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mercoledì 18 novembre 2015

La sacralità di Lea Garofalo secondo Marco Tullio Giordana







 



Questa sera, alle 21.20, su RAI 1 il film di Marco Tullio Giordana sulla vita di Lea Garofalo.



di Maurizio Porro (da La 27maOra)
 
 
Altri 100 passi di Marco Tullio Giordana in direzione del cinema civile. Se nel film di 15 anni fa con Lo Cascio si ricordava Peppino Impastato in lotta contro la mafia in cui militava il padre, Lea , che apre l’11 novembre il RomaFiction Fest coordinato da Piera Detassis, è la storia di una vittima della ‘ndrangheta in cui milita tutta la famiglia. Dice il regista: «Lei aveva fatto vedere I cento passi alla figlia, dicendo che avrebbe fatto la stessa fine: quel film è stato un punto di riferimento. Questo ricorda uno dei fatti di cronaca più spaventosi, un omicidio tribale e orrendo che viene da un mondo remoto».
Ancora anime nere: la Calabria in trasferta al Nord e una donna che non vuole accettare il malaffare atavico e cerca di resistere con la figlia Denise, sotto scorta. Quando il programma di protezione viene revocato, Lea scompare, il 24 novembre 2009. Spetta a Denise infiltratasi nella cosca familiare per denunciare i veri colpevoli, fratello e padre, smascherati da un pentito, finché il corpo viene trovato: ergastolo per tutti, anche per la 24enne Denise che vive da sorvegliata speciale.
Una vera tragedia greca. «Gli elementi ci sono tutti — dice Giordana —. Il film è in ordine cronologico: la adolescenza calabrese di Lea, inseguendo un romanzo di formazione, girando a Milano, ricostruendo aule del tribunale e telecamere di sorveglianza. Solo alla fine ho inserito veri documenti del funerale con la città intera mobilitata. L’eloquenza di quelle facce ed espressioni non si poteva replicare, volevo fosse chiaro che avevamo raccontato una storia vera».
Tornando alla tv, dove piantò un paletto d’autore con La meglio gioventù , Giordana la vede come un supporto importante: «Proposta l’idea, ho girato come un fulmine in 6 settimane». Lea (produzione Rai e Angelo Barbagallo con l’Associazione Produttori Tv e la Fondazione Cinema per Roma, col sostegno di Regione Lazio, Camera di commercio) passerà su Rai1 il 18 novembre. «Non è solo un film-tv di rara forza, ma è anche un‘opera di grande valore civile, anzi di denuncia. Un impegno che per noi è prioritario», sottolinea il direttore Rai Fiction Tinny Andreatta.
Tensioni sul set? «No — riprende Giordana — ho avuto appoggi basilari, come quello di don Ciotti, interpretato da Diego Ribon. Lui e l’avvocato Vincenza Rando hanno spiegato che la denuncia contro l’omertà, la rottura con le famiglie, è il passo che mette in crisi i meccanismi automatici di obbedienza, le leggi non scritte della ‘ndrangheta».
E qui è la madre Lea a ribellarsi: «Quando le donne rompono la linea di continuità si apre la frattura, la crisi vera. Don Ciotti rivela che, dopo Lea, è stato avvicinato da molte donne terrorizzate, il fenomeno è in crescita, è l’unico modo per rompere il blocco, la fortezza impenetrabile». Per Lea un cast di volti nuovi di cui Giordana è entusiasta, partendo dalle due eroine, Vanessa Scalera (Lea) e Linda Caridi (Denise).
Ma fra quei cento passi e questi c’è continuità: «È sempre l’universo familiare, clan a delinquere fondato sul sacro vincolo di sangue. Lea si ribella e cambia vita perché pensa ai figli, cioè al futuro. Gli uomini hanno perso credibilità, le donne sono concrete, a loro spetta educazione e trasmissione di valori. L’elemento rivoluzionario è femminile».
La prova? È nel testo che Giordana prepara dell’irlandese Colm Tòibìn, Il testamento di Maria con Michela Cescon, dal 17 novembre allo Stabile di Torino. «Le due figure archetipe di madri, una laica, l’altra sacra, la Madonna, due ribelli che protestano contro il ruolo attribuito, vogliono esser se stesse».
Anche Lea ha una sua religione in fondo? «In lei c’è sacralità. Ex agnostico e incredulo, oggi ho la massima curiosità e invidia per chi ha la fede. Penso che Lea credesse: quel sentimento di maternità l’avvicina alla religione. Perciò metto il film a disposizione della società civile. Ma di politica non ne voglio più nemmeno sentir parlare».


sabato 7 marzo 2015

Dijana Pavlovic e gli eurodeputati dell'Altra Europa annunciano azione legale contro Buonanno




Bruxelles, 05/03/15


Oggi la delegazione italiana al Parlamento Europeo ha incontrato Dijana Pavlovic attaccata con un’espressione nazista dall’eurodeputato Gianluca Buonanno durante la trasmissione “Piazzapulita” di lunedì 2 marzo. «Le ignobili parole pronunciate da Buonanno sono solo l’ultimo volgare episodio della crescita di un fermento razzista e antidemocratico nella società e nella politica italiana», hanno dichiarato i deputati europei della lista L’Altra Europa con Tsipras, Eleonora Forenza, Curzio Maltese e Barbara Spinelli.

I tre deputati esprimono solidarietà a Dijana, già candidata nella lista L’Altra Europa: «Troppo spesso le testimonianze di sostegno rischiano però di trasformarsi in retorica. È quindi necessario non fermarsi alle parole, ma approfittare di ogni meccanismo legale possibile per difendere i valori democratici e assicurare con forza la sussistenza dello stato di diritto in modo da non permettere più in futuro l’impunità di ogni manifestazione di odio razziale». Per questo Forenza, Maltese e Spinelli partecipano all’azione legale di Dijana Pavlovic e dell’associazione Upre Roma contro Gianluca Buonanno, e invitano i colleghi deputati a prendere parte alla denuncia.

«È essenziale aumentare i livelli di vigilanza e consapevolezza verso ogni forma di discriminazione - hanno concluso i tre eurodeputati dell’Altra Europa con Tsipras - e per questo chiediamo: innanzitutto che la legge 211/2000, che istituisce la giornata della memoria del 27 gennaio, contempli tutte le vittime della persecuzione nazifascista, quindi anche Porraymos, l’olocausto rom e sinti. Secondo: che in Italia si riconosca lo status di minoranza storico-linguistica a Rom e Sinti. Infine, chiediamo al governo italiano un’incisiva applicazione della strategia nazionale per l’inclusione dei Rom, Sinti e caminanti».



domenica 26 ottobre 2014

La Norvegia si appresta a deportare un richiedente asilo disabile verso l'Afghanistan




Di Basir Ahang



Oggi, 25 ottobre 2014 il governo norvegese si appresta a deportare Gholam Nabi, un richiedente asilo hazara proveniente dalla provincia di Baghlan nel nord dell’Afghanistan. In questa provincia secondo Human Rights Watch nel maggio del 2000 sono state massacrate decine di persone da parte dei talebani solo perché appartenevano all’etnia hazara. Quattro di queste persone uccise erano parenti di Gholam Nabi. Nabi in questo momento si trova all’aeroporto di Gardermoen, ad Oslo. La sua deportazione è prevista per le sei di questa sera.

Nabi è arrivato in Norvegia nel febbraio del 2008 all’età di 17 anni. Il suo unico desiderio era quello di avere una vita normale, lontana dalla violenza e dalla morte. Appena arrivato ha inoltrato la richiesta di protezione internazionale. Pochi mesi dopo, mentre stava uscendo da un café nel centro di Oslo con alcuni suoi amici, è stato investito da una macchina sulle strisce pedonali. La notizia è stata pubblicata su molti giornali di Oslo e alcuni clienti del cafè hanno persino fotografato l’accaduto.

Per due giorni Nabi è rimasto in coma all’ospedale e quando si è risvegliato i medici gli hanno detto che alcune vertebre della spina dorsale si erano rotte e che se non avesse subito un’operazione sarebbe rimasto paralizzato per sempre.

Mentre si trovava in ospedale, Nabi ha ricevuto il diniego di protezione internazionale da parte dell’UDI (the Norwegian Directorate of Immigration). Secondo l’UDI infatti Nabi in Afghanistan non correrebbe alcun pericolo. In seguito l’ospedale ha comunicato a Nabi che non avrebbero potuto effettuare l’operazione in quanto il governo norvegese non avrebbe sostenuto le spese ospedaliere per un immigrato al quale era stata rifiutata la protezione internazionale. Nabi si è quindi rivolto alla polizia per denunciare la persona che lo aveva investito.

Alla centrale però si è sentito rispondere che visto che la sua richiesta di protezione era stata rifiutata non si sarebbero potuti occupare della denuncia. L’unica possibilità, gli dissero i poliziotti, era quella di tornare in Afghanistan, trovare un avvocato e da lì sporgere denuncia. Ho conosciuto Gholam Nabi nel mese di aprile durante un mio viaggio in Norvegia.

Quando ho sentito la sua storia sono rimasto molto colpito ed amareggiato. Ho fotocopiato alcuni suoi documenti e ho ascoltato il suo dolore.

Nabi prende ancora oggi sei tipi di medicinali diversi per non sentire il dolore. Nabi mi ha detto di aver bussato a tutte le porte per ottenere aiuto ma nulla gli è valso ad ottenere giustizia. Invece di aiutarlo, il suo avvocato, senza vergogna, gli ha detto che probabilmente la sua spina dorsale era rotta ancora prima di arrivare in Norvegia. La Norvegia viene presentata all’opinione pubblica come la patria dei diritti umani.




Norway is preparing to deport asylum seeker with disabilities to Afghanistan



by Basir Ahang




Today, October 25, 2014, the Norvegian government is preparing to deport Gholam Nabi, a hazara asylum seeker coming from Baghlan province in northern Afghanistan. In this province, according to Human Rights Watch, in May 2000 dozens of people were massacred by taliban just because they belonged to ethnic hazaras. Four of those killed were relatives of Gholam Nabi. Nabi at this time is located at the airport in Gardermoen, Oslo. This deportation is scheduled for six o'clock this evening.

Nabi has arrived in Norway in February 2008 at the age of 17 years. His only desire was to have a normal life, away from violence and death. Just get the requesting international protection. A few months later, while he was leaving a cafe in the center of Oslo with some friends, was hit by a car in the crosswalk. The news was published in many newspapers in Oslo and some customers of the cafe have even photographed the incident.

For two days Nabi was in coma and when he woke up in the hospital the doctor told him that some vertebrae of the spine were broken and that if he had not had an operation would be paralyzed forever.

While in hospital, Nabi received the denial of intrnational protection from UDI (the norwegian Directorate of Immigration). According to the UDI fact Nabi in Afghanistan would face any danger. Later, the hospital announced in Nabi that they could not support the hospital charges for an immigrant who had been denied intrnational protection. Nabi was then called the police to report the person who had invested.

At the center, however, he was told that because his request for protection was rejected, would not have been able to take up the complaint. The only possibility, they said the police, had to go back to Afghanistan, find a lawyer and file a complaint here.

I met Gholam Nabi in April during my trip in Norway. When I heard his story I was very impressed and disappointed. I copied some of his papers and listened to his pain.

Nabi still takes six types of different drugs to not feel the pain. Nabi told me that he had knocked on every door to get help, but nothing brought him to justice. Rather than help him, his lawyer, without shame, told him that perhaps his spine was broken even before he arrived in Norway.

Norway is presented to public opinion as the home of human rights.

lunedì 9 giugno 2014

Il premio va...al romanzo "La fabbrica del panico"



Il romanzo di Stefano Valenti, La fabbrica del panico ha vinto il Premio Campiello – Opera prima e noi siamo lieti di ripubblicare l'intervista che abbiamo fatto all'autore in occasione della scorsa Giornata dei lavoratori.









Nel romanzo si racconta la storia dell'Italia operaia dagli anni cinquanta ad oggi: cosa è cambiato nelle condizioni di vita delle persone che lavorano in fabbrica?



Poco o niente, per molti versi la crisi mondiale ha aggravato la condizione operaia. Con il ricatto della disoccupazione padroni e sindacati confederali obbligano a turni e a ritmi sempre più pesanti. Esistono oltre tre milioni di disoccupati e tuttavia chi ha la 'fortuna' di avere un lavoro è costretto a fare straordinari con turni anche di dodici ore al giorno come è successo alla ThyssenKrupp nel 2007. Così i padroni alimentano la concorrenza fra lavoratori e incrementano i profitti risparmiando sulla manutenzione e sulla sicurezza, come è accaduto all’ Eternit di Casale Monferrato, alla Fibronit di Broni, alla Breda di Sesto San Giovanni e in moltissime fabbriche. La 'normalità' dei morti sul lavoro e di lavoro a causa delle malattie professionali non è un residuo ottocentesco, ma rappresenta semmai la 'modernità' del capitalismo che continua a uccidere. Le morti sul lavoro non sono una fatalità, ma il tributo degli operai alla realizzazione del profitto.



Una storia molto personale che si fa universale: ci conferma che si tratta anche di una storia di denuncia?



Negli ultimi decenni la narrativa italiana ha accuratamente evitato di raccontare parte consistente del Paese, classe operaia e indigenti in particolare. Il postmoderno ha assoggettato la prosa agli automatismi della fiction, prelibata dai media e dal mercato. È arrivato il momento di parlare anche di coloro che sono stati messi da parte.



Per tutti coloro che si sono ammalati in quanto esposti, per anni, a sostanze nocive: sono stati condannati i responsabili della Breda Fucine? Conosce casi simili a quello raccontato nel libro e in cui siano state inflitte pene esemplari oppure è difficile che questo accada?


Per quanto riguarda la Breda fucine, dopo numerose archiviazioni, sono giunti a conclusione due processi. Il primo, nel 2003, ha assolto i dirigenti 'perché il fatto non sussiste', il secondo, nel 2005, pur riconoscendoli colpevoli, li ha condannati per omicidio colposo a diciotto mesi concedendo le attenuanti generiche.

Bisogna ricordare che per anni è esistito un muro di omertà e complicità da parte di Stato, partiti e istituzioni tutte. Oggi la situazione sta cambiando grazie alle lotte degli ultimi anni dei comitati sorti in fabbrica e nel territorio, come quello della Breda fucine, che hanno riunito nel territorio operai e cittadini. Ne sono un esempio i processi ThyssenKrupp ed Eternit in cui sono state comminate pene esemplari sia in primo sia in secondo grado, con pesanti condanne


Come procede l'operato del Comitato per la difesa della salute nei luoghi di lavoro e nel territorio, comitato che è stato fondato a Sesto San Giovanni nel 1996? Sono stati ottenuti risultati positivi?


ll Comitato che ha sede nel Centro di iniziativa proletaria G. Tagarelli – Giambattista Tagarelli, al quale è stata intitolata la sede, è uno dei fondatori del Comitato ucciso dalle fibre killer – ormai è ramificato sul territorio nazionale ed è diventato un interlocutore stabile delle istituzioni favorendo il riconoscimento dell'esposizione all’amianto e delle malattie professionali di centinaia di ex lavoratori vittime dell’amianto e dei cancerogeni. Il Comitato è tra gli artefici del Coordinamento nazionale amianto che raggruppa decine di associazioni e comitati in tutta Italia. Grazie a lotte e manifestazioni è riuscito a far approvare il Fondo per le vittime dell’amianto e l'assistenza gratuita delle vittime dell'amianto e dei loro famigliari presso la Clinica del lavoro di Milano o nei comuni di residenza. Inoltre nel mese di aprile di ogni anno ricorda pubblicamente tutti i lavoratori morti a causa dello sfruttamento con un corteo a cui invitiamo anche i vostri lettori a partecipare e che si terrà sabato 26 aprile 2014 alle ore 16 con partenza dal Centro di iniziativa proletaria G. Tagarelli di via Magenta 88 a Sesto San Giovanni.

martedì 22 aprile 2014

Federica Angeli: il coraggio di una moglie, madre e giornalista




Non è da tutti prendere posizione contro la mafia, ma c'è chi decide di farlo, senza scendere a compromessi con nessuno, nemmeno con se stesso. Federica Angeli è una di queste persone: una donna, una moglie, una madre, una professionista - giornalista di Repubblica - che non ha avuto paura di scrivere, di denunciare, di impegnare la propria vita nella lotta alla criminalità organizzata per dimostrare che le mafie esistono, che sono infiltrate ovunque, ma anche per spronare tutti a stare all'erta e a non piegarsi a una cultura del ricatto e della sopraffazione.

Abbiamo intervistato per voi Federica Angeli, vincitrice del premio donna X Municipio 2014 e che ringraziamo per queste sue parole e anche perchè ha risposto alle nostre domande anche con il cuore.   





Ripercorriamo, brevemente, la sua esperienza: vive sotto scorta perchè denunciò una rissa tra clan a Ostia, in un quartiere caratterizzato da un forte abusivismo edilizio?
Non proprio. Sono stata messa sotto scorta per il combinato congiunto di un’inchiesta che ho condotto a Ostia, nel corso della quale ho ricevuto pesanti minacce di morte da parte di un appartenente alla famiglia Spada, un clan di origine nomade molto spietato, e della mia testimonianza, come cittadina, rispetto a quanto accaduto davanti a una sala scommesse la notte a cavallo tra il 15 e il 16 luglio 2013. Il quartiere non è affatto caratterizzato da un abusivismo edilizio, quello di cui parla è l’Idroscalo, che dista almeno due chilometri da dove è accaduta la rissa e dove morì Pasolini. La strada in cui è avvenuto lo scontro a colpi di coltelli e di pistola è sicuramente caratterizzata dalla presenza di pregiudicati e criminali che gravitano attorno a quella bisca, l’Italy Poker, davanti alla quale scoppiò l’inferno in una notte d’estate.
Vivere sotto scorta ed essere moglie e madre, oltre che giornalista: come conciliare tutto questo? E in nome di quali ideali ha fatto questa scelta professionale e di vita?
E’ davvero molto complicato conciliare il tutto. Diciamo che io e mio marito abbiamo scelto di far vivere ai bambini tutto questo sulla falsa riga del film "La Vita è bella". Tutto è un gioco in cui abbiamo quattro straordinarie persone (i carabinieri del nucleo scorte) che per i bambini sono i nostri autisti. Tolta la maschera del gioco, resta una grande amarezza e preoccupazione per lo stato delle cose. Ai bimbi in strada personaggi di grosso spessore criminale hanno fatto il segno della croce, sono venuti a gridarci sotto casa, dopo la mia denuncia, "infami, gli infami muoiono". Insomma è molto dura vivere senza libertà, trovare un sorriso rassicurante ogni giorno per i miei cuccioli, rassicurare un marito che si è trovato con una vita sconvolta per aver subìto una mia scelta e continuare ad avere la concentrazione per portare avanti il mio lavoro. Tuttavia nei miei momenti più bui, penso sempre al forte credo che è in me, al senso innato di giustizia che mi ha sempre caratterizzato. Mi piace pensare di poter cambiare un mondo in cui in molti cominciano a sentirsi stretti, mi piace contribuire, in virtù della mia penna e delle mie inchieste-denuncia, a raddrizzare questo mondo che sembra non avere più un verso e in cui molti ideali sembrano perduti, dimenticati. Ecco io non mi rassegno, non mi adeguo a vivere secondo regole che non mi appartengono, a cui molti si sono, loro malgrado, piegati. Per cui lotto, come posso. Ed è tutto questo che mi ha sempre guidato nel mio percorso professionale. Ma le garantisco, mai avrei immaginato di finire sotto scorta dal luglio scorso.
Ora i tre che l'hanno minacciata sono liberi: lo Stato è debole, impotente o altro?
La sensazione che sicuramente questi criminali hanno, è di debolezza dello Stato. Tanto che, il giorno in cui sono stati messi ai domiciliari (il 16 ottobre) sono venuti sotto la mia abitazione a fare un brindisi. Io praticamente in prigione, senza la mia libertà e loro liberi di scorrazzare. Il mio punto di vista è decisamente più critico nei confronti della magistratura in questo caso. Perché se un pubblico ministero che prende in mano un fascicolo in cui i carabinieri scrivono che due soggetti (affiliati peraltro al potente clan dei Triassi a processo per 416 bis, associazione a delinquere di stampo mafioso) vengono accoltellati ai polmoni e alla giugulare con prognosi di 60 e 30 giorni e un periodo in terapia intensiva in ospedale, che questi soggetti reagiscono alle coltellate ferendo con un colpo di pistola al polpaccio Ottavio Spada, già indagato per un duplice omicidio di due grossissimi pregiudicati nel 2011, ecco, mi chiedo: perché classificare il reato in rissa aggravata, piuttosto che tentato omicidio? Qual è stata la valutazione del pubblico ministero Erminio Amelio nel valutare lo spessore criminale dei soggetti coinvolti? Visto poi che ci sono testimoni - io nella fattispecie - e sono state ritrovate le armi del delitto: cos’è che ha fatto scegliere al pubblico ministero un reato che prevede sei mesi di detenzione? Incompetenza? Sottovalutazione di un fenomeno criminale? Certo è che, di questo passo, lo Stato rischia di rafforzare i clan, che gongolano in un senso di impunità garantito dalla giustizia stessa.
Nel suo percorso professionale ha visto in faccia la mafia: ci può raccontare - e commentare – l'episodio che più l'ha colpita? Ad esempio, il suo rapporto con la famiglia Fasciani...
Ce ne sono tantissimi di aneddoti che potrei raccontarle. Con la famiglia Fasciani ho sempre avuto un rapporto di estrema onestà. Entrambi sapevano chi eravamo, non ci siamo mai nascosti dietro finzioni. Le loro regole del gioco sono molto ferree: guai a tradirsi, guai a fare "l’infame". E per infame intendono anche il giornalista, ad esempio, che si nasconde dietro una sigla o uno pseudonimo quando scrive di loro. Uno che li attacca alle spalle. Di me avevano stima, perché, mi dicevano, avevo avuto il coraggio di guardarli negli occhi, di bussare alla loro porta e di scrivere sempre le cose correttamente, senza sparare a zero, senza aggiungere particolari per fare folklore. Insomma, malgrado sapessero che stavo conducendo un’inchiesta su Ostia che avrebbe coinvolto anche la loro famiglia, non hanno mai cercato di stopparmi. Ma ricordo una volta in cui la moglie di don Carmine mi chiamò e mi fece avvicinare a lei: fissava un gatto e mi disse che lei adorava i gatti. "E sa perché? Per due motivi: il primo è perché non parlano, il secondo è perché non tradiscono mai". Un messaggio importante, che mi colpì.
Cosa si può fare per combattere indifferenza e omertà?
Io le posso dire quello che faccio io. Denuncio con le mie inchieste, vado nelle scuole, nei licei della capitale a raccontare la mia esperienza, cerco di lasciare un semino in ogni ragazzo che guardo negli occhi, tento di farli ragionare e di far capire loro quanto, nella vita, sia importante prendere posizione, fare una scelta. Non importa quale sia, paradossalmente possono anche scegliere di avvicinarsi alla criminalità. Ma restare nel silenzio, avere il timore di fare dei nomi e dei cognomi, girarsi dall’altra parte: ebbene questo è anche peggio di stare dalla parte dei cattivi, per come la vedo io. Mi ha colpito uno degli incontri che ho fatto al liceo Enriques di Ostia. I ragazzi avevano preparato, prima dell’appuntamento con me, un video, in cui avevano girato per Ostia con una telecamera e avevano intervistato le persone chiedendo loro se erano consapevoli che in quel territorio esistesse la mafia: tutti gli intervistati hanno risposto sì, senza paura, hanno fatto persino i nomi. Esattamente un anno prima io, per il mio giornale, avevo fatto la stessa cosa e nessuno aveva parlato. Ecco le coscienze si sono svegliate, tutto sta avendo un senso. Quei ragazzi, inconsapevolmente, col loro prezioso lavoro mi hanno dato molta carica e così la mia libertà sacrificata ha riacquistato un significato. Bisogna capire che l’omertà e l’indifferenza sono il pane di cui si alimenta la malavita, ed è per questo che la voce della stampa dà così fastidio. E bisogna uscire dal guscio del "che schifo il mondo ma non posso farci nulla, quindi taccio". Fare qualcosa si può. Perché, sono fermamente convinta, siamo ancora in tempo per vivere una vita migliore. Forse anche io un giorno tornerò libera e mi unirò alla festa di chi ha combattuto per i miei stessi ideali, non scoraggiandosi mai. E sarà davvero un bel giorno. Per tutti.





sabato 23 novembre 2013

L'attenzione su Bahar Kimyongur


Una notizia passata in secondo piano, forse solo per gli “addetti ai lavori”; un nome poco conosciuto. Ma bisogna, invece, parlarne: parlare del caso di Bahar Kimyongur, un attivista turco-belga, vittima della prima applicazione, su suolo europeo, del regime di paura affermatosi dopo la tragedia delle Torri Gemelle, a New York, nel 2001. L'accusa era quella di far parte di un gruppo comunista turco legato ad organizzazioni terroristiche.
Arrestato e rilasciato più volte, Kimyongur denuncia a viso aperto la politica repressiva del Presidente turco Erdogan e l'ingerenza della NATO in Siria.
Pochi giorni fa, l'attivista è arrivato in Italia per partecipare a due incontri pubblici, a Monza e a Padova, proprio per parlare dell'ingerenza della Turchia nella complessa situazione siriana, ma – atterrato all'aereoporto di Bergamo – è stato prelevato dalla Digos e portato in carcere. Non sono ancora chiari i motivi.
Kimyongur rischia l'estradizione in Turchia: per evitare questo, il Collettivo Tazebao, che aveva organizzato gli incontri, ha scritto un comunicato e molti si stanno attivando per cercare notizie e organizzare iniziative di solidarietà.

Riportiamo, di seguito, un articolo di Bahar Kimyongur (pubblicato anche su ap0ti@blogspot.it)

Bahar Kimyongür: a Lille, Martine Aubry censura un dibattito sulla Siria‏
 
Le shabbiha (*) di Fabius e Hollande hanno colpito ancora: nuovo attentato alla libertà d'espressione di cui la “patria dei diritti umani” è ormai la campionessa.
Sabato scorso, 6 aprile, la sala comunale Philippe Noiret nel quartiere Wazemmes di Lille, avrebbe dovuto ospitare una conferenza sulla Siria, organizzata dalla Coordinazione Comunista e il Fronte di Sinistra, con lo scienziato franco-siriano Ayssar Midani – e il sottoscritto – come ospiti.
Qualche giorno prima, un oscuro gruppo che si proclamava “antifascisti senza patria o frontiera” ha lanciato un appello al sabotaggio della conferenza.
Nel loro lobbying a favore della censura, i sedicenti “antifa” ci accusano di scendere a patti con il diavolo, ovvero i regimi di Damasco e Tehran: in altre parole, i nemici principali d'Israele.
Visto il numero di dittature detestabili che sterminano popolazioni intere per consolidare il loro dominio – a cominciare dai “nostri” capi di stato – noi riteniamo che la scelta di prendersela esclusivamente con la Siria e con l'Iran non sia frutto del caso.
Per confondere la pista, gli pseudo-antifasciti non esitano a tuffarsi nella demagogia, accusando i partecipanti alla nostra conferenza di essere “dei PR a servizio delle dittature”, dei “rosso-bruni”e dei “nazbol”, contrazione di nazisti e bolscevichi. I martiri di Stalingrado e i più di venti milioni dei loro compatrioti apprezzeranno di essere amalgamati con i loro invasori e boia.
Alla fine, la campagna diffamatoria lanciata da questi provocatori senza né patria, né frontiera, né volto, né coraggio, né cervello ha conseguito il suo traguardo.
La signora Aubry, sindaco di Lille, ha in effetti probito la conferenza “per ragioni di sicurezza”.
Volendo assicurarsi che nessuna voce dissidente sulla Siria si esprimesse nelle sue sale, la “maccarthyana” Aubry ha persino fatto cambiare le serrature delle porte nella sala Philippe Noiret, sapendo che gli organizzatori dell'evento avevano precedentemente ricevuto un'autorizzazione e disponevano quindi delle chiavi.
Ma grazie al senso pratico di alcuni militanti, e alla generosità di un negoziante curdo, la nostra conferenza si è potuta finalmente tenere, in un ristorante di kebab alla periferia di Lille.
Malgrado le eccezionali condizioni d'organizzazione, circa 80 persone hanno potuto comunque riunirsi, informarsi e intervenire sulle alternative riguardo alla risoluzione del conflitto siriano.
Non era la prima volta che un dibattito aperto, critico e contraddittorio sulla Siria veniva censurato in questo modo dall'Inquisizione di matrice sionista.
Venerdì primo marzo 2013, gli amici svizzeri dei nostri indomiti “antifa”avevano manifestato contro la nostra conferezna sulla Siria a Ginevra sulla base di una grottesca diceria di collusione con l'estrema destra (vedere: http://www.silviacattori.net/article4287.html).
Non molto tempo fa eravamo accusati di essere talibani per aver denunciato la guerra in Afghanistan, agenti di Saddam per aver parlato contro la guerra in Iraq e “gheddafisti” per aver militato contro l'invasione della Libia.
Anche la minima simpatia che manifestiamo nei confronti della resistenza palestinese o libanese è tacciata di antisemitismo.
Al debutto di ogni campagna guerrafondaia, siamo sempre accusati di collusione con il nemico da gruppuscoli clandestini che se la giocano da ribelli libertari, ma i cui atti e parole servono indefinitiva solo a rafforzare la legge del piùforte.
Teniamo ancora una volta ad avvertire i nostri detrattori che le minacce non ci impediranno nédi denunciare le guerre che gli altri padroni impongono alla Siria, nédi militare per una risoluzione pacifica e politica del conflitto nel paese.
 

(*) Il termine shabbiha designa gli ausiliari dell'esercito siriano che combattono l'insurrezione anti-baathista. Il termine però sembra convenire sempre più agli ausiliari degli eserciti NATO che combattono contro i militanti anti-imperialisti.

Articolo originale: Lille : Martine Aubry censure un débat sur la Syrie
Bahar Kimyongür