di Ivana Trevisani
Ringraziamo tantissimo Ivana Trevisani per questo suo contributo.
Ancora
una volta, anche quest'anno, la qualità della filmografia proposta
dal 24° Festival Africano d'Asia e America Latina (che si è svolto
a Milano dal 6 al 12 maggio 2014) ha potuto offrirci il dono di
avvicinamento al vero.
Il
vero della vita che il linguaggio cinematografico, se di qualità,
nella sua libertà di restituzione è in grado di dire più di ogni
analisi, dissertazione, speculazione, oltre ogni dilagante
opinionismo.
I
film proposti, sia nella cifra della fiction che del documentario,
sono riusciti a dar conto del vero del vivere, proponendoci il
quotidiano semplice di persone semplici, che senza eroismi ma
eroicamente riescono a superare difficoltà piccole o grandi, intoppi
o tragedie.
La
quotidianità
è il registro adottato dal siriano Mohamed Malas per restituire il
dramma della guerra fratricida che sta dilaniando il suo Paese. Non è
l' enfasi dell'abituale voyerismo occidentale centrato sul sangue, le
ferite, i corpi morti e gli scheletri dei palazzi bombardati a
renderci il dolore della guerra. A restituircelo è piuttosto ciò
che ogni singola persona vive, palesato con misura, senza facile
retorica dai volti e dalle lacrime dei ragazzi di una casa- cortile.
La casa e il cortile dove si svolge il quotidiano dei dodici ragazzi
e della padrona di casa, a cui l'eco della tragedia che si sta
consumando e della sua progressiva recrudescenza giunge, giorno dopo
giorno, evocata e mai espressa a reportage, dai suoni del fuori,
fragore di bombe ed esplosioni, e dalle parole di chi da fuori
ritorna o chiama al cellulare. Un fuori non lontano, il centro stesso
di Damasco in cui è situata la casa cortile di “Ladder
to Damascus”(“Scala
per Damasco”)
girato
clandestinamente dal regista nel suo Paese.
La
quotidianità tuttavia non sempre e non necessariamente deve essere
segnata dal negativo, anche in situazioni di vita difficili, è il
messaggio affidato dagli autori al collettivo “Stripelife
– Gaza in a Day” (“Stripelife-Gaza
in un giorno”).
La
scelta di mostrare una giornata di vita a Gaza nelle sue
sfaccettature di “normalità”: giochi di ragazzi, lavoro,
relazioni, ha consentito agli autori di aggirare le consuete
restituzioni dell'area in cifra esclusivamente tragica, per dar conto
di una capacità del vivere che permane e riesce a portare una
popolazione e ogni suo singolo, oltre una situazione che pure resta
drammatica, senza lasciarsene sopraffare.
Ma
il quotidiano
torna a farsi duro nella vita dell'interprete di “Om
Amira” (“La
mamma di Amira”),
dell'egiziano
Naji Esmail, l'infaticabile venditrice di patate fritte in una viuzza
del Cairo, nei pressi della più famosa piazza Tahir. La
sopportazione della durezza, della fatica, del rischio di donna sola
nella notte cairota dietro il suo fornello di friggitrice, è resa
possibile solo dal
desiderio
di salvezza della propria figlia. Ogni goccia di sudore, ogni piccolo
guadagno della madre, destinati all'operazione della figlia
cardiopatica, al di là di ogni esito possibile.
La
forza di donna è
messa
al centro anche da Mario Rizzi
nel
suo documentario “Al
intithar” (“L'attesa”),
storia
di ordinaria quotidianità di Eklas, vedova, madre di quattro figli,
confinata nel campo per profughi siriani di Zaatari nel deserto
giordano. Anche qui, mettendosi alle spalle di una vita difficile e
dall'orizzonte chiuso, la protagonista riesce, giorno dopo giorno,
ad affrontare e superare le difficoltà economiche e psicologiche
della condizione di attesa sospesa del campo, per sé e i figli e
mantenendoli in una relazione di reciproco sostegno, per proteggere
il nucleo residuo di una famiglia distrutta.
La
potenza femminile ancestrale è celebrata dal corto “Margelle”
(“Il
bordo del pozzo”)
del
marocchino Omar Mouldoira, dipanata dalla trasmissione del mito alle
relazioni dell'oggi. nella breve ma intensa storia di un comune
triangolo familiare, madre figlio padre. Ma il film, come
dichiarato dallo stesso regista. vuole anche coraggiosamente
proiettare un cono di luce sulla paura, pure ancestrale, che di
tale potenza ha l'uomo arabo.
Anche
i due cortometraggi tunisini “Les
soulières de l'Aid” (“Le
scarpe della festa”) di Anis Lassoued e “Zakaria”,
di Leila Bouzid, ugualmente trattano delle difficoltà, delle
reciproche incomprensioni nei rapporti genitori figli figlie, ad ogni
latitudine, nella Tunisia d'origine come nella Francia dell'approdo
migratorio.
Ma
se per la figlia dell'immigrato “Zakaria”,
il gruppo dei coetanei riesce a condizionarne la libertà di scelta e
allontanarla, senza una motivazione realmente maturata in sé,
dalla famiglia, in un altro
cortometraggio
firmato
da
Carine
May e Hakim Zouhani, “La
virée à Paname” (“Un
giro in centro”) le
difficoltà
nelle relazioni familiari e con i compagni di quartiere, non fermano
il giovane aspirante scrittore. Le pressioni non arrestano il cammino
dell'adolescente che cerca il riscatto all'emarginazione, in una
ricerca di sé che si rivela non corrispondergli, ma che ha voluto
comunque tentare di esplorare.
Ancora
la possibilità di lettura semplice ed immediata della realtà
algerina a cinquant'anni dall'indipendenza si può trovare in “Ouine
Algeria”
(“Dov'è
l'Algeria?”),
documentario
dell'algerino
Lemnaouer Ahmine, e più precisamente negli incontri, qua e là nel
Paese, dell'autore con pochi “esperti” e più persone comuni e
familiari ritrovati. Lo stesso regista nell'incontro con il pubblico
del Festival ha dichiarato come nessun analista politico o
intellettuale sarebbe riuscito a spiegare in un fulmineo lucido
flash, esposto da un familiare intervistato, un Algerino qualsiasi,
la questione “islamismo di stato o secolarismo”, che pare
inquietare più l'occidente che l'Algeria. Un cittadino comune, ma
certo credente e di fervente pratica segnalata dal vistoso “callo
della preghiera” in mezzo alla fronte, che dichiara la convinzione
argomentata della necessaria separazione tra Stato e religione.
Ouandiè
e Sosa, uniche concessioni a figure emblematiche, servono agli
autori di “Une
feuille dans le vent” (“Una
foglia nel vento”)
del
camerunese Jean-Marie Teno e “Mercedes
Sosa, la voz de Latinoamérica” (“Mercedes
Sosa, la voce dell'America Latina”)
dell'argentino
Rodrigo H. Vila, per riaffermare la necessità di mantenere viva la
memoria.
Ernestine, figlia dell'attivista politico camerunese Ernest Ouandiè,
assassinato in circostanze poco chiare e mai conosciuto da
Ernestine, nell'intensa lunga intervista confessione afferma “La
prima morte è quella vera, la seconda è il silenzio”,
alludendo all'oblio calato sulla storia del padre e momenti oscuri
archiviati della storia del Paese.
L'invito
a non dimenticare è pure rinnovato ad ogni passaggio della
biografia di Mercedes Sosa,
non
solo voce, ma presenza forte e significativa nella vita politica
latinoamericana, restituita in un commovente inreccio di vita
pubblica e familiare, a ricordo della storia di Mercedes e di quella
dell'Argentina anche nei giorni più bui della dittatura.
Restare
nel presente senza cancellare il passato e non facendosi soverchiare
dal futuro, è il messaggio del visionario “Bastardo”
del
tunisino Nejib Belkadhi, vincitore del festival. Nessuna antenna GSM,
che forse porta ricchezza economica, può rendere piena la vita,
l'unica antenna che consente il vero ancoraggio a se' è la
consapevolezza piena di dove siamo, da dove veniamo e dove stiamo
andando, sapere chi vogliamo diventare.