giovedì 10 ottobre 2013

Un taxi fantasma per l'Africa: il romanzo di Massimo Bargna


Jean Pierre, tassista senza licenza, affronta uno stralunato percorso notturno intorno alla città, che è una e insieme tutte le metropoli equatoriali: tra casupole e hotel a cinque stelle, dalle luci invitanti al buio, tra soldati prepotenti come banditi e banditi armati come soldati. Un’avventura sospesa tra magia animistica e modernità selvaggia che ci mostra l’altra faccia dell’Africa, quella dilaniata dai conflitti etnici, dall’illegalità, oppressa dai figli degeneri del colonialismo.
Il taxi fantasma non passa dai paradisi artificiali per turisti. Jean Pierre, questo eroe sognatore maldestro e sfortunato, nel suo girovagare s'imbatte nei campioni di un'umanità degradata, o in cerca di riscatto, e nelle mille presenze enigmatiche, seducenti e minacciose che abitano la notte.
Chi è stato su quel taxi conosce i mali dell'Africa ma,nonostante tutto, conserverà per sempre dentro di sé una sottile malinconia.




Abbiamo intervistato Massimo Bargna che ringraziamo per la sua disponibilità
Massimo Bargna

Quando e come è nato questo romanzo?

E’ un fantasma che aspettava di prendere corpo da troppo tempo. In realtà è sempre stata una mia aspirazione scrivere un’opera letteraria che fosse, sul modello evangelico, un’avventura spirituale ed esistenziale sullo sfondo di fatti storici drammatici. Infatti non mi sono mai ritenuto un fotoreporter prestato alla letteratura ma l’esatto contrario: l’unica forma di scrittura che mi interessa realmente e su cui credo di poter dare un apporto originale è quella del romanzo e della poesia.
Questa esigenza creativa è diventata un imperativo, anche morale, man mano che i ricordi e le esperienze accumulati durante quasi trent’anni di viaggi in Africa hanno reclamato di essere espresse in una forma più pregnante di quella dei fotoreportage che avevo pubblicato per alcune riviste nazionali.
Quando sei testimone di eventi drammatici come quelli a cui ho assistito in Africa, soprattutto in Africa centrorientale, ti senti scosso in tutte le tue certezze e ti poni degli interrogativi sulla natura dell’anima umana che non possono essere risolti (ammesso che ciò sia possibile) nella forma di un articolo di giornale o di una foto.
Convogliare tutto ciò che avevo dentro in un romanzo, rielaborare i ricordi attraverso la narrazione, è stata un modo per esorcizzare i miei fantasmi, quasi un abbozzo di catarsi personale.
Detto questo, risulterà forse meno strano il fatto che la stesura di questo romanzo di media lunghezza abbia richiesto ben tre anni.
Questa lentezza è stata dovuta in parte al fatto che ero al mio primo romanzo e dovevo risolvere una serie di problemi stilistici ma soprattutto alla necessità di cercare di cogliere il senso più profondo di ciò che avevo vissuto.
A mio avviso, ogni opera letteraria dovrebbe essere motivata da un’urgenza interiore: si scrive soltanto quando si ritiene di avere qualcosa di importante da dire. Altrimenti l’opera non merita di esistere e scade nel puro intrattenimento.


Qual è il personaggio a cui è più legato?

Sarebbe scontato dire il protagonista, cioè il giovane taxista Jean Pierre che vaga nella notte magica, tenera e violenta di una capitale africana non meglio identificata incappando in una serie di situazioni enigmatiche, seducenti e minacciose. E’ una specie di Don Chisciotte africano. La mia preferenza, però, va forse a un personaggio secondario: Kurt Weiss, il bianco che incarna non tanto il colonialismo quanto la visione neo-colonialista o, meglio ancora, post-colonialista di quegli occidentali che hanno perso il dominio sull’Africa e sopravvivono ormai come vecchi relitti abbandonati. E’ un personaggio dalla condotta deprecabile ma anche patetico nella sua mitizzazione del passato, un passato che forse non è mai esistito. Odio profondamente Kurt Weiss e tutti quelli come lui ma non riesco a non provare una certa “tenerezza” per chi sta annegando fra i flutti e si rifiuta di tendere la mano.


Quali sono, ancora oggi, i problemi del continente africano?

Negli anni sessanta, quando le nazioni africane raggiunsero l’indipendenza affrancandosi dal colonialismo, si visse un periodo di entusiasmo in cui tutto pareva possibile. La democrazia, la libertà di parola, il benessere e l’istruzione erano obiettivi a portata di mano. Visto che la miseria dell’Africa era dovuta ai bianchi, ora che i bianchi non c’erano più tutti i problemi erano automaticamente risolti. Purtroppo non è andata così. Da una parte le ex potenze coloniali hanno mantenuto l’Africa in schiavitù attraverso una strategia di ingerenza politica ed economica. Dall’altra le nazioni africane sono state governate da una classe politica locale corrotta che (con rare eccezioni) è la caricatura di quella del periodo coloniale. Non solo rubano la ricchezza del paese come facevano i bianchi ma, spesso e volentieri, rivelano una totale impreparazione a governare, mandano a pezzi l’economia nazionale e trascinano il popolo in guerre disastrose la cui unica ragion d’essere è di non far perdere i propri privilegi al dittatore di turno.
Non sono un analista della politica africana. Credo però che, fondamentalmente, il problema sia che gli africani devono smetterla di dare agli altri la colpa dei propri problemi e prendere in mano il proprio destino.
Invece la tendenza è a cercarsi nuovi padroni, nella fattispecie i cinesi che stanno rimpiazzando i bianchi in tutta l’Africa.
Non voglio essere pessimista. ll quadro della situazione è a macchia di leopardo: in alcune aree del continente è stato fatto un passo avanti sia sul piano economico che dei diritti dell’uomo; in altre, però, ne sono stati fatti due indietro.

Quali sono gli stereotipi negativi sugli africani, confermati in Occidente?

Gli stereotipi sono sempre gli stessi. Si oscilla tra il buonismo e il razzismo e in entrambi i casi non si considera lo straniero per quello che è: una persona. Ovviamente tra buonismo e razzismo, a fare maggiori danni è il secondo. Mi spiace dirlo ma in Italia, parlo per esperienza personale, il razzismo esiste eccome. In parte è dovuto all’ignoranza e a un provincialismo tipicamente italico dovuto, forse, al fatto che la nostra avventura coloniale in Africa (diversamente da quella inglese e francese) è stata di breve durata e non ha lasciato il segno. E di conseguenza l’afflusso di emigranti africani nel nostro paese è iniziato molto tardi. Ricordo che molta gente negli anni ottanta non aveva mai visto una persona di pelle scura tranne che in televisione, un po’ come in certi villaggi sperduti della foresta africana dove i bambini non hanno mai visto un bianco. Chi fa un paragone con la Francia e l’Inghilterra, sostenendo che questi paesi sono molto più accoglienti con gli stranieri, dovrebbe prendere atto di questa realtà storica.
E poi ci sono gli idioti. Quelli che non hanno attenuanti perché rifiutano a priori di conoscere l’altro. E’ gente che vive nel proprio mondo ristretto, fatto di piccole abitudini e privilegi e che non sopporta di confrontarsi col nuovo. A volte hanno ruoli di potere e scelgono al posto nostro ma appartengono a un passato che, loro malgrado, non potrà più tornare e quindi il loro controllo della realtà è illusorio. Sono sorpassati dagli eventi e nemmeno se ne accorgono.

Come si riesce a conciliare la tradizione con la modernità?

Ciò che accade in Africa è accaduto da noi durante il brusco passaggio dalla cultura contadina a quella industriale. In un primo tempo si rifiuta in blocco la tradizione, la si butta nel porta immondizia, ma poi, piano piano, si acquisisce un giudizio più equilibrato e si va alla ricerca delle proprie radici. Il problema è che bisogna metabolizzare la modernità e ciò richiede un certo tempo. Poi si sviluppano gli anticorpi e si impara a difendersi. Anche in Africa questo processo è iniziato. La gente si è accorta che il progresso inarrestabile della modernità è solo un mito. E riscopre la propria cultura.

Che cosa si aspettano le popolazioni africane dai paesi “ricchi” e cosa noi abbiamo da imparare ?

Noi dovremmo farla finita con questa continua ansia del “dare” e cominciare ad apprezzare ciò che possiamo ricevere. Ovviamente non parlo di cose materiali. L’Africa, nonostante un parziale crollo della tradizione, è ancora depositaria di un ricco patrimonio di valori umani. In alcune zone, quelle dove più sono state preservate le strutture sociali tradizionali, c’è un forte senso dell’unità famigliare e della solidarietà, il rispetto degli anziani, il valore della maternità e della vita e il senso del divino. In generale c’è un’attenzione per i valori più essenziali dell’essere umano e un amore per la semplicità di vita. Ma come dicevo stiamo parlando di una cultura africana agricola e di allevatori i cui valori sono stati indeboliti, talvolta snaturati, dall’urbanizzazione.
Riguardo agli africani, non so cosa debbano ancora imparare da noi che non abbiano già imparato, vizi compresi. La rivendicazione dei diritti umani, in particolare della donna, è ormai abbastanza diffusa in tutta l’Africa anche se, in questo caso, la tradizione può essere d’intralcio.
Credo però che, tornando al tema del razzismo, il cambiamento di mentalità non debba essere a senso unico. Anche gli africani dovrebbero superare i propri pregiudizi nei confronti degli occidentali. Questo è molto più facile per chi è venuto a vivere qui e ha perso la visione mitizzata dell’Europa che ha la maggior parte degli africani che vivono nella propria terra.