppio livello della scissione e della negazione: una negazione della perdita da parte dei genitori e una negazione della storia del popolo palestinese da parte degli inglesi, nei media e nell’insegnamento scolastico, che volevano dimenticare il loro ruolo pre-nakba e stavano sempre di più promuovendo, per associazione coloniale, Israele a paese amico dimenticando tutta la storia del mandato britannico in Palestina finita con il loro sangue oltre a quello palestinese. Infatti i due momenti cruciali di rottura del suo percorso “adattativo” dal ’49 al ‘67 sono legati alla guerra per lo stretto di Suez del ottobre-novembre 1956 e alla cosiddetta guerra dei 6 giorni del 1967. Queste crisi internazionali vedono emergere nell’ambiente sociale e scolastico intorno a Ghada forti spinte di alleanza tra gli ebrei inglesi e Israele in aperta ostilità anti-araba e contro l’Egitto di Nasser, e una chiara collocazione inglese in alleanza anti-araba insieme agli altri stati post e neo-coloniali. “gli ebrei inglesi iniziarono con il ‘67 il loro coming out per appartenenza religiosa e per i loro legami con Israele (pag. 351). Ghada subisce penose esperienze di bullismo a scuola (pag. 262) e raffreddamenti nelle sue relazioni sociali: si sente dire “ti sembra giusto quello che ha fatto il vostro Nasser?” (pag. 252). Scrive: “Mi ci sarebbero voluti un altro decennio e un’altra crisi profondissima perché quell’edifico alla fine crollasse. Ma, senza che lo sapessi, a seguito della guerra di Suez, le prime crepe si erano già aperte.” (pag. 268).
Ghada per un po’ non aveva avuto scampo: aveva cercato di inserirsi per assimilazione. Ha la cittadinanza nel ’52. Vive come se avesse una doppia vita. Si accentua un distacco affettivo dai suoi genitori che vivono in un mondo a parte, soprattutto la madre. Ad un certo punto viene accolta con affetto e calore dalla famiglia di John che la vuole sposare. Ghada tentenna perché “sa” che John per lei è la casa inglese che le dà un senso di appartenenza ma, credo, sentisse la voragine che sottostava al suo rapporto. Quel senso di appartenenza si basava sulla negazione della sua storia - di cui non si parlava - della sua identità araba originaria e delle ragioni storiche della sua forzata migrazione delle quali non si parlava (pag. 332).
Ghada sceglie inconsapevolmente come data per le nozze il 15 maggio: la data della nakba. La data della perdita della sua terra ora diventa anche la data del distacco dalla sua famiglia che non riesce ad accettare la sua scelta. Forse il sovrapporre le date è nella scia della negazione. O all’ opposto accendere i riflettori sulla storia.
Ma la grande storia entra di nuovo nella sua vita questa volta ridandole una nuova possibilità di elaborazione e di integrazione personale. È la guerra delle 3 ore…chiamata dei 6 giorni con la disfatta araba e il trionfo di Israele. Nel 1967. Si afferma nel mondo la saldatura tra i colonialismi in funzione anti-araba con la possibilità di oscurare la responsabilità europea nell’olocausto passando agli arabi il ruolo di minaccia agli ebrei.
Momento cruciale con John che le dice: “non posso non ammirare Israele” . Il matrimonio viene travolto ma Ghada fa soprattutto precipitare dentro di sé una crisi profonda, difficile: “adesso mi sentivo doppiamente sola. Era come se quella settimana di guerra mi avesse smascherata. Mi chiedevo chi fossi in realtà”, (pag. 344). Pagine dolorose, turbolente ma che indicano quel lavoro di riconnessione interna alla realtà della propria storia e ai propri legami culturali sotterrati.
Le aree di ambiguità che dobbiamo mantenere - per permettere un adattamento che viene associato alla sopravvivenza, scindendo e sopprimendo aree importanti della nostra identità - è proporzionale alla fragilità della nostra identità, alla quota di vergogna e di autodenigrazione che la minaccia, alle dinamiche collusive dell’ambiente circostante (nella negazione, nella denigrazione, nell’ amnesia) alla violenza dell’esclusione sociale e della punizione in caso di manifestata diversità o critica.
L’integrazione interna (eredità, appartenenza, modelli identificatori, transgenerazionali, la nostra individuazione=creazione della nostra originalità nella fase infantile, i suoi dilemmi…) è l’ unico presupposto per un‘integrazione esterna che non sia basata sulla perdita di parti importanti di noi stessi e su un camaleontismo superficiale.
Israele riuscì attraverso un’articolata e abilissima strategia politico-mediatica a trasformare l’immagine del popolo palestinese, la vittima che era stato espulsa dalla sua terra, nell'immagine di una presenza senza diritti, intrusoria, aggressiva, che andava annullata e distrutta in quanto minacciosa. Gli stati arabi, divisi, con poteri autocratici miopi e disorganizzati, non ebbero mai, dopo Nasser, alcun ruolo nello scacchiere geo-politico dell’area medio-orientale e mediterranea. Ora in Israele con la legge del marzo 2011 lo Stato toglie i fondi statali a quelle istituzioni che commemorino il giorno della fondazione dello stato di Israele come giorno di un loro lutto. Parlare della nakba è proibito a scuola. Cioè i migliaia di palestinesi che sono rimasti in quello che è diventato lo Stato ebraico, non possono ricordare il giorno in cui hanno perso la loro coesione comunitaria e migliaia di loro amici e parenti sono diventati profughi permanenti, alcuni esuli sparsi per il mondo (come la famiglia di Ghada), molti altri, milioni di altri ora vivono ancora in campi profughi senza diritti e senza identità nazionale. Il vero “negazionismo” impedisce alla vittime di essere riconosciute: Ghada scrive “compresi amareggiata che non avevo solamente perso la mia patria ma anche il diritto di piangerla e di volerne a qualcuno perché se ne era appropriato” (pag. 354).
4) Riconnessione alla propria storia
Ghada inizia un’attività politica che non è più terminata a tutt’oggi. E da medico diventa una storica e una studiosa. Questa parte della sua vita ci è più nota. La porta ad un certo punto a pensare di voler vivere e lavorare come medico in Siria, rientrando in un mondo culturale arabo. Sperimenta come sa chi vive, attraversa e studia la complessità del processo migratorio, che l’ individuo diventa un individuo originale che deve accettare di non collocarsi perfettamente né nella cultura di origine né in quella di arrivo. E lei è mossa da necessità di restituire alla storia la storia.
La enorme fatica elaborativa che ha fatto sul piano personale dà le radici ad un suo pensiero coraggioso ed originale, una sua proposta strategica che è stata espressa nel suo libro “Sposata ad un Altro Uomo” (così fu descritta la Palestina dai due inviati dal primo congresso sionista del 1897 di Basilea, cioè che era una terra già abitata, rivendicata da una popolazione nativa arabo-palestinese della quale era madrepatria) che Ghada venne a presentare in Italia 4 anni fa. Ghada dice: “Sono consapevole che l’ipotesi di uno Stato unico non sia un argomento del quale scrivere facilmente. Si finisce immediatamente per far parte di una minoranza marginale e si è oggetto di accuse di utopismo, antisemitismo, e persino di tradimento. Si tratta di pregiudizi per evitare di pensare idee in contrasto con quelle divenute familiari, convenzionali, o che servono interessi costituiti. Al contrario, l’ipotesi di uno Stato unico, laico e democratico nella Palestina storica, è da affrontare con un dibattito onesto perché, come spero, di dimostrare è l’unica strada possibile tanto per i palestinesi quanto per gli israeliani”.
Grazie Ghada e grazie Fatima che, credo, Ghada abbia ritrovato dentro di sé come un nucleo caldo e amorevole grazie al quale è riuscita, nonostante la sua terra sia stata distrutta e lei ripetutamente ferita, a portare al suo popolo un messaggio costruttivo e di speranza.
…… Cesare Pavese “ Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”
“La Luna e i Falò” Einaudi 1950
Flavia Donati , psichiatra e psicoanalista SPI-IPA
Roma, 5 maggio 2014
Relazione richiesta da ISM-Italia e presentata in occasione del tour in Italia del maggio 2014 per la presentazione del libro memoir di Ghada Karmi “Alla Ricerca di Fatima - Una Storia Palestinese”, Atmosphere Libri 2013.