martedì 15 ottobre 2013

Intervista a Farid Adly sul saggio ”La rivoluzione libica. Dall'insurrezione di Bengasi alla morte di Gheddafi”



Da poco uscito nelle librerie, nella collana La cultura per le edizioni Il saggiatore, il nuovo saggio di Farid Adly - giornalista, scrittore e direttore dell'agenzia stampa bilingue ANBAMED - dal titolo La rivoluzione libica. Dall'insurrezione di Bengasi alla morte di Gheddafi , a partire dalla rivoluzione libica iniziata il 17 febbraio 2011, pone diversi interrogativi sul futuro di un'intera nazione, anche alla luce dei nuovi fatti accaduti in Libia e del sequestro lampo del premier Zeidan. Com'è scattata l'insurrezione attraverso le manifestazioni di protesta spontanee sull'onda del successo dei movimenti rivoluzionari di Tunisia ed Egitto? Si può parlare d'intervento militare umanitario? Quale validità ha la tesi della cosiddetta "eccezione araba" sull'inconciliabilità fra Islam e democrazia? E la Libia, legata all'Italia da un'infelice storia coloniale, riuscirà a garantire al proprio popolo democrazia, stabilità politica ed equa distribuzione della ricchezza petrolifera? Farid Adly riflette sugli interrogativi posti dalla rivoluzione, analizzando anche il ruolo e il coinvolgimento delle potenze straniere negli affari della famiglia Gheddafi. Prefazione di Guido Olimpio.

Abbiamo intervistato l'autore che ringraziamo moltissimo per averci regalato il suo tempo e questo importante contributo

Perché la rivoluzione libica può essere considerata diversa rispetto a quelle degli altri Paesi?

Tutte le rivoluzioni e le rivolte sono diverse l’una dall’altra. Ciascuna ha le sue peculiarità intrinseche che la differenziano rispetto ad altre. Le caratteristiche di quella libica sono da individuare nel tipo di economia del paese, basata principalmente sull’esportazione delle risorse naturali, petrolio e gas; nella composizione sociale; nella storia coloniale, quella italiana; e nella durata e violenza sanguinaria della dittatura.
La società libica fino agli anni cinquanta del secolo scorso era economicamente povera e le attività principali erano l’agricoltura di sostentamento e la pastorizia. La scoperta e le esportazioni del petrolio hanno introdotto uno squasso nel tessuto sociale, portando la popolazione ad emigrare massicciamente verso le due principali città: Tripoli e Bengasi. La ricchezza petrolifera ha distrutto l’economia produttiva e ha imposto un centralismo amministrativo, favorendo così uno stato sociale basato sull’assistenzialismo.
Un’altra caratteristica della società libica è l’assenza di divisioni confessionali e la prevalenza di un orientamento moderato nell’interpretazione della fede islamica.
Il colonialismo italiano era di popolamento insediativo e di conseguenza non si era mai interessato all’inserimento della popolazione locale nel processo amministrativo. Per dirla in altri termini, non si è formata una borghesia autoctona capace di ereditare le redini dello Stato alla fine del periodo coloniale ; al momento della partenza dei soldati italiani dopo la sconfitta nelle battaglie nordafricane della seconda guerra mondiale, in Libia si è creato un vuoto amministrativo che è stato colmato dal protettorato britannico, durato 8 anni, fino al momento dell’indipendenza. La breve fase della monarchia è stata stroncata da un colpo di Stato militare sfociato poi in una delle più sanguinarie delle dittature arabe, durata 42 anni.
Tutti questi elementi messi insieme hanno impresso alla sollevazione del 17 Febbraio 2011 un aspetto di straordinarietà, perché inaspettata. In un paese dove non si moriva di fame, nessuno pensava all’esistenza di una povertà diffusa ed una disoccupazione di vaste proporzioni. La sopportazione del tallone della repressione sembrava aver distrutto ogni risorsa di resistenza e di ribellione. In Libia, a differenza di Tunisia e Egitto, non c’era uno Stato, ma un potere familiare; non c’era né una Costituzione, né un Parlamento, né tantomeno un esercito. I partiti e i sindacati erano banditi e vietate persino le associazioni. L’opposizione era frammentata e relegata all’estero, quindi ininfluente.
Tutte queste motivazioni, messe insieme, hanno dato alla Rivoluzione libica un percorso diverso. Se nei due paesi confinanti, dove le Primavere arabe sono esplose anche lì in forme inaspettate per gli stessi organizzatori delle manifestazioni, le rivolte sono state pacifiche e si sono concluse con un intervento delle istituzioni dello Stato, per mandare a casa i satrapi al potere da troppo tempo, in Libia la rivolta si è trasformata da subito in una guerra, a causa dell’uso eccessivo della forza da parte del regime.
Paradossalmente la debolezza politica dell’opposizione libica l’ha costretta all’unità ed alla moderazione nella condotta diplomatica, chiedendo da subito la protezione internazionale; la ricchezza petrolifera ha fatto gola alle potenze occidentali, portandole all’intervento da subito per il cambiamento di regime. Due ragioni che hanno portato all’abbattimento in un tempo relativamente breve, 8 mesi, della dittatura, ma che hanno lasciato la loro impronta sulla seconda fase della ricostruzione dello Stato, dove assistiamo ad una difficoltà estrema nel percorso verso una convivenza pacifica basata sul diritto e non sulla vendetta. 
 
Hanno dato vita alla rivolta, soprattutto, i giovani e anche le donne: quali sono le modalità con cui l'hanno messa in atto?

Giovani e donne sono stati gli elementi fondamentali della rivolta libica. Le donne sono state la miccia che ha avviato la prima rudimentale organizzazione della protesta. Mi riferisco ai sit-in delle familiari dei detenuti politici di Abu Selim che rivendicavano “Verità e Giustizia”. Due parole che sono state il grimaldello che ha aperto le prime crepe nella dittatura. Dal 2008, ogni sabato a mezzogiorno, le donne parenti dei detenuti scomparsi dal 1996 chiedevano in silenzio, con sit-in davanti alle sedi istituzionali, di sapere che fine avessero fatto i loro mariti, padri e fratelli; chi li avesse uccisi e chi fossero i mandanti, ma soprattutto rivendicavano un processo per condannare i responsabili. Queste manifestazioni erano organizzate dalle donne, perché erano loro le uniche capaci di portarle a compimento senza l’intervento della polizia. Nella logica tradizionale della società libica, un poliziotto non picchierebbe mai una donna e di conseguenza quelle manifestazioni erano state tollerate dal potere tirannico, che aveva vietato qualsiasi forma di organizzazione ed espressione di pensiero. Sfruttando quella debolezza strutturale del regime, le donne avevano dato il via alla prima organizzazione collettiva che sfidava il potere e reclamava un diritto, rifiutando ogni tipo di compromesso al ribasso e respingendo ogni imposizione di indennizzi monetari.
La partecipazione dei giovani invece è stata spontanea ed originata da due motivazioni: l’influenza delle due esperienze di Tunisia e Egitto, la cosiddetta “caduta del velo della paura”, e la situazione sociale nella quale versavano le nuove generazioni della Libia, fortemente al di sotto delle potenzialità economiche del paese e soprattutto senza nessuna prospettiva. In Libia c’erano 200 mila giovani laureati disoccupati o inoccupati. In un paese che aveva il reddito pro capite più alto di tutta l’Africa, assistere al lusso che caratterizzava la vita dei figli della famiglia regnante e non poter usufruire delle potenzialità di un’economia forte come quella libica, ha indotto nelle giovani generazioni una ribellione che da tempo covava sotto le ceneri. La modalità della partecipazione è stata assolutamente spontanea e nel mio libro ho raccontato alcuni aspetti edificanti dell’esperienza rivoluzionaria libica. Sono state inventate al momento modalità organizzative che la mancata esperienza non garantiva, come per esempio nel settore della comunicazione e dell’informazione. Al Tribunale di Bengasi, è stato creato il Centro Informazione formato da giovani studenti della Facoltà di Comunicazione, guidati dal loro rettore. Hanno rappresentato la voce della rivolta nel mondo. L’altro aspetto interessante è stata la nascita di gruppi musicali, che hanno cantato la rivoluzione e hanno dato linfa all’unità del paese. Alla festa della Liberazione di Tripoli, un milione di cittadini hanno gioito in piazza ascoltando un gruppo musicale libico formato da giovani Amazig, che durante il regime erano stati incarcerati per l’uso della propria lingua. 
 
Quali sono stati gli errori compiuti dalla stampa italiana nel raccontare la rivoluzione libica (e le altre rivoluzioni arabe?)

Non parlerei di errori, perché l’informazione è un processo complesso. I limiti del mondo dell’informazione sulle rivolte arabe della Primavera 2011 sono legate all’inaspettata onda di protesta che ha fatto cadere dittature decennali, evento che nessun analista aveva previsto o inquadrato. Nel mio libro infatti cito l’unica eccezione a questo dato: l’analisi fatta all’inizio del 2010, un anno prima dei moti di rivolta, da parte dell’attuale presidente tunisino, Moncef Marzouki, allora esponente di spicco dell’opposizione all’estro. La mancanza di informazioni giornalistiche e la sorpresa hanno fatto sì che i media si affidassero ad esperti accademici, che molte volte non avevano una valida conoscenza sul campo della realtà di questi paesi, ma soltanto uno preparazione libresco fatta di riletture italianizzate di analisi altrui. Nel caso libico, per esempio, si è parlato spesso di tribalismo della società libica, analisi molto lontana dalla realtà, perché il tribalismo negli ultimi cinquant’anni non ha più rappresentato in Libia un fattore politico o militare, ma soltanto sociale. I media internazionali si sono basati su studi antropologici precoloniali italiani, risalenti alla fine dell’Ottocento e dato eco alla propaganda del regime, che aveva utilizzato il fenomeno sociale per dividere la popolazione libica, sulla base della logica “Divide et impera”. L’altro errore di valutazione credo sia stato quello di considerare la rivolta della masse arabe come un fenomeno telecomandato dall’esterno, da interessi geopolitici delle potenze del mondo industrializzato. Nel caso libico, una certa stampa italiana, per ragioni politiche di parte, ha inseguito il mito del complotto francese ai danni degli interessi italiani; un’interpretazione assolutamente smentita dai fatti, perché gli affari italiani in Libia non sono stati scalfiti dopo la caduta del regime di Gheddafi.

Si può parlare di “democrazia” all'interno di un Paese governato, per decenni, da un dittatore e quanto è importante anche la cultura per veicolare il concetto stesso di “democrazia”?

Io credo che il concetto di Democrazia sia un concetto universale e non esiste un diritto di prelazione dell’Occidente. In ogni stadio dello sviluppo sociale, si sono avuti corrispondenti modi di convivenza civile e delle regole generali di organizzazione della società. Questo vale per ogni realtà e non è una prerogativa di una rispetto ad altre. L’organizzazione sociale dei paesi industrializzati è figlia di questo sviluppo ed ha subito anche nella storia recente dei paesi europei delle derive dittatoriali, come in Italia prima e in Germania poi, con il fascismo e il nazismo. La Democrazia è un processo storico, non si esporta e non si importa, ma si sperimenta. L’organizzazione sociale che ogni comunità si dà nei diversi periodi storici è figlia dell’equilibrio di tanti fattori e non c’è nessuna collettività alla quale si possa precludere la strada dell’armonia dei poteri e della convivenza civile equilibrata e pacifica. In ogni realtà ci sono contraddizioni e nella lotta tra gli interessi diversi, prevalgono gli equilibri corrispondenti alle componenti più forti. Io personalmente sono stato e sono sempre contrario alle interpretazioni eurocentriche, che mettono una sorte di copyright sul processo democratico. Infatti, la teoria dell’eccezione araba, come confuto nel mio libro, è caduta miseramente alla prova delle Primavere arabe. Che questo processo sia difficile e irto di grandi sfide è un’altra questione, si deve dare del tempo alle società arabe affinché ricostruiscano il proprio percorso. Non ci sono limiti culturali alla Democrazia. Chiunque prefiguri una simile ipotesi, ricade di fatto nel campo delle discriminazioni che annuncia di voler combattere. 
 
Dopo la rivoluzione, sono stati compiuti passi avanti nella tutela dei diritti umani? 
 
In Libia, no. La Rivoluzione del 17 Febbraio 2011 ha fatto cadere il velo della paura e ha fatto conquistare il diritto di parola a tutti, ma il consolidamento dei diritti umani e la costruzione di uno Stato di diritto sono ancora lontani dalla pratica quotidiana. La lotta per il potere e la bramosia per la ricchezza facile hanno dato spazio alle vendette, alla corruzione ed al prevalere del “dialogo armato”. La deriva militarista della Rivoluzione libica ha creato le condizioni per la nascita di tanti “Piccoli Gheddafi”, che con il mitra in mano hanno imposto il loro volere alle istituzioni liberamente e democraticamente elette. In Libia ci sono ancora migliaia di prigionieri di guerra che non hanno avuto ancora un processo, non garantendo loro neppure una minima assistenza dello Stato, ma continuano a restare nelle mani di milizie armate incontrollate. Diverse persone sono state sequestrate subito dopo il loro rilascio da parte delle autorità giudiziarie, come avvenne alcune settimane fa con la figlia dell’ex capo dei servizi di sicurezza, Sanussi, che dopo aver scontato la condanna a 8 mesi, per ingresso illegale e possesso di documenti d’identità falsi, è stata rapita a 50 metri dal carcere dove era detenuta. Inoltre nella Libia di oggi circolano molte armi non censite e diversi gruppi che si ispirano al jihadismo estremista, che sconfitti nelle elezioni, hanno imposto il loro potere con la canna del fucile. Se questo processo non si concluderà presto, con l’affermazione dell’esclusiva detenzione della violenza da parte dello Stato, la Libia potrebbe avere una pericolosa deriva imposta da una minoranza violenta contro la maggioranza della popolazione. 
 
Cosa chiede la società civile oggi e qual è il futuro della Libia?

La società civile in Libia non chiede, ma si batte per l’uguaglianza e per l’equità. A Bengasi, per esempio, le milizie armate sono state cacciate a furor di popolo, perché la gente era stufa di vedere scippare la Rivoluzione da un gruppo di barbuti, molti dei quali avevano un passato gheddafiano oppure convertitosi alla causa nell’ultimo quarto d’ora. Per questi motivi io sono ottimista sul futuro della Libia, malgrado la consapevolezza delle difficoltà del momento e dell’inadeguatezza di molti uomini tra quelli che sono stati eletti nelle prime elezioni libere del paese. Io credo che a causa della caratteristica strutturale dell’economia libica, basata prevalentemente sulla produzione ed esportazione del petrolio, si troverà un modus vivendi per un equilibrio dei poteri, altrimenti, l’unica certezza è l’affondamento della nave e la prospettiva del naufragio per tutti. 
 
Cosa rappresentano, per lei, la Libia e l'Italia?

Una domanda sul personale, di fronte alla quale mi trovo in difficoltà. Io sono nato in Libia, a Bengasi, la città ribelle ad ogni potere costituito, e dentro di me vivo questo spirito. Sono arrivato in Italia nel 1966 per compiere gli studi universitari e per amore sono rimasto qui. Ho voluto, però, mantenere la mia cittadinanza d’origine, malgrado le autorità libiche mi abbiano negato per 15 anni il rinnovo del passaporto. Ho figli italiani e in questa mia nuova terra, non mi sono mai considerato uno straniero. Vivo quella che ho chiamato una ventina di anni fa, in un articolo sul supplemento del Manifesto Arancia Blu, “la lacerazione delle doppie diversità”. La condizione di straniero è un particolare stato di cambiamento di vita, non si fa più parte di quella passata e non si entra a pieno titolo in quella nuova. In Italia, non ho mai subito delle discriminazioni ed ho sempre agito da cittadino che rivendica e pratica i propri diritti e doveri, secondo i dettami della Costituzione Italiana, che secondo me è la più bella del mondo, perché figlia della resistenza contro il nazifascismo. Le mie radici però sono in Libia, dall’altra parte del Mediterraneo. Forse inconsciamente, dopo 30 anni di Milano, ho scelto di vivere ad Acquedolci, un piccolo centro siciliano, una media ponderata tra il capoluogo lombardo e la mia città natale, Bengasi.