Pubblicato sul Corriere della Sera il 27 settembre 2013
Riportiamo
questo reportage perchè, oggi ancora di più, il tema dei
richiedenti asilo e dell'immigrazione deve essere al centro delle
riflessioni politiche e sociali. E anche perchè una decina di
siriani, a distanza di mesi, è ancora accampata alla Stazion
Centrale di Milano in attesa di essere trasferita in un centro di
accoglienza o che sia trovata qualche altra soluzione, magari
migliore.
Abbiamo
anche deciso di pubblicare alcune fotografie di bambini siriani, nel
loro Paese, prima della rivoluzione e della guerra: come augurio
affinchè tornino a vivere in un clima sereno. (Le fotografie sono di
Mariangela Possenti che ringraziamo per averle condivise con tutti
noi)
Li
vedi che si muovono come ombre, silenziosi e attenti: non
vogliono essere identificati, in Sicilia hanno fatto resistenza agli
agenti che prendevano le impronte digitali, in Lombardia evitano gli
sportelli di aiuto che siano del Comune o della Caritas: vogliono
solo ripartire. Chi ha raggiunto il Nord è informato e sa che
chiedere asilo in Italia non è un buon affare, perché ai rifugiati
il Paese offre poco e perché inoltrare la pratica qui, in base ai
regolamenti europei, significa non poter varcare il confine.
Devono anche stare attenti ai truffatori. In stazione si è sparsa la voce dell'arrivo a frotte dei siriani, raccontano che uomini nordafricani offrono passaggi clandestini, si prestano a fare biglietti, approfittano delle difficoltà a esprimersi in un'altra lingua che non sia l'arabo per togliere a queste famiglie gli ultimi soldi rimasti. È uno dei motivi per cui Abdallah e i suoi amici si danno il cambio in piazza. «Appena posso lasciare il lavoro - fa il marmista - vengo a vedere se ci sono connazionali che hanno bisogno di aiuto». Latte per i piccoli, un cambio di biancheria, ma soprattutto un tetto.
Devono anche stare attenti ai truffatori. In stazione si è sparsa la voce dell'arrivo a frotte dei siriani, raccontano che uomini nordafricani offrono passaggi clandestini, si prestano a fare biglietti, approfittano delle difficoltà a esprimersi in un'altra lingua che non sia l'arabo per togliere a queste famiglie gli ultimi soldi rimasti. È uno dei motivi per cui Abdallah e i suoi amici si danno il cambio in piazza. «Appena posso lasciare il lavoro - fa il marmista - vengo a vedere se ci sono connazionali che hanno bisogno di aiuto». Latte per i piccoli, un cambio di biancheria, ma soprattutto un tetto.
Safwan
Bari si è portato a casa due donne e sette bambini, che con i suoi
fanno undici. «Chiedo
scusa per l'odore - nel salotto l'aria è irrespirabile -: sono due
settimane che non si tolgono scarpe e vestiti», hanno pianto, hanno
vomitato per il mare grosso, questo ragazzino coi ricci neri seduto
sul divano ha pure rischiato di cadere in acqua. È la mamma a
raccontarlo, Safwan traduce. Sono fuggiti da Erbin, quartiere alla
periferia di Damasco, dopo l'attacco dell'esercito di Assad con le
armi chimiche. Hanno raggiunto Latakia, la cittadina portuale a Nord
di Homs, e lì hanno pagato. «Cinquemila dollari per ogni adulto,
2.500 per i bambini». Fanno 17.500, come ve li siete procurati? «Mio
marito, commerciante d'automobili, li aveva messi da parte». Non
abbastanza, però. Il resto viene da una colletta di amici e parenti,
che si sono sacrificati perché almeno loro, i più giovani, si
salvassero.
Il centro di raccolta e di «smistamento» dei profughi è a poche centinaia di metri da casa sua, in un bar di Cologno Monzese ritrovo della comunità siriana a Nord di Milano. Ai tavolini sono tutti maschi e discutono di come affrontare l'emergenza. Non c'è posto per tutti, qualcuno dormirà in auto. S. M. per ora ha trovato ospitalità: 35 anni, rosso di barba e di capelli legati in una coda, una pallottola nel braccio sinistro sparata da un cecchino, nel suo quartiere alla periferia di Damasco aveva un negozio di scarpe, ma si dilettava anche di ritratti, ai matrimoni e alle feste. Quando è iniziata la rivolta, ha recuperato la macchina fotografica e racconta di essersi messo al servizio dei ribelli. Non vuole dire di aver combattuto, ma accetta di farsi scattare un'immagine, perché, dice «non ho paura, la mia faccia è già nell'album dei ricercati dalla polizia di Assad, mi hanno già bruciato casa e negozio, non ho famiglia, non ho più nulla». Per questo è fuggito. Lungo un percorso diverso, ma ugualmente costoso.
In
macchina e a piedi ha raggiunto la frontiera con la Turchia.
Di lì per arrivare a Istanbul ha pagato 2.500 dollari. Quindi un
trafficante l'ha condotto sulla costa e imbarcato con altri cinque
per un'isola greca, dove si è confuso tra i turisti e ha preso un
traghetto per Atene. Altri 2.000 dollari per biglietto aereo e
documenti falsi, tre imbarchi falliti, finché è riuscito a salire
su un charter delle vacanze ed è atterrato ad Orio al Serio,
Bergamo.