Da
poco uscito nelle librerie, nella collana La cultura per le edizioni
Il saggiatore, il nuovo saggio di Farid Adly - giornalista, scrittore
e direttore dell'agenzia
stampa bilingue
ANBAMED
-
dal
titolo La
rivoluzione libica. Dall'insurrezione di Bengasi alla morte di
Gheddafi
, a partire dalla rivoluzione libica iniziata il 17 febbraio 2011,
pone diversi interrogativi sul futuro di un'intera nazione, anche
alla luce dei nuovi fatti accaduti in Libia e del sequestro lampo
del premier Zeidan. Com'è scattata l'insurrezione attraverso le
manifestazioni di protesta spontanee sull'onda del successo dei
movimenti rivoluzionari di Tunisia ed Egitto? Si può parlare
d'intervento militare umanitario? Quale validità ha la tesi della
cosiddetta "eccezione araba" sull'inconciliabilità fra
Islam e democrazia? E la Libia, legata all'Italia da un'infelice
storia coloniale, riuscirà a garantire al proprio popolo democrazia,
stabilità politica ed equa distribuzione della ricchezza
petrolifera? Farid Adly riflette sugli interrogativi posti dalla
rivoluzione, analizzando anche il ruolo e il coinvolgimento delle
potenze straniere negli affari della famiglia Gheddafi. Prefazione di
Guido Olimpio.
Abbiamo
intervistato l'autore che ringraziamo moltissimo per averci regalato
il suo tempo e questo importante contributo
Perché
la rivoluzione libica può essere considerata diversa rispetto a
quelle degli altri Paesi?
Tutte
le rivoluzioni e le rivolte sono diverse l’una dall’altra.
Ciascuna ha le sue peculiarità intrinseche che la differenziano
rispetto ad altre. Le caratteristiche di quella libica sono da
individuare nel tipo di economia del paese, basata principalmente
sull’esportazione delle risorse naturali, petrolio e gas; nella
composizione sociale; nella storia coloniale, quella italiana; e
nella durata e violenza sanguinaria della dittatura.
La
società libica fino agli anni cinquanta del secolo scorso era
economicamente povera e le attività principali erano l’agricoltura
di sostentamento e la pastorizia. La scoperta e le esportazioni del
petrolio hanno introdotto uno squasso nel tessuto sociale, portando
la popolazione ad emigrare massicciamente verso le due principali
città: Tripoli e Bengasi. La ricchezza petrolifera ha distrutto
l’economia produttiva e ha imposto un centralismo amministrativo,
favorendo così uno stato sociale basato sull’assistenzialismo.
Un’altra
caratteristica della società libica è l’assenza di divisioni
confessionali e la prevalenza di un orientamento moderato
nell’interpretazione della fede islamica.
Il
colonialismo italiano era di popolamento insediativo e di conseguenza
non si era mai interessato all’inserimento della popolazione locale
nel processo amministrativo. Per dirla in altri termini, non si è
formata una borghesia autoctona capace di ereditare le redini dello
Stato alla fine del periodo coloniale ; al momento della partenza dei
soldati italiani dopo la sconfitta nelle battaglie nordafricane della
seconda guerra mondiale, in Libia si è creato un vuoto
amministrativo che è stato colmato dal protettorato britannico,
durato 8 anni, fino al momento dell’indipendenza. La breve fase
della monarchia è stata stroncata da un colpo di Stato militare
sfociato poi in una delle più sanguinarie delle dittature arabe,
durata 42 anni.
Tutti
questi elementi messi insieme hanno impresso alla sollevazione del 17
Febbraio 2011 un aspetto di straordinarietà, perché inaspettata. In
un paese dove non si moriva di fame, nessuno pensava all’esistenza
di una povertà diffusa ed una disoccupazione di vaste proporzioni.
La sopportazione del tallone della repressione sembrava aver
distrutto ogni risorsa di resistenza e di ribellione. In Libia, a
differenza di Tunisia e Egitto, non c’era uno Stato, ma un potere
familiare; non c’era né una Costituzione, né un Parlamento, né
tantomeno un esercito. I partiti e i sindacati erano banditi e
vietate persino le associazioni. L’opposizione era frammentata e
relegata all’estero, quindi ininfluente.
Tutte
queste motivazioni, messe insieme, hanno dato alla Rivoluzione libica
un percorso diverso. Se nei due paesi confinanti, dove le Primavere
arabe sono esplose anche lì in forme inaspettate per gli stessi
organizzatori delle manifestazioni, le rivolte sono state pacifiche e
si sono concluse con un intervento delle istituzioni dello Stato, per
mandare a casa i satrapi al potere da troppo tempo, in Libia la
rivolta si è trasformata da subito in una guerra, a causa dell’uso
eccessivo della forza da parte del regime.
Paradossalmente
la debolezza politica dell’opposizione libica l’ha costretta
all’unità ed alla moderazione nella condotta diplomatica,
chiedendo da subito la protezione internazionale; la ricchezza
petrolifera ha fatto gola alle potenze occidentali, portandole
all’intervento da subito per il cambiamento di regime. Due ragioni
che hanno portato all’abbattimento in un tempo relativamente breve,
8 mesi, della dittatura, ma che hanno lasciato la loro impronta sulla
seconda fase della ricostruzione dello Stato, dove assistiamo ad una
difficoltà estrema nel percorso verso una convivenza pacifica basata
sul diritto e non sulla vendetta.
Hanno
dato vita alla rivolta, soprattutto, i giovani e anche le donne:
quali sono le modalità con cui l'hanno messa in atto?
Giovani
e donne sono stati gli elementi fondamentali della rivolta libica. Le
donne sono state la miccia che ha avviato la prima rudimentale
organizzazione della protesta. Mi riferisco ai sit-in delle familiari
dei detenuti politici di Abu Selim che rivendicavano “Verità e
Giustizia”. Due parole che sono state il grimaldello che ha aperto
le prime crepe nella dittatura. Dal 2008, ogni sabato a mezzogiorno,
le donne parenti dei detenuti scomparsi dal 1996 chiedevano in
silenzio, con sit-in davanti alle sedi istituzionali, di sapere che
fine avessero fatto i loro mariti, padri e fratelli; chi li avesse
uccisi e chi fossero i mandanti, ma soprattutto rivendicavano un
processo per condannare i responsabili. Queste manifestazioni erano
organizzate dalle donne, perché erano loro le uniche capaci di
portarle a compimento senza l’intervento della polizia. Nella
logica tradizionale della società libica, un poliziotto non
picchierebbe mai una donna e di conseguenza quelle manifestazioni
erano state tollerate dal potere tirannico, che aveva vietato
qualsiasi forma di organizzazione ed espressione di pensiero.
Sfruttando quella debolezza strutturale del regime, le donne avevano
dato il via alla prima organizzazione collettiva che sfidava il
potere e reclamava un diritto, rifiutando ogni tipo di compromesso al
ribasso e respingendo ogni imposizione di indennizzi monetari.
La
partecipazione dei giovani invece è stata spontanea ed originata da
due motivazioni: l’influenza delle due esperienze di Tunisia e
Egitto, la cosiddetta “caduta del velo della paura”, e la
situazione sociale nella quale versavano le nuove generazioni della
Libia, fortemente al di sotto delle potenzialità economiche del
paese e soprattutto senza nessuna prospettiva. In Libia c’erano 200
mila giovani laureati disoccupati o inoccupati. In un paese che aveva
il reddito pro capite più alto di tutta l’Africa, assistere al
lusso che caratterizzava la vita dei figli della famiglia regnante e
non poter usufruire delle potenzialità di un’economia forte come
quella libica, ha indotto nelle giovani generazioni una ribellione
che da tempo covava sotto le ceneri. La modalità della
partecipazione è stata assolutamente spontanea e nel mio libro ho
raccontato alcuni aspetti edificanti dell’esperienza rivoluzionaria
libica. Sono state inventate al momento modalità organizzative che
la mancata esperienza non garantiva, come per esempio nel settore
della comunicazione e dell’informazione. Al Tribunale di Bengasi, è
stato creato il Centro Informazione formato da giovani studenti della
Facoltà di Comunicazione, guidati dal loro rettore. Hanno
rappresentato la voce della rivolta nel mondo. L’altro aspetto
interessante è stata la nascita di gruppi musicali, che hanno
cantato la rivoluzione e hanno dato linfa all’unità del paese.
Alla festa della Liberazione di Tripoli, un milione di cittadini
hanno gioito in piazza ascoltando un gruppo musicale libico formato
da giovani Amazig, che durante il regime erano stati incarcerati per
l’uso della propria lingua.
Quali
sono stati gli errori compiuti dalla stampa italiana nel raccontare
la rivoluzione libica (e le altre rivoluzioni arabe?)
Non
parlerei di errori, perché l’informazione è un processo
complesso. I limiti del mondo dell’informazione sulle rivolte arabe
della Primavera 2011 sono legate all’inaspettata onda di protesta
che ha fatto cadere dittature decennali, evento che nessun analista
aveva previsto o inquadrato. Nel mio libro infatti cito l’unica
eccezione a questo dato: l’analisi fatta all’inizio del 2010, un
anno prima dei moti di rivolta, da parte dell’attuale presidente
tunisino, Moncef Marzouki, allora esponente di spicco
dell’opposizione all’estro. La mancanza di informazioni
giornalistiche e la sorpresa hanno fatto sì che i media si
affidassero ad esperti accademici, che molte volte non avevano una
valida conoscenza sul campo della realtà di questi paesi, ma
soltanto uno preparazione libresco fatta di riletture italianizzate
di analisi altrui. Nel caso libico, per esempio, si è parlato spesso
di tribalismo della società libica, analisi molto lontana dalla
realtà, perché il tribalismo negli ultimi cinquant’anni non ha
più rappresentato in Libia un fattore politico o militare, ma
soltanto sociale. I media internazionali si sono basati su studi
antropologici precoloniali italiani, risalenti alla fine
dell’Ottocento e dato eco alla propaganda del regime, che aveva
utilizzato il fenomeno sociale per dividere la popolazione libica,
sulla base della logica “Divide et impera”. L’altro errore di
valutazione credo sia stato quello di considerare la rivolta della
masse arabe come un fenomeno telecomandato dall’esterno, da
interessi geopolitici delle potenze del mondo industrializzato. Nel
caso libico, una certa stampa italiana, per ragioni politiche di
parte, ha inseguito il mito del complotto francese ai danni degli
interessi italiani; un’interpretazione assolutamente smentita dai
fatti, perché gli affari italiani in Libia non sono stati scalfiti
dopo la caduta del regime di Gheddafi.
Si
può parlare di “democrazia” all'interno di un Paese governato,
per decenni, da un dittatore e quanto è importante anche la cultura
per veicolare il concetto stesso di “democrazia”?
Io
credo che il concetto di Democrazia sia un concetto universale e non
esiste un diritto di prelazione dell’Occidente. In ogni stadio
dello sviluppo sociale, si sono avuti corrispondenti modi di
convivenza civile e delle regole generali di organizzazione della
società. Questo vale per ogni realtà e non è una prerogativa di
una rispetto ad altre. L’organizzazione sociale dei paesi
industrializzati è figlia di questo sviluppo ed ha subito anche
nella storia recente dei paesi europei delle derive dittatoriali,
come in Italia prima e in Germania poi, con il fascismo e il nazismo.
La Democrazia è un processo storico, non si esporta e non si
importa, ma si sperimenta. L’organizzazione sociale che ogni
comunità si dà nei diversi periodi storici è figlia
dell’equilibrio di tanti fattori e non c’è nessuna collettività
alla quale si possa precludere la strada dell’armonia dei poteri e
della convivenza civile equilibrata e pacifica. In ogni realtà ci
sono contraddizioni e nella lotta tra gli interessi diversi,
prevalgono gli equilibri corrispondenti alle componenti più forti.
Io personalmente sono stato e sono sempre contrario alle
interpretazioni eurocentriche, che mettono una sorte di copyright sul
processo democratico. Infatti, la teoria dell’eccezione araba, come
confuto nel mio libro, è caduta miseramente alla prova delle
Primavere arabe. Che questo processo sia difficile e irto di grandi
sfide è un’altra questione, si deve dare del tempo alle società
arabe affinché ricostruiscano il proprio percorso. Non ci sono
limiti culturali alla Democrazia. Chiunque prefiguri una simile
ipotesi, ricade di fatto nel campo delle discriminazioni che annuncia
di voler combattere.
Dopo
la rivoluzione, sono stati compiuti passi avanti nella tutela dei
diritti umani?
In
Libia, no. La Rivoluzione del 17 Febbraio 2011 ha fatto cadere il
velo della paura e ha fatto conquistare il diritto di parola a tutti,
ma il consolidamento dei diritti umani e la costruzione di uno Stato
di diritto sono ancora lontani dalla pratica quotidiana. La lotta per
il potere e la bramosia per la ricchezza facile hanno dato spazio
alle vendette, alla corruzione ed al prevalere del “dialogo
armato”. La deriva militarista della Rivoluzione libica ha creato
le condizioni per la nascita di tanti “Piccoli Gheddafi”, che con
il mitra in mano hanno imposto il loro volere alle istituzioni
liberamente e democraticamente elette. In Libia ci sono ancora
migliaia di prigionieri di guerra che non hanno avuto ancora un
processo, non garantendo loro neppure una minima assistenza dello
Stato, ma continuano a restare nelle mani di milizie armate
incontrollate. Diverse persone sono state sequestrate subito dopo il
loro rilascio da parte delle autorità giudiziarie, come avvenne
alcune settimane fa con la figlia dell’ex capo dei servizi di
sicurezza, Sanussi, che dopo aver scontato la condanna a 8 mesi, per
ingresso illegale e possesso di documenti d’identità falsi, è
stata rapita a 50 metri dal carcere dove era detenuta. Inoltre nella
Libia di oggi circolano molte armi non censite e diversi gruppi che
si ispirano al jihadismo estremista, che sconfitti nelle elezioni,
hanno imposto il loro potere con la canna del fucile. Se questo
processo non si concluderà presto, con l’affermazione
dell’esclusiva detenzione della violenza da parte dello Stato, la
Libia potrebbe avere una pericolosa deriva imposta da una minoranza
violenta contro la maggioranza della popolazione.
Cosa
chiede la società civile oggi e qual è il futuro della Libia?
La
società civile in Libia non chiede, ma si batte per l’uguaglianza
e per l’equità. A Bengasi, per esempio, le milizie armate sono
state cacciate a furor di popolo, perché la gente era stufa di
vedere scippare la Rivoluzione da un gruppo di barbuti, molti dei
quali avevano un passato gheddafiano oppure convertitosi alla causa
nell’ultimo quarto d’ora. Per questi motivi io sono ottimista sul
futuro della Libia, malgrado la consapevolezza delle difficoltà del
momento e dell’inadeguatezza di molti uomini tra quelli che sono
stati eletti nelle prime elezioni libere del paese. Io credo che a
causa della caratteristica strutturale dell’economia libica, basata
prevalentemente sulla produzione ed esportazione del petrolio, si
troverà un modus vivendi per un equilibrio dei poteri, altrimenti,
l’unica certezza è l’affondamento della nave e la prospettiva
del naufragio per tutti.
Cosa
rappresentano, per lei, la Libia e l'Italia?
Una
domanda sul personale, di fronte alla quale mi trovo in difficoltà.
Io sono nato in Libia, a Bengasi, la città ribelle ad ogni potere
costituito, e dentro di me vivo questo spirito. Sono arrivato in
Italia nel 1966 per compiere gli studi universitari e per amore sono
rimasto qui. Ho voluto, però, mantenere la mia cittadinanza
d’origine, malgrado le autorità libiche mi abbiano negato per 15
anni il rinnovo del passaporto. Ho figli italiani e in questa mia
nuova terra, non mi sono mai considerato uno straniero. Vivo quella
che ho chiamato una ventina di anni fa, in un articolo sul
supplemento del Manifesto Arancia
Blu,
“la lacerazione delle doppie diversità”. La condizione di
straniero è un particolare stato di cambiamento di vita, non si fa
più parte di quella passata e non si entra a pieno titolo in quella
nuova. In Italia, non ho mai subito delle discriminazioni ed ho
sempre agito da cittadino che rivendica e pratica i propri diritti e
doveri, secondo i dettami della Costituzione Italiana, che secondo me
è la più bella del mondo, perché figlia della resistenza contro il
nazifascismo. Le mie radici però sono in Libia, dall’altra parte
del Mediterraneo. Forse inconsciamente, dopo 30 anni di Milano, ho
scelto di vivere ad Acquedolci, un piccolo centro siciliano, una
media ponderata tra il capoluogo lombardo e la mia città natale,
Bengasi.