Trappola Gaza racconta l’operazione Margine di Protezione, condotta a luglio e agosto scorso dall’esercito israeliano nella Striscia in risposta al rapimento e all’omicidio di tre adolescenti israeliani in Cisgiordania. Il bilancio è di oltre 2100 vittime palestinesi; 66 soldati e 6 civili israeliani. Tra le vittime anche il reporter Simone Camilli e altri 15 giornalisti. In un contesto così complesso e difficile l’informazione si trasforma in un’arma a totale discapito della verità: parte da qui la riflessione di Gabriele Barbati nel suo ebook multimediale intitolato Trappola Gaza – Nel fuoco incrociato tra Israele e Palestina.
Abbiamo rivolto, per voi, alcune domande a Gabriele Barbati che ringraziamo per la sua disponibilità.
Sei
stato testimone di quello che è successo nel giungo 2014: la guerra
tra Hamas e Isralele che ha portato alla morte di più di 2000
persone. Puoi condividere, almeno in parte, la tua testimonianza
sull'accaduto?
Ho
vissuto tre anni tra Palestinesi e Israeliani e seguito due guerre a
Gaza, eppure le tre settimane trascorse nella Striscia la scorsa
estate sono state inaudite. I bombardamenti israeliani hanno raso al
suolo intere urbane, in precedenza abitate da migliaia di persone.
Avevo visto un simile grado di distruzione solo durante i terremoti
terribili che ho raccontato da giornalista in Estremo Oriente. Già
dal principio del conflitto, da Gerusalemme e poi da Gaza città, si
capiva che la guerra del 2014 sarebbe diventata la più sanguinosa di
sempre. Profughi a migliaia, ospedali al collasso, nessun posto dove
rifugiarsi (l’embargo e il blocco navale di Israele e Egitto negano
ogni possibilità alla maggior parte dei palestinesi di lasciare
Gaza). I numeri di morti, feriti, invalidi di luglio e agosto
testimoniano da soli cosa è stato e a sei mesi di distanza, in
mancanza di accordi sulla ricostruzione o sul futuro politico di Gaza
- tra Israele, Hamas e l’Egitto che fa da mediatore - la situazione
è purtroppo peggiorata.
Quali
sono, a tuo parere, gli interrogativi che l'Occidente e i Paesi
dell'area si devono porre a proposito della situazione tra Israele e
Palestina, ma anche in merito alla situazione politica interna alla
Palestina stessa?
Dal
lato israeliano, l’interrogativo rimane quello che il presidente
americano Barack Obama pose durante la visita a Gerusalemme nel 2013:
Israele, che si identifica come stato democratico e ebraico, potrà
rimanere tale nel lungo periodo senza risolvere la questione
palestinese? La risposta finora è stata di chiusura totale: maggiori
controlli e maggiore violenza. L’intervento militare (battezzato
Operazione Margine di Protezione in inglese ma in ebraico,
significativamente, Scogliera Salda) ha superato ogni livello visto
in precedenza, quanto a portata dei bombardamenti e scarsa
considerazione degli obiettivi, che hanno incluso ambulanze, ospedali
e persino scuole delle Nazioni Unite dove si raccoglievano i
profughi. Con l’innalzamento dello scontro, motivato anche da una
maggiore capacità di Hamas di combattere una guerriglia urbana, sono
morti più civili a Gaza, più soldati israeliani (in maggioranza
ventenni di leva) e la paura dentro Israele è esplosa. Quali
assurdità raggiungerà la prossima guerra? E’ possibile fare
peggio dell’ultimo conflitto? O è il caso di fare dei passi
indietro, a cominciare dalla rimozione dell’embargo, che di fatto
ha peggiorato la situazione di Gaza senza portare maggiore sicurezza?
Gli
Stati uniti e l’Unione Europea dovrebbero trovare essi stessi una
risposta a questa domanda, soprattutto quando decidono i primi di
sostenere il governo di Israele e la seconda soltanto di ammonirlo
con dichiarazioni di circostanza.
Le
domande esistenziali non risparmiano naturalmente i palestinesi: non
è arrivato il tempo di capire che la disperazione, per quanto
comprensibile, se tramutata in violenza e resistenza armata da parte
di Hamas e Jihad Islamica, non porta da nessuna parte? Quante persone
in più sono morte a causa delle ritorsioni ai razzi lanciati dalla
Striscia? Quelle che Hamas chiama “vittorie” – tenere in scacco
la popolazione e l’esercito di Israele con razzi e combattenti –
hanno accresciuto benefici e benessere per la popolazione di Gaza?
Molti a Gerusalemme dicono che sarebbe anche il caso di sciogliere
l’Autorità Nazionale Palestinese, il para-governo istituto dagli
Accordi di Oslo e oggi guidato da Mahmoud Abbas, presidente eletto
che scansa da diversi anni nuove elezioni, rinviandole. Quell’enorme
macchina burocratica ingoia aiuti finanziari e agisce
involontariamente da filtro alle colpe dell’occupazione Israeliana
della Cisgiordania, di Gerusalemme Est e indirettamente di Gaza,
senza neanche riuscire fino in fondo a richiamare Israele alle
proprie responsabilità nelle sedi internazionali.
Lo
scorso 19 febbraio 2015 è stato richiesto il riconoscimento dello
Stato di Palestina...
L’Italia
si appresta a votare una mozione parlamentare per indicare al governo
di riconoscere lo stato Palestinese. Lo hanno fatto altri parlamenti
europei l’anno scorso, e quello dell’Unione Europea, per quanto
esclusivamente in linea di principio e condizionando il
riconoscimento alla riapertura di negoziati bilaterali tra Israeliani
e Palestinesi. La pressione internazionale – dalle iniziative
nazionali a quelle in ambito ONU – è probabilmente l’unica
maniera di smuovere chi ha il coltello dalla parte del manico in
questo conflitto e anche la maggiore responsabilità morale di una
soluzione, ossia Israele. La serie di votazioni in Francia, Irlanda,
Spagna dello scorso autunno andava in questa direzione, ma certo un
voto in Italia così in ritardo suona solo come uno scarico di
coscienza (al pari dei soldi spesi annualmente per progetti di
cooperazione in Palestina di scarsa efficacia nel lungo periodo).
Valuti l’Europa piuttosto di intaccare davvero l’invulnerabilità
israeliana: la decisione di non includere più nei programmi e nei
fondi europei soggetti ed entità residenti negli insediamenti è
stata un passo importante. Si mantenga la coerenza anche nel resto
dei rapporti bilaterali e diplomatici con Israele e con l’Autorità
nazionale Palestinese, a cui andrebbero richiesti trasparenza e
risultati.
Come
hanno vissuto, quei giorni, i giornalisti stanziati a
Gerusalemme?Quali sono le notizie che la stampa, italiana e
occidentale, non fornisce ?
I
corrispondenti di base a Gerusalemme, e i tanti giornalisti accorsi
da tutto il mondo, hanno affrontato l’ennesimo rigurgito di
violenza israelo-palestinese seguendo il vecchio canovaccio di questo
conflitto ormai secolare. Molti sono rimasti a Gerusalemme, o si sono
spostati al sud, raccontando il lato israeliano. Altri, qualche
centinaio, sono entrati a Gaza per raccontare quanto accadeva nella
Striscia, ognuno valutando a modo proprio e attentamente i pericoli
di una guerra che stavolta non ci ha risparmiato. I bombardamenti
sono stati quotidiani, cosi come gli attacchi da parte dei
combattenti di Hamas attraverso i tunnel, convincendo alcuni a
inviare le proprie corrispondenze dagli hotel, altri dalle strade di
Gaza accettando i rischi, altri ancora dalle zone di confine con
Israele dove si combatteva corpo a corpo e piovevano i missili. Di
questo conflitto non siamo stati osservatori, come nel novembre del
2012, ma parte coinvolta e diversi di noi sono morti.
La
mia sensazione del tutto personale è che quest’ultimo conflitto
abbia estremizzato l’approccio ideologico con cui la stampa
internazionale da tempo affronta il conflitto tra Israeliani e
Palestinesi. A questo tema ho dedicato due capitoli del mio libro
(Trappola Gaza. Nel fuoco incrociato tra Israele e Palestina
http://inform-ant.com/it/ebook/trappola-gaza.-nel-fuoco-incrociato-tra-israele-e-palestina
) perché
ne sono rimasto scioccato, umanamente e professionalmente. Molti
colleghi hanno preferito raccontare esclusivamente la distruzione e
il dramma umano della guerra, una prassi consolidata in diversi
conflitti. Altri hanno provato col passare del tempo a indagare anche
le responsabilità di questa guerra, cercando di documentare i
possibili crimini commessi dall’esercito Israeliano e dall’ala
militare di Hamas, le Brigate Qassam. Sono entrambe scelte eticamente
accettabili, contrariamente a quelle fatte da molti altri. Quanti
hanno messo una causa, un’ideologia, un’identità – o come si
voglia chiamarla, sia pro-Israele sia pro-Palestina – davanti alla
propria professionalità, trasformandosi in avvocati, difensori, o
strilloni di una propaganda di parte. E’ successo alla maggior
parte dei media israeliani e palestinesi, a buona parte di quelli
americani, a un certo numero di quelli europei. Qualche collega lo ha
fatto coscientemente, qualche altro cedendo alle pressioni costanti e
continue di personalità e organizzazioni filo-Israeliane nel mondo o
alle intimidazioni dentro Gaza di uomini della sicurezza di Hamas.
Sta di fatto che al pubblico alla fine è arrivato il solito pasto
precotto: quello preparato dalla comunicazione israeliana e quello
offerto anche stavolta dal mondo filo-palestinese. La stessa
narrativa di sempre, una coperta corta tirata da un lato o
dall’altro, un carnaio in cui anche i pezzi di verità comparsi su
Twitter o Facebook sono stati affogati da attivisti on line di segno
opposto. Come sempre, la grande confusione sui media tradizionali e
social – a causa del cattivo giornalismo o seminata di proposito
dalle parti in causa – ha costretto tanti che nutrivano una
curiosità genuina o un interesse “laico” a sapere delle vicende
di Gaza e di Israele a brancolare in un’incolpevole ignoranza.