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lunedì 16 novembre 2015


L'ASSOCIAZIONE PER I DIRITTI UMANI



Associazione per i Diritti Umani




PRESENTA



il saggio “Egitto, democrazia militare”

di Giuseppe Acconcia



 
 


mercoledì 18 NOVEMBRE, ore 19

presso



BISTROT DEL TEMPO RITROVATO

Via Foppa, 4 (MM Sant'Agostino) MILANO





L’Associazione per i Diritti Umani organizza l'incontro nell'ambito della manifestazione “D(I)RITTI AL CENTRO!”.



Presentazione del saggio il saggio “Egitto, democrazia militare” di Giuseppe Acconcia, Exòrma edizioni.



Il saggio:

L'incoronazione dell'ex generale Abdel Fattah al-Sisi come nuovo presidente egiziano ha chiuso tre anni rivoluzionari che hanno cambiato il Paese. Il racconto dal basso delle rivolte di piazza descrive un Egitto straordinario, diviso tra modernità e tradizione, dalla repressione di migranti e minoranze, alla punizione collettiva delle tribù del Sinai, dagli operai delle fabbriche di Suez al massacro di Rabaa al-Adaweya.




Coordina: Alessandra Montesanto, Vicepresidente Associazione per i Diritti Umani





domenica 15 novembre 2015

Amedeo Ricucci commenta il terrorismo a Parigi (e non solo)

Ci è pervenuto anche il commento del giornalista Amedeo Ricucci che ringraziamo.
Ringraziamo di cuore i giornalisti e gli esperti che ci stanno inviando il loro contributo, aiutandoci a capire.
 
 
La strage di Parigi rappresenta un salto di qualità nella strategia del terrore perseguita con accanimento dai fondamentalisti islamici di DAESH, il sedicente Califfato Islamico creato da Abu Bakr al Baghdadi. Finora, a portare la morte in Occidente era stati dei lupi solitari, che agivano individualmente o in piccoli gruppi. Due giorni fa, invece, a Parigi, è entrato in azione il branco. Un branco famelico e delirante, per il quale quest'attacco è stato solo "l'inizio della tempesta". Di fronte a questa sfida - e nonostante il bilancio assai pesante della mattanza di Parigi - la Francia e con essa l'Europa non possono permettersi di reagire con la logica dell'occhio per occhio, dente per dente, perseguendo cioè la vendetta. Faremmo il gioco dell'ISIS, che vuole lo scontro di civiltà e che da questo scontro trarrebbe un'innegabile legittimazione. Allo stesso tempo, l'Europa non permettersi di derogare al suo sistema di valori: il restringimento delle libertà individuali e dei diritti civili in risposta alla minaccia terroristica - come già avvenuto negli USA dopo l'11 settembre - sarebbe un drammatico autogol, in grado di consegnare nelle mani dell'ISIS quelle fasce delle comunità musulmane che qui da noi sono ai margini della società, non integrate o sofferenti. Quello che dobbiamo fare è prosciugare il lago all'interno del quale nuotano i terroristi e si alimenta il fascino della guerra santa, del jihad. Se lo alimentiamo, invece, peggio ancora se lo trasformiamo in un mare - criminalizzando i musulmani - si rischia di grosso.

Lo scontro di civiltà: i dolori della pace

Cari amici,
continuiamo a proporvi un'altra riflessione sullo scontro di civiltà attraverso il video di un incontro organizzato dall'Associazione per i Diritti umani.
Vi ringraziamo sempre per l'interesse che ci state dimostrando e vi ricordiamo che i nostri video sono disponibili sul canale Youtube dell'associazione stessa.






sabato 22 agosto 2015

La ricostruzione dei mausolei in Mali




di Veronica Tedeschi




Il 19 luglio è stata completata la ricostruzione di otto mausolei di Timbuctù (in Mali) andati distrutti nel 2012. Il progetto di restauro è stato coordinato dall’Unesco (l’Agenzia Onu per l’educazione, la scienza e la cultura) e nella sua totalità costerà 11 milioni di dollari, donati in parte dall’Unione Europea e in parte dalla Svizzera; seguirà a questi primi otto, la ristrutturazione di altri 6 mausolei che sarà completata entro fine anno.   
 
 

Soprannominata «La città dei 33 santi», Timbuctu fiorì tra il XV e il XVI secolo come centro carovaniero e di propagazione dell’Islam in Africa. Tipici sono i suoi monumenti come le tre moschee storiche Djingareiber, Sidi Yahiya e Sankoré, gli antichi portali, le case dei primi esploratori, il pozzo costruito nel punto in cui, mille anni fa, una donna tuareg – narra la leggenda – trovò l’acqua che ha dato ricchezza e potenza alla città del deserto. Ma è anche l’atmosfera che si respira. «Sembra deserta – osserva una guida turistica in un’intervista all’agenzia Ansa -, poi ogni tanto qualcuno fa “capolino” e, piano piano, cominci ad avvertire uno sguardo da dietro le tipiche finestrelle antiche a grata che impediscono di vedere l’interno, ma dalle quali si può osservare perfettamente l’esterno.” Durante il periodo di occupazione della città i combattenti jihadisti hanno vandalizzato e distrutto moschee e mausolei considerati non rispondenti all’ortodossia islamica e hanno bruciato alcuni manoscritti.

Grazie all’ intervento francese che ha respinto a Nord gli Jihadisti, oggi in città si respira un’aria diversa e, molto lentamente, anche il turismo sta riprendendo. La ricostruzione dei mausolei rappresenta chiaramente la volontà della popolazione di non voler perdere la propria cultura e di non arrendersi alla volontà dell’Islam estremista.

Il vostro lavoro è una lezione di tolleranza, dialogo e pace. Si tratta di una risposta agli estremisti e la sua eco può essere udita ben oltre i confini del Mali”, ha affermato Irina Bokova, direttrice generale dell’Unesco, annunciando che l’Unesco ha fatto ricorso alla Corte Penale Internazionale contro i distruttori dei mausolei.
 
 
 


mercoledì 29 luglio 2015

Lapidate Safiya: nella terra di Boko Haram




 

La storia che state per leggere è una storia vera e proviene dai territori nei quali oggi Boko Haram, con le sue azioni, sparge il terrore. È la storia di una donna, Safiya Hussaini, che nei primi anni Duemila fu condannata alla lapidazione per adulterio. Una condanna che era la normale conseguenza dell’applicazione rigida della legge coranica che, negli Stati del Nord della Nigeria, era stata adottata per la prima volta pochi mesi prima, sebbene la popolazione di queste regioni sia storicamente islamica. (Dall'introduzione)

La storia di Safiya è stata raccolta dal giornalista Raffaele Masto, dieci anni fa, ma è ancora di grande attualità.

(Si può acquistare il libro direttamente dal sito www.buongiornoafrica.it)




L'Associazione per i Diritti Umani ha rivolto alcune domande a Raffaele Masto e lo ringrazia per la sua disponibilità.




Qual è il contesto in cui questa storia affonda le sue radici?



Il contesto è la Nigeria dei primi anni 2000 dove era stata promulgata, negli Stati del Nord, la legge coranica - a dispetto degli Stati del Sud che non la volevano - e, dunque, un'aplicazione rigida della legge stessa faceva sì che una donna come Safiya venisse considerata adultera e condannata alla lapidazione: Safiya ha avuto un figlio fuori dal matrimonio, nel senso che il marito l'aveva ripudiata sei mesi prima.

Sono andato a trovarla, in un viaggio avventuroso in cui ho attraversato tutta la Nigeria, e mi sono fatto raccontare la sua storia.



E' una storia di dieci anni fa, ma perchè è ancora attuale?



Perchè quelli sono i territori in cui, proprio in quegli anni, è nata Boko Haram che era molto diversa da oggi, ma quello è l'humus che ha consentito la nascita e la crescita di una setta surreale come quella di Boko Haram.

Boko Haram oggi è una delle formazioni jihadiste più crudeli e feroci che ci siano in circolazione e l'attualità risiede proprio qui.



Nel libro c'è un capitolo intitolato “Il mondo deve sapere”: cosa deve sapere? Cosa può fare l'Occidente?



Il nostro mondo non finisce nei territori dove possiamo andare, dove facciamo le vacanze, ma è molto più ampio e ci sono anche realtà - come quella della Nigeria del Nord - che, appunto, produce queste aberrazioni. Il mondo deve sapere che una donna come Safiya può finire in un meccanismo enormemente più grande di lei, che la stritola e la utilizza per propaganda, per politica. Il mondo deve sapere queste cose perchè solo apparentemente sono lontane da noi: in realtà ci sono vicinissime e spesso noi, con le nsotre relazioni con il mondo più lontano, siamo in qualche modo responsabili di lasciare i territori in quelle condizioni.



Cosa le è rimasto più impresso di Safiya?

La cosa che mi aveva colpito tantissimo era il fatto che Safiya, nonostante tutto, non avesse mai perso la propria fede. Lei era musulmana, è rimasta musulmana fino all'assoluzione, dopo una vicenda lunghissima.

Chi la condannava era un Islam aberrante, letto in modo distorto.




Questo dimostra che un conto è l'Islam tradizionale, religioso e un altro è l'Islam politico...



Molte volte noi parliamo di “guerra di religione”, ma la religione c'entra veramente poco. In genere sono guerre di protettorati, di lobby politiche o economiche che non hanno scrupoli ad usare la religione e lo fanno sapendo che la religione è un nervo scoperto perchè l'uomo ha bisogno di trascendenza. Chi usa la religione, sa di usare un tasto molto efficace.



Qual è il futuro delle ragazze e delle donne delle regioni del Nord-Nigeria?



Come dicevo, il sentimento religioso in questi territori è un sentimento storico. L'Islam è una galassia complessa e affascinante: se riuscissimo a dialogare con le persone di vera fede musulmana, ci sarebbe davvero per loro un futuro. Questo non significa disconoscere la propria religione perchè tutti, ripeto, abbiamo bisogno di spiritualità.






venerdì 17 luglio 2015

L'Isis decapita anche le donne



Per la prima volta dall'autoproclamazione del Califfato, l'Isis ha decapitato due donne.

La notizia risale alla fine del mese scorso ed è stata riportata da alcuni portali on-line e dall'Osservatorio per i Diritti Umani di Londra.

Le due donne (e i loro coniugi) provenivano dalla provincia di Deir Ezzor e da al Maydin in Siria del Nord e il fatto ancora più sconcertante è che siano state condannate a morte con l'accusa di “STREGONERIA e atti di magia a uso medico”, secondo le dichiarazioni degli jihadisti.

Francesca Maria Corrao, docente di Studi Mediterranei all'università Luiss “Guido Carli” di Roma ha così commentato l'accaduto: “Siamo di fronte all'ennesima dimostrazione di ignoranza da parte dei miliziani dello Stato Islamico. Non esiste nella storia dell'Islam, a differenza di quella cristiana, la caccia alle streghe. Non è mai esistito il reato di stregoneria. I terroristi, molti dei quali hanno studiato o vissuto in Occidente e hanno una scarsa conoscenza religiosa e giuridica, sanno però che in noi questo termine rievoca anni di paura e persecuzioni. Aumentando la carica emotiva con la decapitazione, lo usano così in maniera strumentale per terrorizzarci”. La Prof.ssa Bruna Graziosi, sempre della Luiss e docente di Istituzioni e Storia dei Paesi islamici aggiunge: “ Molte azioni di Isis sono spesso non giustificate dalla religione o dalla giurisprudenza islamica, ma la decapitazione delle donne viene evitata anche da molti altri gruppi radicali. Ricordo, ad esempio, il caso di una principessa saudita accusata di adulterio: mentre l'amante venne decapitato, la donna fu lapidata. Anche in casi estremi come questo, il taglio della testa della donna è stato evitato”.

Un altro episodio, questo, che conferma l'escalation di violenza e di atrocità messo in atto dai membri dell'Isis per aumentare il livello di allerta in Occidente, per seminare la sensazione di insicurezza e per instillare, sempre più, la paura. Ma non dobbiamo cedere a questo meccanismo, non dobbiamo riprodurre la rappresentazione del Male; bisogna rispondere con lucidità e, prima di tutto, capire fino in fondo cosa sta accadendo.


lunedì 23 marzo 2015





STARE ANCORA INSIEME



In solidarietà con la TUNISIA

Milano, Piazza Duomo

 




MARTEDI 24 marzo, ore 18.00
 



Tunisi, dopo Parigi. E ogni giorno, dall’Afghanistan alla Nigeria. Poco più di due mesi fa, a Milano, abbiamo sentito la necessità di stare insieme e ascoltare la voce di tutti quelli, e sono tanti, che di fronte alla morte e alla violenza rispondono con il dialogo, la solidarietà e la pratica dei diritti.
Oggi, come allora, è importante unire quelli che non fanno distinzione tra le vittime, da Utoya a Baghdad, passando per il Mediterraneo. Perché l’attacco nel cuore di una città europea è doloroso come quello in una capitale del Nord Africa. Non c’è alcuna differenza, per chi crede che diritti, democrazia e libertà siano l’unico antidoto alla guerra, per spezzare il cerchio della violenza e del terrore. Dove l’odio divide, i diritti possono unire.
Per non cedere alla paura e all’odio, alle divisioni e alla violenza, vi aspettiamo martedì 24, in piazza Duomo alle 18.





I primi promotori : Acli, Amnesty International, Anpi, Arci, Associazione PONTES dei tunisini in Italia, Camera del Lavoro Milano, Cost. Beni Comuni, Emergency, Libera mi, Mani Tese, Associazione per i Diritti Umani, Milano senza frontiere, Altra Europa mi, PD mi, PRC mi, SEL mi



Per adesioni:
https://www.facebook.com/events/364247953761677/



****Il presidio si terrà mentre a Tunisi sarà in corso la manifestazione di apertura del Foro Social Mondiale 2015. Sotto il comunicato nel quale gli organizzatori confermano la manifestazione di apertura del Forum sotto lo slogan: I popoli del mondo contro il terrorismo.



La Rete della Pace ha chiesto a tutte le realtà di “imitare” ciò che si farà a Milano, cioè la manifestazione in contemporanea a quella di Tunisi, in altre città di Italia.




COMUNICATO DEL COMITATO ORGANIZZATORE DEL FORO SOCIALE MONDIALE DI TUNISI 24-28 MARZO 2015




Il Comitato Organizzatore del Forum Sociale Mondiale ha tenuto stamattina una riunione urgente per esaminare gli ultimi elementi dopo l’attentato terrorista al Museo del Bardo.


Avendo preso atto dei numerosi messaggi e comunicati di sostegno alla Tunisia, provenienti dai diversi attori sociali e civili di tutto il mondo, che hanno rinnovato la loro totale adesione allo svolgimento del Forum Sociale Mondiale a Tunisi, e la loro volontà di partecipare a questo momento eccezionale di mobilitazione popolare in Tunisia, nella regione e nel resto del mondo contro il terrorismo,


Il comitato organizzatore attore informa l'opinione pubblica mondiale che:




*Tutte le organizzazioni hanno confermato la loro partecipazione alle attività programmate senza alcun cambiamento e modifica: questo dimostra la forza della solidarietà effettiva dei militanti altermondialisti con la Tunisia, il suo popolo, le famiglie delle vittime di differenti nazionalità. E l’attaccamento ai principi della pace, della solidarietà ai popoli, della democrazia, e della libertà.



*Una manifestazione si terrà in occasione della cerimonia d'apertura martedì 24 marzo 2015 alle 16.00, che partirà dalla piazza Bab Saadoun in direzione del Museo del Bardo con le parole d’ordine:


I popoli del mondo contro il terrorismo




*Verrà creata una commissione in seno al Consiglio Internazionale per la redazione di una "carta internazionale altermondialista del Bardo di lotta contro il terrorismo".

 *Il comitato chiama a un concentramento 26 marzo 2015 al campus Farhat Hached a partire da mezzogiorno.


Il Comitato Preparatorio del Forum Sociale Mondiale rinnova il suo appello a intensificare la mobilitazione di tutte le forze sociali, civili, altermondialiste e pacifiche per fare del Forum Sociale mondiale di Tunisi un punto di svolta la creazione di un rapporto di forze favorevole alla pace, alla democrazia, alla giustizia sociale nella regione e nel mondo.



 Per il Comitato Preparatorio del Forum Sociale Mondiale

 Abderrahmane Hedhili




Non cediamo il passo al terrore


Noi, associazioni, sindacati, movimenti sociali coinvolti nella dinamica del Forum Sociale Maghreb proviamo orrore per l'atto terrorista, criminale e barbaro perpetrato al Museo del Bardo a Tunisi il 18 marzo 2015.


Questo atto criminale, in flagrante negazione dei valori lodati dalle diverse religioni, carte e patti internazionali, mira a gettare nel caos il paese da dove è partita la speranza di un' Altra Tunisia, di un Altro Marghreb alla vigilia del Forum Sociale Mondiale.


Mira a distruggere le fondamenta del rilancio economico della Tunisia, della sua esperienza nella risoluzione pacifica dei conflitti, della sua transizione verso la democrazia. Mira a imporre il pensiero unico, a seminare il terrore nei visitatori della Tunisia.


Questo atto barbaro si scrive nella stessa linea dell'assassinio di Choukri Belaid avvenuto alla vigilia del Forum Sociale Mondiale nel 2013.


Condanniamo questo atto criminale ed esprimiamo la nostra solidarietà con le vittime, le famiglie delle vittime e ci auguriamo la pronta guarigione dei feriti, presentiamo le nostre più sentite condoglianze ai familiari dei defunti, al popolo tunisino per tutti popoli che subiscono il tormento degli atti terroristici;


Facciamo appello alla resistenza e alla solidarietà contro tutti gli atti terroristici e criminali che colpiscono il diritto alla vita e non fanno altro che attizzare ed estendere la violenza, il risentimento e l’odio;


Ricordiamo che solo la cultura del dialogo e del rispetto al diritto alla diversità, costruisce argine contro la barbarie ed è l'unico modo per assicurare la coesistenza fra gli individui e le comunità


Chiamiamo alla più larga mobilitazione e partecipazione al Forum Sociale Mondiale 2015 che si terrà a Tunisi tra il 24 e il 28 marzo 2015 per dire che noi restiamo in piedi e non arretriamo di un passo davanti al terrore


Facciamo appello ai movimenti sociali di tutto il mondo per una manifestazione a Tunisi nel corso del Forum Sociale Mondiale 2015 per portare il nostro sostegno al popolo tunisino, per esprimere con forza il nostro attaccamento e la nostra aspirazione alla democrazia, al rispetto della diversità, alla giustizia sociale, alla libertà, a un altro mondo possibile e necessario.


Il comitato di coordinamento del Forum Sociale Maghreb




sabato 28 febbraio 2015

Timbuktu: riflettere sulla jihad con il film di Abderrahmane Sissako



di Alessandro Leone (da www.cinequanon.it)




Ci sono tre film contenuti in Timbuktu di Abderrahmane Sissako. Il primo scorre sullo schermo, introdotto da una gazzella che fugge impaurita in una savana arida quasi assorbita dal deserto; il secondo si intravede per un momento e frattura il testo filmico del primo, preparando in prossimità della fine al dramma conclusivo; il terzo invece è totalmente fuori campo, ma preme con urgenza per farsi perlomeno sfondo: è il Mali spettacolare, offeso dalle milizie armate di un Islam estremo ma non marginale, intransigente e fondamentalista (parola talmente incrostata dal sangue, da rendere vano ogni tentativo di conversione semantica che non contempli l'ideologia), in dialettica con i principi coranici che supportano migliaia di piccole e pacifiche comunità musulmane d'Africa sahariana e sub-sahariana. Se Sissako avesse per qualche secondo montato un obiettivo a focale lunghissima, diciamo un tele spinto 1000 mm, avrebbe probabilmente squarciato la profondità, oltre le dune, per rivelare un paese nel caos, soprattutto nel nord dove da quasi tre anni ci sono scontri, e dove in nome della jihad (altra parola che chiede giustizia) si legittima l'occupazione di terre, la sottomissione di uomini e donne, la distruzione di mausolei dichiarati patrimonio Unesco, in particolare a Timbuktu. 
Il regista ha però scelto una strada diversa, raccontando, ai confini del gioiello del Mali, gli effetti di quel caos, identificando il dettaglio che potesse evocare il tutto. Timbuktu, città che pare edificata dal sole,è snodo strategico tra settentrione e meridione del paese, popolato da tribù che dall'Islam hanno distillato la sostanza, senza rinunciare alla libertà. L'arrivo di un gruppo di uomini armato fino ai denti, sconvolge le abitudini e le relazioni umane, sulla base di una discutibile interpretazione della Legge, come spiega ad un certo punto la guida spirituale del villaggio al leader dei miliziani che occupano il territorio. Agli abitanti vengono imposti una serie di divieti assurdi in lingua araba e in francese: non è permesso cantare, ballare, fumare, giocare a calcio (mentre gli occupanti ipocritamente fumano di nascosto e parlano di Zidane); alle donne vengono imposte calzature integrali e guanti neri.
Kidane e la moglie Satima, con la loro giovane figlia Toya e Issan, un pastore di dodici anni che si occupa delle loro mucche, sono riusciti a ricreare sotto la tenda in cui vivono, distanti dal centro abitato, un'oasi di pace. Nonostante Satima sia oggetto delle attenzioni di uno jihadista, nulla scalfisce il quieto vivere della famiglia, fino a quando Gps, la mucca preferita da Toya sfugge al controllo di Issan, attraversa il fiume che miracolosamente taglia in due il deserto, inciampando nelle reti del pescatore Amadou, che uccide l'animale. La resa dei conti tra Kidane e Amadou causa la morte accidentale del pescatore, condannando l'uomo alla sentenza senza appello di una corte improvvisata.
Sissako, se evita di affrescare con toni epici la resistenza di un paese il cui presente è quanto mai incerto, non cade neanche nella trappola del racconto morale di tante fiabe africane da esportazione, preferendo scommettere su una scrittura in versi, un canto poetico illuminato dalla bellezza dei paesaggi, dall'incanto del fiume, in rima baciata con gli afflati vitali di un popolo che non vuole piegarsi di fronte all'incomprensibile natura di norme insensate: ragazzi e ragazze cantano e suonano infischiandosene della più che probabile ritorsione, un gruppo di bambini gioca un'indimenticabile partita a calcio senza pallone, una donna si pavoneggia sfidando gli sguardi degli uomini protetta dalla sua follia; sprazzi di vita che la musica di Amine Bouhafa rende lirici e, per contrapposizione alla violenta applicazione della Sharia, tragici, ultime espressioni di civiltà prima dell'annichilimento. La tenda di Kidane è per questo il segno caldo di un paradiso violentato (e perduto) dall'ignoranza, un baluardo davvero resistente di una conoscenza che sembra inabissata nelle maglie (ora) indecifrabili di tutte le sacre scritture prodotte dall'uomo.
Che di questo avrebbe raccontato il regista si era capito già in apertura, perché la gazzella impaurita tentava di schivare colpi di Kalašnikov, sparati da una camionetta da "uomini di legge", veri e propri sfregi al bello. "Non ucciderla, sfiancala" - e ti immagini l'Africa martoriata da decenni di guerre intestine, carestie, sfruttamento. Dei feticci in legno vengono crivellati come fossero sagome in un poligono di tiro. Una donna che lavora pulendo il pesce non può accettare di doverlo fare con i guanti, grida, alza la testa, "tagliatemi le mani". Non viene uccisa. Sarà sfiancata e piegata. Una ragazzina è costretta a sposare un miliziano, nonostante l'opposizione della madre e del capo villaggio, in assenza del padre lontano, forse in guerra. Un uomo - afferma uno jihadista - non è colpevole se assicura un futuro dignitoso a una ragazza ancora sola. Anche lei sfiancata e piegata. La macchina da presa a 40 centimetri da terra segue in panoramica da destra a sinistra l'attraversamento di uomini armati nei locali di una moschea: la profanazione del tempio. Una delle inquadrature più belle e pregne di significato di tutto il film. Ancora una volta la poesia bisticcia con la crudeltà del reale, amplificandone la tragicità.
Il metodo di Sissoko diviene un principio estetico che scuote pupille e cervello. Quando il film, strutturato sull'alternanza tra la storia di Kidane e le vicende del villaggio, arriva alla convergenza delle sue tracce narrative con il processo farsa al pastore, il regista inganna di nuovo l'occhio con un'altra splendida e terribile immagine: un uomo e una donna sono sepolti fino al collo in attesa della lapidazione, una pietra colpisce lei che perde i sensi. Stacco. L'urlo del marito viene soffocato in una zona invisibile, anzi in-guardabile. E' il secondo film di cui si accennava in apertura, una frattura narrativa che rinvia alla lapidazione che nel 2012 mise fine alle vite di un uomo e una donna non sposati, puniti per aver messo al mondo figli fuori dal matrimonio, e che ispirò il regista. Una scena brevissima, non annunciata e non spiegata dopo, che però passa veloce fuori dallo schermo e percorre lo spettatore, adagiandosi come un demone nelle coscienze.
Cos'è Timbuktu allora, dov'è il Mali oggi? Chiediamoci se il cinema africano una volta tanto arriva in sala con tutta la potenza espressiva di un maestro per il valore alto del racconto e dell'estetica, o per l'incapacità dell'informazione di massa di fare racconto oltre il confine "occidentale", oppure perché il film diventa, mentre ne scriviamo, la messa in scena involontaria di tutte le nostre paure o il rafforzamento razionale della convinzione di essere nel giusto mentre, fuori, qualcosa sta andando storto.
Tentando una sintesi tra ciò vediamo sullo schermo, ciò che rimane evocato e fuori campo, ciò che scivola da un racconto confinante, resta forte l'angoscia per il destino di Toya, che corre come la gazzella, dopo la morte dei genitori, sola e disperata; e anche Issan (che pare arrivato da un film di Amir Naderi), stracolmo di sensi di colpa per aver perso Gps, anche lui di corsa tra le dune: due traiettorie che non riescono a incontrarsi e che finiranno per perdersi nel buio dei titoli di coda.




martedì 29 ottobre 2013

Il dramma della “jihad del sesso” in Siria




Hanno rapporti con 20, 30, 100 miliziani e tornano in patria incinte”: queste le parole del Ministro dell'Interno tunisino, Lofti Ben Jeddou, riferendosi a ragazze e donne tunisine che si sono recate in Siria per offrire il proprio corpo ai soldati islamici impegnati nella lotta contro il regime di Bashar al Assad. La dichiarazione del Ministro è stata data davanti all'Assemblea nazionale costituente, rendendola nota a livello mondiale, mentre prima la notizia non aveva avuto il giusto risalto sulla stampa internazionale.
La “jihad del sesso” è considerata una forma legittima di guerra santa da parte di alcune frange salafite: in arabo “ jihad al Nikah” indica un matrimonio molto breve, anche della durata di poche ore, che permette a donne e ragazze di avere rapporti sessuali senza, appunto, la celebrazione di un'unione tradizionale. Confortate da questa regola, molte donne si sono convinte a concedersi ai miliziani, come supporto, come forma di lotta e anche per dar vita a futuri combattenti. E molte donne sono, in effetti, rimaste incinte e alcune di loro hanno già partorito.
E noi non facciamo niente, rimaniamo con le mani in mano”, ha continuato Lofti Ben Jeddou, “ Le ragazze vengono 'reclutate' da gruppi salafiti e da associazioni che si dicono caritatevoli, ma in realtà nascondono scopi ben diversi. Dalla Tunisia, si apprende dai media tunisini, partono non solo per la Siria, ma anche per l'Afghanistan e l'Iraq, spesso passando per la Turchia o la Libia. Dall'inizio dell'anno seimila tunisini sono stati fermati alla frontiera perchè in viaggio verso la jihad in Siria”. Anche il Muftì di Tunisi ha espresso la sua indignazione e ha definito questa pratica una vera e propria forma di prostituzione.
Un'altra piaga sociale, un'altra terribile conseguenza di una guerra che continua a non far sconti a nessuno, nemmeno a chi non è ancora nato.

martedì 27 agosto 2013

Morsi, iconografia di un martire annunciato, di Laura Silvia Battaglia


Pubblichiamo questo articolo di Laura Silvia Battaglia (www.battgirl.info), ringraziandola tantissimo

ll ritratto di Mohamed Morsi campeggia ovunque. Sui volantini distribuiti dopo la preghiera dell'alba, sugli autobus bianchi dei Fratelli Musulmani parcheggiati all'ingresso del grande campo di Rabaa al-Adawjia, sui carretti della distribuzione di the, acqua, bevande e succo di melograno che punteggiano la via per arrivare alla roccaforte della protesta anti-generali.
Il volto del politico che Time incoronò "uomo dell'anno" nel 2012 è replicato ossessivamente, come in un videogioco a punti con una grafica splatter, sopra, sotto e di fronte alle migliaia di tende che ricoprono questa superficie di quasi quattro chilometri quadrati al Cairo brulicante di supporters dell'ex presidente egiziano dal 3 luglio 2012, data del suo arresto con l'accusa di cospirazione.
Mohamed Morsi qui è onnipresente, guarda i suoi fedeli dall'alto del suo ritratto peggiore, ingessatissimo nel fermo immagine che sancisce la sua sacralità. Così replicato ovunque appare come un cento occhi e centoteste, una creatura medievale dalla faccia presentabile che si allunga sugli esiti del colpo di stato di un mese fa. Un colpo di stato che chiunque si guarda bene, qui, a Rabaa al-Adawjia, dal definire seconda rivoluzione o contro-rivoluzione.
Mohamed Morsi, ora prigioniero a Nord del Cairo, dove si trova il ministero della Difesa, è colui nel cui nome si circoscrive la preghiera dell'alba di Eid, e che nel giorno più importante dell'anno per la Umma sunnita si manifesta al campo di Rabaa nel pomeriggio, per interposta persona: la moglie Nagla Mahmoud.
Per lui si chiede la liberazione e nel suo nome viene già giustificata la resistenza dei Fratelli musulmani verso l'apparato di potere dei generali, che ha utilizzato l'esito delle votazioni prima, il temporeggiamento dei Fratelli poi, la loro interpretazione integralista della futura costituzione, per riprendere con la forza il controllo di un Paese ormai allo sbando, economicamente piegato da una credibilità ai suoi minimi storici.
"Io amo Morsi"; "Morsi, Morsi, in te la speranza"; "Morsi Morsi sempre Morsi, mai più Al Sisi": sono alcuni degli slogan che campeggiano insieme all'immagine dell'ex presidente egiziano. Si alternano anche sulle fasce - verdi, nere, marroni - che la gioventù ihwanizzata sfoggia intorno alla testa, replicando l'iconografia jihaddista in forme moderate: "Il popolo arabo è la comunità islamica". "Siamo arabi, moriremo islamici".
L'appartenenza alla Umma sunnita, per i Fratelli musulmani, non si discute. Vale per tutti, da qualsiasi grado di vicinanza o distrazione del partito e dalle sue istanze si stia parlando. Ed è perfettamente connaturata con l'interpretazione del rispetto dei diritti umani che, per i supporters di Morsi, discende solo da Dio ed è strettamente collegata alla legge di natura che segue i dettami di Allah, secondo quanto ne rivelò Mohammed.
Lo dice senza tema Sara Hassan, ventenne di El-Adwah, la città di nascita dell'ex presidente oggi ostaggio di Al Sisi. La sua famiglia è cresciuta accanto a Morsi. In senso letterale, perchè sono sempre stati suoi vicini di casa. Hanno piantato una tenda da giorni e hanno pure affittato un appartamento in zona per stare più comodi. Ci sono tutti: padre, madre, cugini, fratelli e sorelle, zie e nipoti. Morsi per tutti, tutti per Morsi, insomma. Ma la motivazione che li spinge fin qui non è squisitamente politica. L'ideale di famiglia e l'appartenenza alla Umma sono abbastanza. Ma la conoscenza diretta del personaggio spiega ancora di più la scelta di stare dalla sua parte, costi quel che costi. Dice Sara: "Noi lo conosciamo: è un uomo buono. L'hanno esposto e ne paga il prezzo. Adesso è in carcere e siamo certi che il trattamento riservatogli non è umano".
Chiediamo che tipo di valenza ha il concetto di rispetto dei diritti umani per i Fratelli Musulmani. Risponde: "Il rispetto dell'uomo viene dal fatto che l'uomo appartiene a Dio". E chi non appartiene a quel Dio? "Non saprei. Quel che so è che l'Egitto è un Paese islamico, noi siamo islamici e Morsi è il nostro presidente. Nell'Islam il rispetto dell'uomo viene dalla sua conoscenza di Dio. Morsi è un uomo timorato di Dio, ha portato avanti la nostra causa, noi dobbiamo adesso batterci per lui".
Sara è una ragazza laureata, progressista, una giovane donna musulmana tosta, pronta per fare una buona carriera nei quadri dei Fratelli, se le fosse data la possibiità. Morsi per lei è già un mezzo martire. E lo è per tutte le persone, che, sulla strada del campo, lastricata da molte buone intenzioni, lo hanno eletto a icona della rivoluzione incompiuta o, meglio, ingiustamente ribaltata. La sua detenzione, nonostante Morsi sia inizialmente asceso al ruolo di guida dei Fratelli quasi come un ripiego necessario, ne ha già fatto un gigante morale.
Se il nuovo governo non dovesse scarcerarlo, se lo processasse o se in qualche modo se ne favorisse la morte, gli effetti saranno amplificati sugli ihwan egiziani ma anche su tutti gli arabi sunniti del Medio Oriente. Alla causa palestinese per la quale tutti i popoli arabi si sono sentiti in dovere di aderire nella lotta comune, se ne potrebbe aggiungere un'altra.
Sarebbe il primo caso in cui parrebbe possibile incitare alla resistenza - dei fedeli prima e al martirio dei combattenti poi - per difendere un leader pacioccone e perditempo, un martire in pectore che non si sarebbe davvero speso con opere o azioni degne di nota per il suo popolo di elettori e, soprattutto, per un Paese dalla storia ingombrante.
Lo scorso 29 luglio, ormai conosciuto come "il massacro di Rabaa", nella roccaforte dei pro-Morsi sono morte 127 persone e 4500 sono state ferite negli scontri con l'esercito e la polizia. Chiedevano tutte di relegittimare Mohammed Morsi come presidente dell'Egitto.