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domenica 15 novembre 2015

Amedeo Ricucci commenta il terrorismo a Parigi (e non solo)

Ci è pervenuto anche il commento del giornalista Amedeo Ricucci che ringraziamo.
Ringraziamo di cuore i giornalisti e gli esperti che ci stanno inviando il loro contributo, aiutandoci a capire.
 
 
La strage di Parigi rappresenta un salto di qualità nella strategia del terrore perseguita con accanimento dai fondamentalisti islamici di DAESH, il sedicente Califfato Islamico creato da Abu Bakr al Baghdadi. Finora, a portare la morte in Occidente era stati dei lupi solitari, che agivano individualmente o in piccoli gruppi. Due giorni fa, invece, a Parigi, è entrato in azione il branco. Un branco famelico e delirante, per il quale quest'attacco è stato solo "l'inizio della tempesta". Di fronte a questa sfida - e nonostante il bilancio assai pesante della mattanza di Parigi - la Francia e con essa l'Europa non possono permettersi di reagire con la logica dell'occhio per occhio, dente per dente, perseguendo cioè la vendetta. Faremmo il gioco dell'ISIS, che vuole lo scontro di civiltà e che da questo scontro trarrebbe un'innegabile legittimazione. Allo stesso tempo, l'Europa non permettersi di derogare al suo sistema di valori: il restringimento delle libertà individuali e dei diritti civili in risposta alla minaccia terroristica - come già avvenuto negli USA dopo l'11 settembre - sarebbe un drammatico autogol, in grado di consegnare nelle mani dell'ISIS quelle fasce delle comunità musulmane che qui da noi sono ai margini della società, non integrate o sofferenti. Quello che dobbiamo fare è prosciugare il lago all'interno del quale nuotano i terroristi e si alimenta il fascino della guerra santa, del jihad. Se lo alimentiamo, invece, peggio ancora se lo trasformiamo in un mare - criminalizzando i musulmani - si rischia di grosso.

domenica 1 novembre 2015

Giornata internazionale di solidarietà con Kobane



La città kurdo-siriana è ancora in pericolo - gravi accuse alla Turchia


A un anno dai sanguinosi scontri con le milizie dello "Stato Islamico" terminati con la cacciatia delle milizie estremiste, gli abitanti della città kurdo-siriana di Kobane sono tuttora in pericolo. In occasione della Giornata internazionale di solidarietà con Kobane (1 novembre) l'Associazione per i Popoli Minacciati (APM) accusa la Turchia di sparare alle postazioni di difesa kurde oltre frontiera. Un anno fa, Ankara era accusata di sostenere o, se non altro, tollerare gli estremisti dell'IS; ora il governo turco è andato oltre e attacca con il proprio esercito le postazioni kurde nella speranza di indebolire l'autodifesa kurda e di assumere direttamente il controllo sulle zone d'insediamento dei Kurdi. Le autorità turche inoltre stanno bloccando alla frontiera gli aiuti alimentari, l'acqua potabile e i farmaci inviati ai circa 150.000 civili che hanno deciso di tornare nella propria casa a Kobane.

Nonostante l'IS sia stato cacciato da Kobane, le sue milizie potrebbero farvi ritorno se la resistenza kurda dovesse allentare la presa. Nella battaglia per Kobane hanno perso la vita tra 1.000 e 1.5000 combattenti kurde e kurdi e circa altri 500 civili turchi. Altri 5.000 sono rimasti feriti e sono stati medicati in ospedali d'emergenza improvvisati o nei vicini comuni kurdi in Turchia. Le autorità turche hanno ripetutamente negato i trattamenti medici in Turchia e spesso i combattenti kurdi feriti hanno dovuto aspettare giorni interi al valico di frontiera prima di poter entrare in Turchia ed essere medicati. Durante la battaglia di Kobane i circa 400.000 abitanti della città e dei dintorni erano quasi tutti fuggiti. Nonostante le attuali condizioni catastrofiche, circa 1.000 persone lasciano ogni settimana i campi profughi nel sud della Turchia per tornare a casa propria. Molti altri hanno invece continuato la loro fuga in Europa e non hanno per ora alcuna possibilità di poter tornare a casa. La città di Kobane è per l'80% distrutta e negli unici due ospedali rimasti aperti, uno civile e l'altro militare, manca praticamente tutto. Attualmente il valico di frontiera dalla Turchia verso Kobane è aperto solo due volte in settimana e solamente per chi è disposto a tornare a Kobane.

La Giornata internazionale di solidarietà con Kobane è stata celebrata la prima volta l'1 novembre 2014 dai Kurdi in esilio e dai loro amici in Europa, America, Africa e Australia per sostenere almeno moralmente le cittadine e i cittadini di Kobane. Le milizie dell'IS avevano tentato la conquista della città kurda già alla fine del 2013 ma erano stati bloccati dalle unità di difesa popolari (YPG) kurde. A metà settembre 2024 l'IS aveva allora avviato una massiccia offensiva contro la città. Dopo mesi di sanguinosi scontri strada per strada e casa per casa, le unità kurde hanno ottenuto armi e il sostegno aereo degli USA. Il governo turco ha invece continuato a negare ogni forma di aiuto ai combattenti assediati e solo in seguito alle pesanti pressioni internazionali agli inizi di novembre ha permesso a 150 peshmerga kurdo-iracheni di raggiungere Kobane per sostenere i combattenti kurdi con armamenti pesanti.

Vedi anche in gfbv.it: www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150916it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150828it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150806it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150730it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150727it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150624it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150611it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150609it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150522it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150320it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150128it.html | www.gfbv.it/3dossier/kurdi/indexkur.html | www.gfbv.it/3dossier/kurdi/kurtur-it.html
in www: http://it.wikipedia.org/wiki/Yazidi | http://it.wikipedia.org/wiki/Kurdistan

domenica 11 ottobre 2015

Roosh V e la legalizzazione dello stupro





Mentre tornavo a casa, ho capito quanto lei fosse ubriaca,

ma non posso dire che mi interessasse o che io abbia esitato….

l’unica cosa che mi interessa è fare sesso”

 

 
Roosh V (nome d’arte di Daryush Valizadeh) è uno scrittore che si autodefinisce “antifemminista” e che ha recentemente lanciato una proposta di legge per legalizzare lo stupro “se fatto in una proprietà privata”. Secondo questa brillante idea “le donne smetterebbero di seguire strani sconosciuti nelle loro case e gli uomini non sarebbero ingiustamente incarcerati”.



Ebbene i suoi libri (tra cui spiccano la “Bibbia” che insegna a rimorchiare le ragazze durante il giorno e un manuale che insegna come portarsi a letto le ragazze polacche… ma ci sono anche le varianti per le ukraine, le lituane e le estoni) vengono contestati negli USA ma sono in vendita su Amazon: la scorsa settimana è stata lanciata da Caroline Charles una petizione su change.org per chiedere a Jeff Bezos – CEO di Amazon – il ritiro immediato dei libri per garantire che nessuno tragga profitti dallo stupro.


Ecco il link per firmare:





martedì 23 giugno 2015

Ucraina, la guerra che non c'è







Due giovani giornalisti, 40 giorni tra l’orrore dei due fronti.



Al di là delle questioni geopolitiche e della guerra diplomatica fra Nato e Putin cosa avviene davvero in quella landa alla periferia dell’Europa? Questo libro è un reportage esclusivo, scritto da Andrea Sceresini e Lorenzo Giroffi, per Baldini & Castoldi, che per un mese e mezzo hanno vissuto lungo le due sponde del fronte. Da Donetsk a Lugansk, passando per Kiev, un’odissea fra trincee, battaglie e posti di blocco, miliziani dal volto umano, ufficiali alcolizzati e cocainomani, volontari di mezza Europa ubriachi di ideologia, bombardamenti e bordelli militari. L’obiettivo, osservare il vero volto della guerra: senza pregiudizi né retorica, ma con lo spirito un po’ incosciente di chi cerca la verità.




L'Associazione per i Diritti Umani ha rivolto alcune domande ai due giornalisti. Li ringraziamo molto.



Si tratta della prima guerra civile in Europa del XX secolo: potete raccontarci quali sono state le premesse?


In seguito alle proteste di piazza Maidan e alla caduta del governo Yanukovich, nel febbraio 2014, la situazione in Ucraina orientale ha iniziato a surriscaldarsi. Migliaia di manifestanti filo-russi, intimoriti dalla svolta filo-occidentale che la nuova giunta di Kiev stava imprimendo alla nazione, hanno preso d'assalto i palazzi governativi a Donetsk, Lugansk e in altre città del Donbass. A marzo a Russia ha occupato la Crimea, che con un referendum-lampo si è dichiarata indipendente dall'Ucraina, mentre all'inizio di maggio, nella città di Odessa, una quarantina di manifestanti filo-russi sono stati uccisi dai militanti dell'estrema destra ucraina nella Casa dei Sindacati. Questi due fatti hanno contribuito a esacerbare ulteriormente gli animi, fomentando gli opposti nazionalismi e facendo divampare la guerra civile. Donetsk e Lugansk si sono costituite come repubbliche indipendenti, dotandosi di una propria milizia armata e unendosi nella repubblica di Novarossia che è il nome di una vecchia entità territoriale dell'epoca zarista. Queste, grosso modo, sono le premesse.




L'Ucraina si trova in una posizione geopolitica interesante per molti: quali sono le posizioni delle grandi potenze ?

Dietro gli opposti contendenti ci sono - in modo molto evidente - gli interessi economici e geopolitici delle grandi potenze: Stati Uniti ed Europa da una parte, Russia dall'altra. Il punto del contendere riguarda, in buona sostanza, l'ingresso dell'Ucraina nella Nato e - dunque - nella sfera di influenza occidentale: una prospettiva che Putin non potrebbe mai accettare, perché significherebbe avere il "nemico" alle porte. Perciò sono stati fomentati i nazionalismi locali - che prima di oggi non erano in pratica mai esistiti - e sono stati massicciamente riforniti, con armi e supporto logistico, i due schieramenti in campo. Gli ucraini sono spesso foraggiati con materiale di fabbricazione statunitense, mentre i separatisti possono contare sul supporto di decine di consiglieri militari e centinaia di "volontari" russi. Insomma: la guerra civile ucraina altro non è che la proiezione locale di uno scontro a bassa intensità tra le grandi potenze. Chi ci guadagna – oltre agli strateghi internazionali - sono gli oligarchi e i lobbisti, che a loro volta si sono schierati da una parte o dall'altra.

Chi ci perde sono i cittadini locali, i soldati mandati la macello, i lavoratori e gli idealisti di tutte le risme, massacrati sotto le bombe e nelle trincee.




Voi siete stati sulle due sponde del fronte: cosa potete dirci di diverso rispetto alle notizie che abbiamo letto sulla stampa ufficiale?

Che le guerra si combatte ogni giorno, a dispetto delle varie tregue e dei cessate-il-fuoco. E che è una guerra terribile, combattuta senza pietà. Abbiamo vissuto a Donetsk per diverse settimane. Molte notti le abbiamo trascorse svegli, mentre le artiglierie bombardavano la città. Parliamo di bombardamenti massicci, con una esplosione ogni quattro o cinque secondi. Le fabbriche sono state chiuse e i pensionati hanno smesso di ricevere i sussidi. Questo è ciò che i giornali non dicono: la guerra ci viene spesso descritta come una funambolica partita a dama tra stati maggiori, diplomatici e strateghi militari. E' anche questo, certo, ma soprattutto - e te ne accorgi con sgomento quando ti ci trovi dentro - è un grande mare di merda: uno scontro di morti di fame contro altri morti di fame, il cui inutile sacrificio si trasforma in guadagni per gente che si trova comodamente seduta a una scrivania, a centinaia di chilometri di distanza. Siamo stati all'obitorio di Donetsk, che è uno dei luoghi più educativi che abbiamo visitato: vuoi capire cosa sia la guerra? Ti bastano cinque minuti lì dentro. Chi ci lavora è perennemente ubriaco di vodka. Iniziano a bere la mattina alle sette, perché nessuno, da sobrio, sarebbe tanto pazzo da trascorrere le sue giornate oltre quella soglia.




Perchè il titolo del libro recita: “...La guerra che non c'è”?


Perché la guerra nel Donbass è una guerra dimenticata, di cui si è parlato poco, e solo a sprazzi, in occasione dei grandi meeting internazionali, delle principali battaglie e delle elezioni ucraine. Eppure si combatte alle porte dell'Unione Europea, a poche ore di volo dalle nostre città. La guerra macina ogni settimana decine di morti, il cui dramma sembra non interessare a nessuno. Quando siamo tornati dal nostro viaggio, nel novembre 2014, ricordo che la stampa italiana si stava accapigliando sul caso del cono gelato del ministro Madia. Come degli zombie, ci siamo messi a sfogliare i quotidiani in cerca di un reportage, un articolo, un trafiletto, qualunque straccio di notizia che parlasse di ciò che avevamo appena abbandonato: non abbiamo trovato nulla. Anche per questo abbiamo deciso di cominciare a scrivere...









martedì 23 dicembre 2014

Capire cosa accade in Siria, oggi.




Per fare il punto sulla situazione siriana (e del Medioriente) l'Associazione per i Diritti Umani ha intervistato il giornalista Shady Hamadi, autore del saggio La felicità araba. Storia della mia famiglia e della rivoluzione siriana, per Add editore.

Ringraziamo sempre Shady Hamadi per la sua disponibilità.





Cosa, gli analisti occidentali, non hanno voluto vedere a proposito di ciò che è accaduto e che accade in Siria?



La prima questione odierna è la presenza di una società civile in Siria e le motivazioni vere che hanno mobilitato la società siriana che è uscita da un regime dopo quarant'anni e dopo averci provato varie volte, nel 2000 e nel 2005, ma anche nell'82 con la strage di Hama: nonostante ci siano state colpe acclarate dei Fratelli Musulmani, una certa parte aveva scelto la strada del dialogo. E, secondo me, oggi, non bisogna trovare una sorta di dicotomia tra regime e fondamentalisti.



Il suo racconto parte da lontano, da suo nonno e da suo padre: parla di loro per arrivare a capire il Presente...



Recentemente ho fatto una riflessione, sul Corriere della sera, riguardo al senso della Storia applicato in Siria e sarebbe un discorso da approfondire.

Mio padre è cresciuto, per volontà di mio nonno, presso una scuola salesiana vicino a Talkalakh e allora c'era un sistema di istruzione che funzionava, anche perchè era un retaggio del colonialismo.

La differenza, invece, tra la sua generazione e quella odierna è che quella di oggi è stata indottrinata per quarant'anni e non ha una conoscenza della Storia dalla quale viene, i loro piedi non affondano bene nelle radici storiche e questo si sta presentando in ciò che avviene in Siria: invece, dovremmo guardare, ad esempio, agli anni'50 quando un Cristiano era Primo Ministro. L'incosapevolezza crea un problema e lo creerà anche in futuro.



I giovani che hanno lottato per il Presente, lo hanno fatto, quindi, senza conoscere il Passato?





All'inizio c'era una élite consapevole (e lo dicevano anche gli slogan “Il popolo siriano conosce la Storia”), ma c'è anche una facilità di radicalizzazione nei ragazzi che ha due motivazioni: la prima, è che la Siria è stato costituita, durante l’era della famiglia al Asad, su un sistema comunitario e confessionale, mettendo, per la prima volta nella storia contemporanea del paese, le minoranze al potere. Questo ha prodotto che l'80% della popolazione si sentisse esclusa dalla possibilità di gestire il potere, creando quel risentimento che poi si è concretizzato. La seconda motivazione è lo smantellamento della scuola, per cui quello che accade oggi ai giovani siriani è comprensibile se noi guardiamo a quello che è accaduto negli ultimi quarant'anni.



In contrapposizione a questi ragazzi, troviamo una piccola élite di giovani,anche sunniti, che sostengono il regime perchè hanno guadagnato dei benefit e si sono, in qualche modo, occidentalizzati. Questa piccola élite non guarda alla mancanza di diritti politici e di libertà ma ha scelto di accontentarsi di una libertà apparente: una modernità, fatta di discoteche e belle macchine, priva di ogni pensiero critico verso il brutale status quo imposto dal regime.




Come si può avviare, allora, una transizione verso una forma democratica di governo?



Jawdat Said, una guida religiosa sunnita, ha detto che la democrazia è come una ruota: una volta inventata, tutti la vogliono.

Io penso che la democrazia, prima di tutto, nasca da una cultura, nel senso che ci deve essere rispetto reciproco per le idee. Invece la società mediorientale è una società che non nasce da un'esperienza di confronto, ma è repressa. La mancanza di dialogo fa sì che non ci sia un'autocritica: ad esempio, non c'è una riforma religiosa perchè il governo vieta una critica e non c'è nemmeno la possibilità di progredire in altre maniere. Se noi vediamo la produzione di papers accademici delle università del mondo arabo, è molto più bassa rispetto a quella di alcuni Paesi africani.

La democrazia, quindi, è un percorso ed è necessario un dialogo interno.



Ci racconta la vicenda del vignettista Alì Ferzat?



Alì Ferzat, un po' come tutti gli intellettuali, nel 2011 si è schierato e ha iniziato a parlare apertamente contro il regime siriano: è stato caricato su una camionetta, da parte dei servizi segreti, e gli hanno spezzato le mani proprio perche faceva il vignettista. Questo è un messaggio simbolico sull'impossibilità di avere qualsiasi tipo di espressione che possa prescindere da quella che è la dottrina del regime.



Qual è la situazione in Siria, oggi e quali saranno, a suo parere, gli scenari futuri?



In Siria c'è una mancanza di senso storico, ma c'è un profondo senso nazionale, nonostante la disgregazione su base confessionale.

Per il futuro prevedo che ci sarà un perenne stato di conflitto che può durare dieci, forse vent'anni, ma che si dovrà poi risolvere. Come? Ad esempio, guardando a quelli che sono stati gli accordi di Ta'if, quelli libanesi, dove si può creare una Camera Alta a elezioni universali e una Camera Bassa a elezioni confessionali.

Non credo che lo Stato Islamico resisterà o creerà un califfato perchè le loro prime vittime sono gli stessi musulmani in quanto i musulmani che non sono d'accordo con loro vengono chiamati “apostati”, tagliati a pezzi e crocefissi.

Un'altra possibilità per il futuro della Siria è che possa rimanere Assad, che si crei uno Stato confessionale, con una piccola percentuale di sunniti, e rimanga lì a baluardo delle necessità della Russia o dell'Iran; penso che questa ipotesi sia lontana e credo, invece, che arriveremo ad un dialogo, ma non so se questo dialogo porterà all'estromissione degli Assad (perchè non c'è la volontà internazionale) oppure se si arriverà ad una Siria federale in senso confessionale per poi trovare una unità.



Perchè la comunità internazionale non si occupa della Siria?

 

Prima di tutto, gli americani lo avrebbero fatto se ci fosse stato, in Siria, il petrolio. In secondo luogo, Obama non ha una politica estera credibile in Medioriente, invece Putin ha le idee molto chiare su quello che c'è da fare. E come se si fosse ricreato un muro di Berlino a Damasco...

Non sottovalutiamo, inoltre, l'Iran che è una Repubblica imperialista, ma teocratica, che adopera lo scontro tra sciiti e sunniti per costruire le sue aree di influenza.

Infine, l'Unione Europea non ha una politica estera comune: vediamo che la Francia fa una cosa e l'Italia un'altra, ad esempio. E, come detto, gli Stati Uniti aspettano.


mercoledì 6 agosto 2014

Anche il portavoce ONU piange per Gaza







Chris Gunness, portavoce dell'agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, è scoppiato in lacrime: l'ex reporter della BBC piange in diretta tv, su Al Jazeera, mentre parla della violazione, continua e tragica, dei diritti dei bambini in Palestina. “I diritti dei palestinesi e anche dei loro bambini sono completamente negati e questo è atroce”, queste le parole di Gunness che rincara in un messaggio su Twitter: “ Abbiamo raggiunto il limite, membri del nostro staff vengono uccisi e i nostri rifugi sono stracolmi. Quando finirà?..La Unrwa condanna nella maniera più assoluta questa grave violazione del diritto internazionale da parte di forze israeliane”.

Gunness è stato intervistato dall'emittente Al Jazeera in occasione del bombardamento, da parte Israele, della scuola dell'ONU in cui sono rimaste uccise altre 15 persone e che ha causato anche circa 90 feriti. Questi si aggiungono ad altri numeri: 1336 morti, 7200 feriti e i 180 mila sfollati. Numeri di una guerra sfibrante che rende impotenti, ormai, anche chi continua a sperare in una tregua se non in una sua soluzione finalmente politica e diplomatica.

sabato 10 maggio 2014

Il mondo si mobilita per le studentesse nigeriane

Le donne in rosso di Abuja non si fermano e, insieme a loro, si mobilita, finalmente, anche la comunità internazionale. Cortei, tweet, striscioni per la liberazione delle studentesse nigeriane sequestrate dal gruppo terrorista di Boko Haram nello Stato del Borno, nel nord della Nigeria.

Boko Haram” in italiano significa “l'educazione occidentale è peccato” : i loro seguaci, estremisti islamici chiamati anche i “talebani d'Africa”, vogliono togliere il controllo dell'area del Paese a quell'Occidente corrotto, secondo loro, moderno, liberale e, per questo, pericoloso per le tradizioni. E, quindi, la rappresaglia inizia dalle scuole: le ragazze e le bambine (anche di età compresa tra i 9 e i 15 anni), accusate solo perchè ricevono un'istruzione, vengono trascinate via con la forza dalle loro case e dalle scuole per poi essere vendute come schiave nei mercati, in Ciad e in Camerun, come dichiarato dai leaders della setta, costrette alla conversione con ogni sorta di violenza ed essere anche date in “spose” ai loro carcerieri.  


In Nigeria si contano oltre 250 gruppi etnici, si parlano 10 lingue ufficiali; è il Paese che rilancia l'economia africana e patria di Nollywood, la più grande industria cinematografica del continente, ma il suo governo si è accorto troppo tardi di quello che sta accadendo. Solo ora che la comunità internazionale sta puntando i riflettori sul Paese, il Presidente Goodluck Jonathan ha chiesto aiuto e rinforzi.

La risposta c'è stata: gli USA hanno disposto l'invio di agenti dell'FBI e di uomini delle forze speciali; il Ministro della difesa francese, Jean-Yves Le Drian, ha dichiarato che fornirà tutta l'assistenza necessaria per riportare a casa le ragazze; anche Al Ahzar, la più importante istituzione teologica sunnita, ha chiesto ufficialmente a Boko Haram di rilasciare le studentesse.

Alle forze politiche si aggiunge il coro delle società civili che, in tutto il mondo, si sono unite nella campagna BRINGBACKOURGIRLS. E anche noi, dall'Italia, possiamo far sentire la nostra voce.

lunedì 21 ottobre 2013

Convegno Media e Immigrazione: altri interventi interessanti

L'Associazione per i Diritti Umani pubblica anche gli interventi di alcuni relatori che hanno preso parte al convegno "MEDIA e IMMIGRAZIONE. Dalla Carta di Roma all'etica professionmale. Linguaggi per costruire la cittadinanza comune", organizzato da All Tv il 18 ottobre 2013.

Oltre a quello del Ministro Kyenge, riportiamo gli interventi di (in ordine di apparizione):
- Dijana Pavlovic, Attrice Italo - Serba
- Alina Harja, Direttore responsabile Actualitatea Magazine
- Khawvatmi Radwan, Presidiente "Movimento Nuovi Italiani"
- Kyle Scott, Console Generale U.S.A.
- Peter Gomez, Direttore de ilfattoquotidiano.it
- Stefania Ragusa, Direttore Responsabile Corriere Immigrazione





E' possibile vedere questo video anche sul canale dedicato YOUTUBE dell'Associazione per i Diritti Umani dove trovate anche altro materiale. 

martedì 10 settembre 2013

Il digiuno per la pace

Foto ANSA

Si può dire “no” alla guerra anche digiunando: come molti, soprattutto bambini, che in Siria non solo stanno perdendo la vita, ma i sopravvissuti stanno soffrendo la fame a causa della guerra. Un conflitto che potrebbe estendersi e diventare di dimensioni enormi, che potrebbe coinvolgere altri Paesi del mondo - dal Mediorinete all'Occidente - e che potrebbe sterminare un numero ancora più grande di esseri umani, spesso inermi e indifesi.
Il digiuno è una privazione: è un atto simbolico per non nutrire solamente il corpo, ma per lasciare spazio e tempo al pensiero, alla riflessione interiore, a quel raccoglimento necessario per capire davvero cosa sta accadendo e per scegliere la strada giusta, quella della pace, della solidarietà, del rispetto per tutti.
E così milioni di persone hanno accolto la proposta di Papa Francesco e hanno aderito alla veglia planetaria: non solo cristiani cattolici, ma persone di tutte le fedi religiose, laiche e non credenti. Perchè quel messaggio deve essere un messaggio univerale.
Guerra e violenza hanno il linguaggio della morte”, ha affermato il pontefice in Piazza San Pietro durante la preghiera contro la guerra in Siria e ha aggiunto: “ il mondo in cui viviamo conserva la sua bellezza che ci riempie di stupore. Rimane un'opera buona, dove non ci sono violenza, né divisioni, né scontri, né guerra. Questa avviene quando l'uomo smette di guardare l'orizzonte della bellezzae si chiude in se stesso...Quando l'uomo si lascia affascinare dagli idoli del dominio e del potere, quando si mette al posto di Dio, rovina tutto: apre la porta alla violenza, all'indifferenza, al conflitto”.
Attendiamo e seguiamo, giorno per giorno, le contrattazioni internazionali con attenzione perchè in gioco ci sono l'equilibrio del mondo, il destino di migliaia di persone, la convivenza pacifica. E nessuno può restare a guardare.


La mostra fotografica OCCHI SULLA SIRIA



Nel marzo 2011 il mondo di molte persone è cambiato.
Dall'inizio degli scontri in Siria si contano quasi due milioni di rifugiati e altrettanti sfollati rimasti nel Paese. Un popolo intero costretto a spostarsi e luoghi incantevoli che non esistono più.
Le foto di questa mostra sono il frutto di tre viaggi diversi, in Siria nel 2008 e in Siria e Giordania oggi nel 2013.
Immagini che speriamo possano aiutare a guardare meglio quel mondo e quelle vite, come erano prima e come sono adesso.
A puntare gli occhi sulla Siria.

La mostra “OCCHI sulla SIRIA” è allesita fino al 15 settembre 2013 presso il Carroponte, Via Granelli, 1 Sesto San Giovanni, Milano.

Fotografie di Titty Cherasien/Ivan Sarfatti
Realizzate grazie a INTERSOS e PROGETTO SIRIA – COMITATO DI SOLIDARIETA'
FAMILIARE
Curatela di Caterina Sarfatti

mercoledì 24 luglio 2013

Il caso Tryvon Martin




Siamo negli Stati Uniti del 2012: eppure ancora qualcosa non va.
Un giovane nero - si saprà poi che aveva 17 anni - cammina, con il cappuccio di una felpa in testa e le mani in tasca, nel quartiere bianco di Sanford, in Florida. E' il 27 febbraio dell'anno scorso, ed è sera. Il ragazzo si chiama Tryvon Martin, frequenta la scuola e gioca in una squadra di football; ma quella sera, incrocia il passo di George Zimmermann, un ventottenne autoproclamatosi “capitano della guardia di quartiere”. Zimmermann, vedendo il ragazzo incappucciato, chissà perchè si insospettisce, pensa che sia uno spacciatore e inizia a seguirlo. Martin, intanto, è al telefono con un'amica alla quale dice di sentirsi pedinato da qualcuno e gli consiglia di scappare: il ragazzo comincia a farlo, la guardia teme che sia armato (solo perchè continua a tenere l'altra mano in tasca), i due si ritrovano faccia a faccia. Comincia una colluttazione, Zimmermann ha una pistola e spara. Arrivano i soccorsi, ma è troppo tardi: Tryvon è morto a soli 17 anni. Nelle sue tasche sono state trovate caramelle e una bottiglia di the alla pesca.
La vicenda di Tryvon Martin ha assunto dimensioni planetarie perchè conferma quanto lavoro c'è ancora da fare per abbattere stereotipi, pregiudizi, razzismo e violenza.
I genitori del ragazzo hanno lanciato una petizione online, pochi giorni dopo la sua uccisione, per chiedere giustizia. Durante la marcia a New York del 21 marzo 2012 chiamata “Million Hoodie March” (composta da migliaia di persone con un cappuccio in testa che scandivano slogan tra cui “Il prossimo sono io?”) la madre di Tryvon, Sybrina Fulton, ha detto: “ Questa non è una questione tra bianchi e neri. Questa è una questione di giusto e sbagliato. Nostro figlio è vostro figlio”. E le ha fatto eco il Presidente Obama che ha affermato, rivolgendosi ai genitori della vittima: “Se avessi un figlio, avrebbe il suo stesso aspetto”. Eppure un ragazzo nero con una felpa - nell'Occidente emancipato, capistalista, libero e democratico - viene ancora preso per uno spacciatore e niente di più. E viene ucciso. Anche se, nel manuale della guardia di quartiere si legge: “ Deve essere ricordato ai membri che loro non hanno poteri di Polizia e, quindi, non devono portare con sé armi né possono fare inseguimenti”.
Il sociologo Zygmut Baumann , nel suo saggio intitolato “Paura liquida” scrive: “Paura è il nome che diamo alla nostra incertezza: alla nostra ignoranza della minaccia, o di ciò che c’è da fare - che possiamo o non possiamo fare - per arrestarne il cammino o, se questo non è in nostro potere, almeno per affrontarla...La generazione meglio equipaggiata di tutta la storia umana è anche la generazione afflitta come nessun’altra da sensazioni di insicurezza e di impotenza.” (…) Il paradosso nell’analisi della paure diffuse che, nate e alimentate dall’insicurezza, saturano la vita liquido-moderna è che viviamo senza dubbio - per lo meno nei paesi sviluppati - nelle società più sicure mai esistite...I messaggi che arrivano dai luoghi del potere politico, propongono più flessibilità come unico rimedio a un livello già intollerabilie di insicurezza, prospettando ulteriori sfide e una maggiore privatizzazione dei disagi: in ultima un’insicurezza ancora minore (…). Incitano all’incolumità individuale, in un mondo sempre più incerto e imprevedibile e dunque potenzialmente pericoloso”: ormai la cultura della paura ha invaso le nostre società e modificato i nostri pensieri e gli stili di vita. La paura causa necessità di sicurezza e questa si tramuta in volontà di controllo. Ogni singola minaccia, vera o presunta, scatena aggressività e autodifesa.
E proprio appellandosi al diritto di legittima difesa, in quanto si sentiva minacciato dal ragazzino, Zimmermann, quasi a un anno di distanza dall'accaduto, è stato assolto.
I genitori potranno rivolgersi ad un tribunale civile, mentre le autorità dovranno decidere se avviare un procedimento federale.
L'opinione pubblica, non solo quella americana, ha già espresso il proprio parere: tantissime persone, infatti, sono scese in piazza per manifestare di nuovo contro la decisione della giuria della Florida mentre anche molti giornalisti e intellettuali si interrogano sul significato di quanto è successo.

giovedì 18 luglio 2013

USA: un passo indietro per i diritti civili



Cinque giudici conservatori contro quattro progressisti: la Corte Suprema americana ha abolito la sezione del “Voting rights Act” secondo la quale nove Stati del sud - Alabama, Alaska, Arizona, Georgia, Louisiana, Mississipi, South Carolina, Texas e Virginia, con un passato di discriminazioni accertate - sono obbligati a chiedere un'autorizzazione per modificare i propri sistemi elettorali.
Il “Voting rights Act” - la storica legge promossa da Martin Luther King Jr. e approvata nel 1965 dopo lunghe battaglie anche sanguinose - ha permesso, da allora, il diritto di voto a molte generazioni di cittadini neri ed anche ai rappresentanti di altre minoranze, quali: i nativi americani, gli asiatici e gli ispanici.
I giudici conservatori hanno affermato che, rispetto al 1965, la società è cambiata e così sono cambiate anche le condizioni di valutazione usate per determinare quali Stati abbiano bisogno del controllo, da parte del governo centrale, sulle modifiche riguardanti il diritto di voto, controllo inserito nella sezione 5 del “Voting rights Act” proprio per impedire pratiche discriminatorie e razziste nei confronti di alcune categorie di cittadini.
John G. Roberts, Presidente della Corte suprema, ha scritto: “ Nel 1965, gli Stati potevano essere divisi in due gruppi. Quelli con una storia recente di bassa registrazione e affluenza al voto e quelli senza queste caratteristiche...Oggi la nazione non è più divisa su quei criteri, eppure il “Voting rights Act” continua a sopravvivere”. Ruth Bader Ginsburg, esponente dei progressisti, ha replicato: “ La Corte,oggi, abolisce una norma che si è dimostrata adatta a bloccare le discriminazioni di un tempo”.
E' bene ricordare,inoltre, che prima delle elezioni presidenziali del 2012, in diversi Stati “repubblicani” sono state introdotte norme per limitare o rendere più arduo l'accesso alle urne per le persone più svantaggiate, come ad esempio: limitazioni degli orari di apertura dei seggi, l'obbligo di munirsi del documento di identità o l'impossibilità di registrarsi nelle liste elettorali il giorno stesso delle votazioni.
Il Presidente, Barak Obama, dopo aver espresso la sua profonda delusione per il passo indietro nei diritti civili, ha parlato di “un brutto colpo per la democrazia” e ha chiesto al Congresso “di varare una legislazione che assicuri che ogni americano abbia un accesso uguale alle urne”.

mercoledì 3 luglio 2013

Passi avanti per i diritti degli omosessuali: dagli USA alla Casa dei diritti di Milano



Lacrime, balli, brindisi e bandiere arcobaleno: centinaia di attivisti e di cittadini comuni si sono riversate nelle strade di Los Angeles, Washington, San Francisco per festeggiare la decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti che ha dichiarato anticostituzionale il Defence of Marriage Act (DOMA), firmato nel 1996, da Bill Clinton: anticostituzionale perchè viola il quinto emendamento della Carta, emendamento che difende le libertà civili e il principio di uguaglianza tra tutti i cittadini.
L'amore è amore. La sentenza di oggi sul Doma è un passo storico verso la parità nei matrimoni”, con queste parole il Presidente Barak Obama ha commentato la sentenza. D' ora in avanti, infatti, le coppie dello stesso sesso, sposate legalmente, avranno gli stessi diritti riconosciuti alle coppie etero: potranno godere della copertura sanitaria, di detrazioni fiscali per il compgano o la compagna a carico e del diritto all'eredità.
Contrari a questa decisione si sono dichiarati i vescovi statunitensi che - attraverso il loro portavoce, Timothy Dolan, hanno dichiarato: “Un giorno tragico per la Nazione e per il matrimonio perchè la Corte Suprema ha sbagliato” - e un esiguo gruppo di repubblicani, ma cinque giudici (contro quattro) hanno stabilito che, negando i diritti agli omosessuali sposati il governo federale “li tratta in modo meno rispettoso rispetto agli eterosessuali”.
Un'importante vittoria è stata anche ottenuta dalla “Proposition 8”, il referendum che, nel 2008, vietò i matrimoni gay in California: fatto rielvante perchè l'importanza economica della California si riflette anche sulla sua possibilità di influenzare i cambiamenti sociali americani.
E in Italia cosa succede?
Accade che sabato scorso, 29 giugno, anche Milano si è colorata con le tinte dell'arcobaleno. Il capoluogo lombardo ha, infatti, ospitato il Gay Pride, organizzato dal Coordinamento Arcobaleno delle associazioni Lgbt di Milano con il patrocinio dell'Amministrazione comunale che ha voluto gemellare il Milano Pride 2013 con il Minsk Pride - che si terrà in ottobre nella capitale bielorussa - per sostenere le comunità omosessuali anche in quei Paesi dove subiscono ancora gravi discriminazioni.
Pierfrancesco Majorino
In occasione della parata, l'assessore alle Politiche sociali, Pierfrancesco Majorino, ha annunciato la nascita della “Casa dei diritti”.
Dopo l'istituzione del registro delle unioni civili (che conta più di 1300 iscritti) e l'apertura della casella di posta elettronica antidiscriminazioni@comune.milano.it, la Casa dei diritti sarà un luogo che, dall'autunno, ospiterà associazioni e che metterà in atto attività di prevenzione e contrasto alla discriminazione di identità di genere e orientamento sessuale.

venerdì 21 giugno 2013

Aggiornamento Siria




E' scattato l'allarme a Washington: il presidente siriano, Bashar al Assad, avrebbe usato armi chimiche e, così, avrebbe superato la linea rossa oltre la quale gli Stati Uniti avrebbero deciso per un loro intervento. Anche e soprattutto di questo si sta parlando, in questi giorni, al G8, in Irlanda.
La conferma sull'uso del gas Sarin,da parte delle forze governative,è arrivata dal New York Times mentre gli USA confermano che quel tipo di armi non sia stato utilizzato dall'opposizione.
Il Sarin è un gas nervino - come il Tabun o il Vx - che blocca il funzionamento delle ghiandole e dei muscoli, causando problemi respiratori, paralisi, convulsioni e, spesso, anche la morte; l'iprite - altro genere di gas - prende il nome da Ypres, la località belga dove venne utilizzato durante la Grande guerra per la prima volta e causa, anch'esso, problemi di respirazione e piaghe sulla pelle. L'utilizzo di queste armi ha causato, in Siria dal 2012, dai 110 ai 150 decessi.
A fronte di tutto questo, l'amministrazione Obama - attraverso una dichiarazione del viceconsigliere del Presidente, Ben Rodhes - ha deliberato di aumentare l'assistenza all'opposizione siriana, anche attraverso un aiuto diretto ai ribelli. Gli USA hanno anche proposto di istituire una no fly zone, tra Siria e Giordania, per permettere l'uso delle basi giordane da cui possono decollare gli aerei di Washington e per proteggere i rifugiati.
Delle misure di intervento proposte dagli Stati Uniti ha parlato il capo dei ribelli siriani, in un'intervista andata in onda durante il telegiornale su La 7 del 17 giugno scorso.




venerdì 14 giugno 2013

La Turchia e il diritto di espressione



La notte tra, martedì e mercoledì scorso, è stata ancora una notte di scontri in Turchia.
I manifestanti sono per lo più giovani sotto i trent'anni e anche intellettuali che, in un primo momento, avevano speranto che Erdogan potesse rappresentare un buon compromesso tra le forze religiose e conservatrici e quelle laiche e filoccidentali. Ma ora si sono uniti alle voci del dissenso, soprattutto dopo che il Premier ha ribadito che il progetto urbanistico di Piazza Taksim - da cui è partita la rivolta - andrà avanti lo stesso. Linea dura confermata anche dal sindaco della città di istanbul, Huseyin Avni Mutlu, che ha affermato: “Continueremo ininterrottamente con le nostre misure, fino a quando elementi marginali saranno resi inoffensivi”. E le misure, fino alle tre dell'altra notte, sono state ancora i lanci di lacrimogeni, mentre, all'alba, i bulldozer hanno portato via i detriti e scardinato le barricate.Intanto la protesta continua anche ad Ankara e, come a Istanbul, la polizia ha reagito con lanci di gas e cannoni ad acqua.
Dall'inizio di questa situazione, il 31 maggio, si contano quattro persone decedute, centinaia di feriti e oltre 70 arresti, tra cui avvocati-attivisti che Erdogan ha definito “vandali” e “terroristi”.
Ma tutto questo ancora non è sufficiente. Il Consiglio Supremo della Radio e della Televisione (Rtuk) turco - un organismo di controllo nominato dal governo - ha deciso di multare le piccole tv che hanno trasmesso in diretta le manifestazioni, adducendo come motivazione, il fatto che: “Hanno danneggiato lo sviluppo fisico, morale e mentale di bimbi e giovani”.
Come sta reagendo, q tutto ciò, la comunità internazionale?
Gli Stati Uniti hanno espresso preoccupazione ed esigono il rispetto della libertà di espressione, di assemblea e di associazione, oltre ad di avere una stampa libera ed indipendente.
Il portavoce del Cancelliere tedesco, Steffen Seibert, ha affermato che: “Solo il dialogo può servire a calmare la situazione in modo duraturo”.
In Italia, il Ministro degli Affari esteri, Emma Bonino, ha sostenuto che Piazza Taksim non è come Piazza Tahrir, in Egitto, e che il nostro Paese vuole una Turchia pienamente democratica in Europa. Ha, inoltre, aggiunto: “ L'adesione della Turchia all'UE può avere un effetto benefico per il Paese. Nelle piazze e nelle strade si sta svolgendo un esame di maturità del governo turco” e sottolineato che, da parte della polizia turca, c'è stata una reazione sproporzionata alle manifestazioni in Gezi Park.

lunedì 13 maggio 2013

Una ragazza americana e la pace in Medioriente


Aveva ventitre anni, Rachel Carrie. Era una ragazza come tante altre: problematica, idealista, diretta, gran fumatrice. Un giorno decide di lasciare la sua città, Olympia nello Stato di Washington, per andare a lavorare a Rafa, sulla striscia di Gaza, come membro dell'International Solidarity Movement.
Il 16 marzo 2003 Rachel fa scudo con il proprio corpo per impedire la demolizione di una casa palestinese e viene schiacciata da un bulldozer dell'esercito israeliano. Il suo sacrificio è diventato simbolo di una pace ancora lontana.
Dal 14 al 16 maggio 2013, presso il Teatro Sala Fontana di Milano, verrà messo in scena lo spettacolo dal titolo Mi chiamo Rachel Carrie, per la regia di Alessandro Fabrizi e Cristina Crippa, qui anche attrice protagonista.
Il palco è spoglio: dal graticcio scendono pietre sospese, come subito dopo una deflagrazione. Gli oggetti appartenuti a Rachel - il computer, il diario, lo zaino - parlano di lei: della sua infanzia di bambina qualunque, della sua adolescenza vissuta con uno sguardo attento e critico sulla realtà, della scuola, dei primi amori e poi della scelta dell'impegno civile.
Cristina Pina recita con semplicità, ma - con lo scorrere delle parole tratte dagli scritti di Rachel - la forma teatrale lascia il posto all'emozione del contenuto. Il climax si fa ascendente fino a quando la donna spiana sul paviento una grande mappa geografica, ci si accovaccia sopra, la calpesta e piange. Ma lo strumento più importante per parlare della vicenda della ragazza americana e del conflitto israelo-palestinese è quello della parola. Restano come ferite aperte, come testimonianza e colpi al cuore gli scritti di Rachel (curati per lo spettcolo da Alan Rickman e Katharine Viner): le frasi sui suoi diari, le mail che mandava alla famiglia, gli appunti, le lettere. Tutto questo compone il monologo che si fa sfogo e riflessione e che insegna il coraggio della consapevolezza.



Rachel Corrie



venerdì 22 marzo 2013

Obama e Miss Israele: non è un gossip (e la recensione del film: Il figlio dell'altra)


Mercoledì scorso il Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, si è recato in Israele per un vertice diplomatico con i capi di Stato di quell'area del mondo - il premier israeliano Netanyahu e il Presidente Peres, il Presidente palestinese Abbas, il premier Fayyad e il re di Giordania - e si è rivolto, in particolare, agli studenti delle università perchè il suo messaggio anche per i giovani. E una ragazza di 21 anni è stata ospite proprio alla cena di gala organizzata da Shimon Peres per l'occasione. Chi è questa ragazza?
Si chiama Yityish Aynaw: Yityish ha lasciato l'Etiopia e, con il fratello, ha raggiunto la nonna in Israele, sulla costa nord di Tel Aviv. Orfana di padre e di madre - il primo è deceduto quando lei aveva due anni, la seconda quando ne aveva dieci - cita come suoi punti di riferimento Martin Luther King e Golda Meier, dicendo di quest'ultima: “La ammiro perchè è stata capace di ammettere gli errori commessi durante la guerra del 1973 e di dimettersi. Da allora le israeliane hanno conquistato sempre di più la parità”.
La Aynaw ha prestato servizio militare come sergente dell'esercito e ora è diventata Miss Israele, al concorso di bellezza nato due anni dopo lo Stato ebraico.
...Spero che le storie come la mia aiutino ad integrarci senza dimenticare chi siamo e da dove veniamo”: anche per queste sue parole proprio Barack Obama l'ha voluta come ospite alla cena ufficiale. Parole che parlano di radici e di identità: oltretutto, in aramaico, il nome Yitysh vuol dire “guardare al futuro”.


Joseph Silberg è un ragazzo israeliano, figlio di un ufficiale e di una dottoressa che gli garantiscono amore e sicurezze; Yacine Al Bezaaz è un palestinese dei territori occupati della Cisgiordania, costretto a diventare uomo troppo in fretta. Il primo è un musicista che vorrebbe entrare nell'esercito e l'altro è uno studente che vive a Parigi e vorrebbe aprire un ospedale.
Nel 1991 - anno della loro nascita, durante la Guerra del Golfo - l'ospedale di Haifa viene evacuato per motivi di sicurezza e, in quell'occasione, i neonati vengono scambiati. La verità sull'errore dell'infermiera emerge durante la visita medica di Joseph per il servizio di leva nell' Areonautica Militare israeliana: risulterà essere figlio biologico di Orith e Alon, i coniugi benestanti che vivono a Tel Aviv; mentre Yacine è figlio dei più poveri Said e Leila Al Bezaaz. La rivelazione crea panico e scompiglio; le due famiglie tentano di accorciare le distanze culturali, politiche e psicologiche. Ma, mentre i padri si rovesciano reciprocamente addosso la rabbia e il dolore dei loro popoli, i due ragazzi si interrogano sulla propria identità e fanno tesoro di questo “scherzo del destino”.
Decidono, infatti, di continuare a frequentarsi, fino a quando non decideranno addirittura di entrare uno nel nucleo familiare dell'altro: nella vita, nelle abitudini, nella mentalità per poi fare ritorno in quella vita che, per caso, è stata assegnata loro.
La regista francese di origini ebraiche, Lorain Lévi con Il figlio dell'altra parte da una situazione privata e dalla quotidianità per affrontare il tema dell'eterno conflitto che affligge l'area mediorientale: se i due popoli - quello israeliano e quello palestinese - nella realtà sono separati da un muro, nella finzione cinematografica possono varcare quell'odiosa linea di confine per mettersi nei panni del “diverso”, per superare pregiudizi e contraddizioni. I due protagonisti, infatti, trovano il coraggio di aprirsi all'Altro da sé, staccandosi dalla propria cultura di appartenenza, per poi ritornarvi con maggiore consapevolezza e onestà intellettuale.
I padri rappresentano un Passato di guerra e di rancore; le madri, invece, l'amore per la vita e per l'umanità tutta,senza distinzioni; i figli sono quelle nuove generazioni che nutrono la speranza del cambiamento. Il finale del film è volutamente aperto perchè il percorso per un futuro di condivisione è ancora in atto.




 

lunedì 11 marzo 2013

Il Presidente USA e le leggi discriminatorie

Barack Obama è tornato a parlare a favore della parità dei diritti per le coppie omosessuali. Il Dipartimento di Giustizia dell'amministrazione Obama si è, infatti, rivolto alla Corte Suprema di Washington per l'abolizione dei paragrafi del “Defense of Marriage Act” che vietano alle coppie gay di usufruire degli stessi diritti di quelle etero in relazione ai benefici previdenziali, fiscali e relativi all'immigrazione.
Il “Defense of Marriage Act” era stato approvato, in un primo momento nel 1996, da Bill Clinton per ottenere consensi da parte dei conservatori ed era, poi, stato confermato da George W. Bush, nel 2005, che lo trasformò nell'emendamento della Costituzione, secondo il quale si definisce “unione matrimoniale” solo quella tra un uomo e una donna.
Secondo l'amministrazione Obama, invece: “Impedire ai coniugi dello stesso stesso di godere di benefici federali significa discriminare molti gay e lesbiche legalmente sposati in base alle leggi degli Stati dove risiedono, ostacolando la loro possibilità di contribuire alla società”. Inoltre i paragrafi del “Defense of Marriage Act” sono in palese contraddizione con il Quinto Emendamento della Costituzione sulla parità dei cittadini davanti alla legge.
Ricordiamo che proprio Barack Obama, nel suo recente discorso per l' Inauguration Day, si era detto pronto a combattere l'omofobia, da lui equiparata alle discriminazioni nei confronti delle donne e degli afroamericani.
Per sottolineare l'importanza di questo punto, durante la cerimonia di insediamento al Campidoglio, Obama ha invitato il poeta Richard Blanco.
44 anni, omosessuale dichiarato, di origine cubane: un ispanico gay. Due caratteristiche per poterlo definire un “diverso”, secondo alcuni.
Invece sia il Presidente degli Stati Uniti sia Blanco hanno dato un grande segnale di apertura e di cambiamento, come confermato dallo stesso scrittore: “ Il tema centrale della mia poesia è la ricerca dell'identità, individuale e di popolo: io concepito a Cuba, nato in Spagna e assemblato a Miami, ho cercato con testardaggine e sofferenza di capire la mia natura di nuovo americano, di omosessuale, senza radici geografiche, ma con un forte senso di appartenenza spirituale”. E, dopo l'elezione di Obama nel 2008, aveva aggiunto: “Ho visto la mia storia ed insieme la fotografia di un profondo cambiamento, la vittoria della solidarietà nella diversità, la tolleranza, il sentirsi uguali pur essendo diversi”. Speriamo che il miracolo continui.


 

giovedì 7 marzo 2013

La morte di Hugo Chavez: un leader controverso


Hugo Chávez è deceduto a 58 anni e anche la sua fine fa discutere. E' morto a causa di un tumore, ma molti sostengono che la malattia sia la conseguenza di un avvelenamento.
Chàvez ha incarnato una politica e anche un immaginario populisti e, spesso, autoritari, ma ha sempre vinto le elezioni nel suo Paese e, nonostante i continui tentativi di delegittimazione interna ed internazionale, ha messo in atto un piano di efficaci riforme sociali, dichiarandosi sempre dalla parte degli umili.
La figura del presidente emerge quando, nel 1992 alla guida del Movimento Quinta Repubblica, tenta di mettere in atto un colpo di stato in Venezuela contro l’allora presidente Carlos Andrés Peréz. Il colpo di Stato fallì, ma Chávez ottenne così un'enorme visibilità e, da quel momento, potè cominciare a proporre le sue riforme per attuare il cambiamento. Simòn Bolìvar - il Libertador, da cui trasse l’ispirazione per una politica panamericana di liberazione dal giogo, soprattutto economico, degli Stati Uniti - ma anche Marx e Gramsci - da cui trasse la base ideologica per costruire un’opposizione frontale alla globalizzazione neoliberista, sostenendo politiche di contrasto alla povertà e di abbattimento dell’analfabetismo – sono stati i suoi punti di riferimento e gli ispiratori della sua campagna politica.
Gli USA lo definiscono un dittatore, che ha mantenuto il potere con ogni mezzo, anche attraverso la limitazione delle libertà individuali e le violazioni dei diritti umani. Alla notizia della sua morte, il Presidente americano, Barak Obama, ha affermato: “In un momento in cui il Venezuela inizia un nuovo capitolo della sua storia, gli Stati uniti restano impegnati in politiche promuovono i principi democratici, lo Stato di diritto e il rispetto dei diritti umani”. La stessa organizzazione Human Rights Watch (HRW) ricorda di avere sempre sottolineato l'indifferenza del leader sudamericano al tema dei diritti fondamentali.
E' anche vero, però, che la sua politica di stampo comunista e nazionalista ha portato la mortalità infantile ai livelli minimi, ad aumentare la scolarizzazione e ad un sistema sanitario eccellente.
Un'altra voce a favore della figura di Chàvez è stata quella dell'Autorità nazionale palestinese e di Al Fatah, attraverso le parole del dirigente Nabil Shaath: “ La Palestina dice addio a un amico fedele che ha difeso con passione il nostro diritto alla libertà e all'autodeterminazione”.



domenica 20 gennaio 2013

Aggiornamento Algeria: ultimo blitz, altre morti


Gli USA annunciano la morte di un connazionale, così come la Francia. Morti o dispersi cinque britannici: il bilancio dell'ultimo blitz in Algeria conta l'uccisione di 23 ostaggi e di 32 terroristi, secondo ciò che viene riportato dalle autorità algerine.
I miliziani, visto l'esito negativo del loro attacco, hanno giustiziato gli ultimi 7 ostaggi; altri sedici, per fortuna, di cui non si conosce la nazionalità, sono stati trovati vivi in quanto si sono nascosti nei macchinari degli impianti di estrazione. Mentre un lavoratore filippino sopravvissuto – il primo a rilasciare una testimonianza – ha detto che gli ostaggi erano stati costretti ad indossare collane fatte di esplosivo e salire su un camion-bomba che non è esploso.
L'altro ieri il Consiglio di Sicurezza dell'ONU aveva condannato l'attacco, da parte dei terroristi, come “un attacco atroce” contro il complesso di In Amenas. Nella nota si esprime anche “la più profonda solidarietà e sincere condoglianze alle vittime e alle loro famiglie” e si chiede che “ i responsabili, gli organizzatori, i finanziatori vengano portati davanti alla giustizia; e che le misure prese per combattere il terrorismo rispettino gli obblighi imposti dal diritto internazionale, in particolare per quanto riguarda i diritti umani, quelli umanitari e dei profughi”.
E' stato, intanto, accertato che il gruppo terrorista provenga dal Niger e il segretario della difesa americano, Leon Panetta, ha dichiarato che gli Stati Uniti “prenderanno tutte le misure necessarie per proteggere la popolazione” dalla minaccia terroristica in Africa (e negli Stati che si affacciano sul Mediterraneo).


A proposito di profughi: una piccola storia di una grande ragazzina siriana

“Ero alla finestra e guardavo i jet sopra di noi. La mia famiglia è scappata via, ma io volevo prima bere un po' d'acqua e poi scappare”. Sono le parole di Sharifa, una bambina, profuga siriana che vive nel campo rifugiati di Bab al Salam, perchè quel bombardamento ha fatto crollare il soffitto dell'appartamento dello zio in cui viveva e le ha tranciato una gamba.
Sharifa racconta la sua difficoltà a muoversi, soprattutto all'interno del campo, che è vasto e dove tutto per lei è lontano, ad esempio i sevizi igienici; le braccia le fanno male quando usa troppo le stampelle. “Vorrei solo camminare ancora, non giocare, solo camminare”, dice la ragazzina. E ha un sogno: poter tornare nel suo villaggio, completare gli studi e diventare maestra.