Jean
Pierre, tassista senza licenza, affronta uno stralunato percorso
notturno intorno alla città, che è una e insieme tutte le metropoli
equatoriali: tra casupole e hotel a cinque stelle, dalle luci
invitanti al buio, tra soldati prepotenti come banditi e banditi
armati come soldati. Un’avventura sospesa tra magia animistica e
modernità selvaggia che ci mostra l’altra faccia dell’Africa,
quella dilaniata dai conflitti etnici, dall’illegalità, oppressa
dai figli degeneri del colonialismo.
Il taxi
fantasma non passa dai paradisi artificiali per turisti. Jean Pierre,
questo eroe sognatore maldestro e sfortunato, nel suo girovagare
s'imbatte nei campioni di un'umanità degradata, o in cerca di
riscatto, e nelle mille presenze enigmatiche, seducenti e minacciose
che abitano la notte.
Chi è
stato su quel taxi conosce i mali dell'Africa ma,nonostante tutto,
conserverà per sempre dentro di sé una sottile malinconia.
Abbiamo
intervistato Massimo Bargna che ringraziamo per la sua disponibilità
Massimo Bargna |
Quando e
come è nato questo romanzo?
E’
un fantasma che aspettava di prendere corpo da troppo tempo. In
realtà è sempre stata una mia aspirazione scrivere un’opera
letteraria che fosse, sul modello evangelico, un’avventura
spirituale ed esistenziale sullo sfondo di fatti storici drammatici.
Infatti non mi sono mai ritenuto un fotoreporter prestato alla
letteratura ma l’esatto contrario: l’unica forma di scrittura che
mi interessa realmente e su cui credo di poter dare un apporto
originale è quella del romanzo e della poesia.
Questa
esigenza creativa è diventata un imperativo, anche morale, man mano
che i ricordi e le esperienze accumulati durante quasi trent’anni
di viaggi in Africa hanno reclamato di essere espresse in una forma
più pregnante di quella dei fotoreportage che avevo pubblicato per
alcune riviste nazionali.
Quando
sei testimone di eventi drammatici come quelli a cui ho assistito in
Africa, soprattutto in Africa centrorientale, ti senti scosso in
tutte le tue certezze e ti poni degli interrogativi sulla natura
dell’anima umana che non possono essere risolti (ammesso che ciò
sia possibile) nella forma di un articolo di giornale o di una foto.
Convogliare
tutto ciò che avevo dentro in un romanzo, rielaborare i ricordi
attraverso la narrazione, è stata un modo per esorcizzare i miei
fantasmi, quasi un abbozzo di catarsi personale.
Detto
questo, risulterà forse meno strano il fatto che la stesura di
questo romanzo di media lunghezza abbia richiesto ben tre anni.
Questa
lentezza è stata dovuta in parte al fatto che ero al mio primo
romanzo e dovevo risolvere una serie di problemi stilistici ma
soprattutto alla necessità di cercare di cogliere il senso più
profondo di ciò che avevo vissuto.
A
mio avviso, ogni opera letteraria dovrebbe essere motivata da
un’urgenza interiore: si scrive soltanto quando si ritiene di avere
qualcosa di importante da dire. Altrimenti l’opera non merita di
esistere e scade nel puro intrattenimento.
Qual è
il personaggio a cui è più legato?
Sarebbe
scontato dire il protagonista, cioè il giovane taxista Jean Pierre
che vaga nella notte magica, tenera e violenta di una capitale
africana non meglio identificata incappando in una serie di
situazioni enigmatiche, seducenti e minacciose. E’ una specie di
Don Chisciotte africano. La mia preferenza, però, va forse a un
personaggio secondario: Kurt Weiss, il bianco che incarna non tanto
il colonialismo quanto la visione neo-colonialista o, meglio ancora,
post-colonialista di quegli occidentali che hanno perso il dominio
sull’Africa e sopravvivono ormai come vecchi relitti abbandonati.
E’ un personaggio dalla condotta deprecabile ma anche patetico
nella sua mitizzazione del passato, un passato che forse non è mai
esistito. Odio profondamente Kurt Weiss e tutti quelli come lui ma
non riesco a non provare una certa “tenerezza” per chi sta
annegando fra i flutti e si rifiuta di tendere la mano.
Quali
sono, ancora oggi, i problemi del continente africano?
Negli
anni sessanta, quando le nazioni africane raggiunsero l’indipendenza
affrancandosi dal colonialismo, si visse un periodo di entusiasmo in
cui tutto pareva possibile. La democrazia, la libertà di parola, il
benessere e l’istruzione erano obiettivi a portata di mano. Visto
che la miseria dell’Africa era dovuta ai bianchi, ora che i bianchi
non c’erano più tutti i problemi erano automaticamente risolti.
Purtroppo non è andata così. Da una parte le ex potenze coloniali
hanno mantenuto l’Africa in schiavitù attraverso una strategia di
ingerenza politica ed economica. Dall’altra le nazioni africane
sono state governate da una classe politica locale corrotta che (con
rare eccezioni) è la caricatura di quella del periodo coloniale. Non
solo rubano la ricchezza del paese come facevano i bianchi ma, spesso
e volentieri, rivelano una totale impreparazione a governare, mandano
a pezzi l’economia nazionale e trascinano il popolo in guerre
disastrose la cui unica ragion d’essere è di non far perdere i
propri privilegi al dittatore di turno.
Non
sono un analista della politica africana. Credo però che,
fondamentalmente, il problema sia che gli africani devono smetterla
di dare agli altri la colpa dei propri problemi e prendere in mano il
proprio destino.
Invece
la tendenza è a cercarsi nuovi padroni, nella fattispecie i cinesi
che stanno rimpiazzando i bianchi in tutta l’Africa.
Non
voglio essere pessimista. ll quadro della situazione è a macchia di
leopardo: in alcune aree del continente è stato fatto un passo
avanti sia sul piano economico che dei diritti dell’uomo; in altre,
però, ne sono stati fatti due indietro.
Quali
sono gli stereotipi negativi sugli africani, confermati in
Occidente?
Gli
stereotipi sono sempre gli stessi. Si oscilla tra il buonismo e il
razzismo e in entrambi i casi non si considera lo straniero per
quello che è: una persona. Ovviamente tra buonismo e razzismo, a
fare maggiori danni è il secondo. Mi spiace dirlo ma in Italia,
parlo per esperienza personale, il razzismo esiste eccome. In parte è
dovuto all’ignoranza e a un provincialismo tipicamente italico
dovuto, forse, al fatto che la nostra avventura coloniale in Africa
(diversamente da quella inglese e francese) è stata di breve durata
e non ha lasciato il segno. E di conseguenza l’afflusso di
emigranti africani nel nostro paese è iniziato molto tardi. Ricordo
che molta gente negli anni ottanta non aveva mai visto una persona di
pelle scura tranne che in televisione, un po’ come in certi
villaggi sperduti della foresta africana dove i bambini non hanno mai
visto un bianco. Chi fa un paragone con la Francia e l’Inghilterra,
sostenendo che questi paesi sono molto più accoglienti con gli
stranieri, dovrebbe prendere atto di questa realtà storica.
E
poi ci sono gli idioti. Quelli che non hanno attenuanti perché
rifiutano a priori di conoscere l’altro.
E’ gente che vive nel proprio mondo ristretto, fatto di piccole
abitudini e privilegi e che non sopporta di confrontarsi col nuovo. A
volte hanno ruoli di potere e scelgono al posto nostro ma
appartengono a un passato che, loro malgrado, non potrà più tornare
e quindi il loro controllo della realtà è illusorio. Sono
sorpassati dagli eventi e nemmeno se ne accorgono.
Come si
riesce a conciliare la tradizione con la modernità?
Ciò
che accade in Africa è accaduto da noi durante il brusco passaggio
dalla cultura contadina a quella industriale. In un primo tempo si
rifiuta in blocco la tradizione, la si butta nel porta immondizia, ma
poi, piano piano, si acquisisce un giudizio più equilibrato e si va
alla ricerca delle proprie radici. Il problema è che bisogna
metabolizzare la modernità e ciò richiede un certo tempo. Poi si
sviluppano gli anticorpi e si impara a difendersi. Anche in Africa
questo processo è iniziato. La gente si è accorta che il progresso
inarrestabile della modernità è solo un mito. E riscopre la propria
cultura.
Che cosa
si aspettano le popolazioni africane dai paesi “ricchi” e cosa
noi abbiamo da imparare ?
Noi
dovremmo farla finita con questa continua ansia del “dare” e
cominciare ad apprezzare ciò che possiamo ricevere. Ovviamente non
parlo di cose materiali. L’Africa, nonostante un parziale crollo
della tradizione, è ancora depositaria di un ricco patrimonio di
valori umani. In alcune zone, quelle dove più sono state preservate
le strutture sociali tradizionali, c’è un forte senso dell’unità
famigliare e della solidarietà, il rispetto degli anziani, il valore
della maternità e della vita e il senso del divino. In generale c’è
un’attenzione per i valori più essenziali dell’essere umano e un
amore per la semplicità di vita. Ma come dicevo stiamo parlando di
una cultura africana agricola e di allevatori i cui valori sono stati
indeboliti, talvolta snaturati, dall’urbanizzazione.
Riguardo
agli africani, non so cosa debbano ancora imparare da noi che non
abbiano già imparato, vizi compresi. La rivendicazione dei diritti
umani, in particolare della donna, è ormai abbastanza diffusa in
tutta l’Africa anche se, in questo caso, la tradizione può essere
d’intralcio.
Credo
però che, tornando al tema del razzismo, il cambiamento di mentalità
non debba essere a senso unico. Anche gli africani dovrebbero
superare i propri pregiudizi nei confronti degli occidentali. Questo
è molto più facile per chi è venuto a vivere qui e ha perso la
visione mitizzata dell’Europa che ha la maggior parte degli
africani che vivono nella propria terra.