Due
voci, due donne: una italiana e l'altra moldava. Due destini
apparentemente diversi. Ma potrebbe essere la voce della stessa
donna, che esprime le propsie emozioni, che racconta le proprie
esperienze. Sentimenti universali si fanno poesia in forma di
romanzo, per riflettere sulle difficoltà di chi è csotretto a
lasciare il Paese d'origine e gli affetti e il dolore di chi è
ammalato nell'anima. La solitudine, la compassione; il vuoto, la
rinascita. Insieme. Questo e molto altro nel romanzo intitolato
Sottobosco,
di Simona Castiglione, edito da Ratio e Revelatio.
Abbiamo
rivolto alcune domande all'autrice che ringraziamo molto.
Antonella
e Vasiliţa sono due donne, una italiana e l'altra moldava: quali
sono i tratti comuni in quanto donne e persone con destini diversi?
Sottobosco
è un romanzo caratterizzato da una forte tensione verso
l’abbattimento di stereotipi e pregiudizi. Uno fra tutti: le
differenze culturali, religiose, censitarie renderebbero impossibile
lo sviluppo di rapporti umani profondi e duraturi. Antonella e Vassi,
in questo, sono esemplari: coltivano reciproche diffidenze, hanno
lunghi periodi di distacco, anche emotivo, l’una dall’altra,
hanno storie personali e facciate culturali diversissime, tuttavia
non possono fare a meno di riconoscersi l’una nell’altra, di
rispecchiarsi direi – in quanto madri sofferenti, in quanto donne
con storie d’amore tormentate, ma soprattutto in quanto donne, di
fatto, sole al mondo – accedendo a una dimensione parallela che
tutti gli esseri umani occasionalmente frequentano: quella
dell’empatia, della condivisione e dell’intimità vera a
prescindere da ogni sovrastruttura. La loro amicizia è quasi un
matrimonio, nella misura in cui “è per sempre”. Il messaggio di
fondo è che tutti noi dovremmo frequentare più spesso questa
dimensione alternativa, perché è estremamente arricchente e dà
senso all’esistere.
Quali
sono i motivi che l'hanno indotta a scrivere questa storia?
Motivi
molto personali, che però mi piace condividere: qualche anno fa ho
dato alla luce il mio secondo figlio e ho avuto la necessità di
tornare al lavoro dopo soli tre mesi dalla sua nascita. Mi occorreva
una tata e ho trovato una ragazza moldava che, inutile negarlo,
assomiglia tantissimo alla Vassiliţa del romanzo. Anche io, come
Antonella, ho provato inizialmente a trattarla come una “donna di
servizio”, così, per non complicarmi la vita: non è stato
assolutamente possibile! L’empatia ha preso il sopravvento. Dopo
pochi mesi discorrevamo di tutto, infischiandocene bellamente di ogni
barriera linguistica e culturale, ed eravamo in un rapporto di
intimità e fiducia che raramente ho sperimentato con altre persone.
Anche lei, però, è stata costretta a ritornare in patria. Siamo
rimaste in contatto e spero con tutto il cuore di poterla
riabbracciare, quest’estate, in occasione del tour promozionale per
la traduzione romena di Sottobosco, che mi porterà anche in
Moldavia.
Quanto è
importante imparare a mettersi “nei panni dell'altro”?
È
tutto. Per uno scrittore è la principale fonte d’ispirazione, ma
anche per chi non scrive, sviluppare la capacità di sentire l’altro
significa poter vivere molte altre vite, oltre alla nostra singola
esistenza; fare a meno dei luoghi comuni, che sono comodi e pratici
per incasellare il mondo e le persone, ma che falsano la realtà
proponendocela “preconfezionata”; aprire la mente, elevare lo
spirito e allenare il cuore che, essendo un muscolo, ne ha bisogno.
In poche parole: crescere come individuo e come membro di una
collettività.
Uno dei
temi principali riguarda il fallimento di un'esperienza di
migrazione...
È
proprio così: il libro nasce da una serie di domande che io mi sono
posta in forma speculativa, ma alla quale ho voluto dare risposta
attraverso un’accurata indagine in loco. “Cosa accade quando un
tentativo di migrazione fallisce? Cosa succede alla persona che
sperimenta tale “fallimento” e alla sua famiglia? Come reagisce
la comunità che la riaccoglie?”. Per rispondere, ho viaggiato a
lungo in Moldavia, sulle tracce di storie non felici di emigrazione,
e ho scoperto un’enorme quantità di dolore nascosto che urlava per
venire allo scoperto. Ho voluto che il mio romanzo fosse uno spazio
in cui dare voce a questo dolore, ho pensato che tutti noi, che
abbiamo badanti, baby sitter e donne delle pulizie straniere,
dovessimo contattarlo questo dolore, perché ci appartiene e non
volerlo vedere sarebbe falsa coscienza. Mi piace citare, a questo
punto, la mia amica moldava Lilia Bicec, che ha pubblicato per
Einaudi un’opera epistolare di toccante bellezza, Miei cari figli
vi scrivo, dove mette in luce, senza mai scadere nel patetico, la
sofferenza dell’emigrante perfino quando ha successo, come nel suo
caso. Noi italiani dovremmo ricordarcela bene, questa sofferenza,
perché ci è appartenuta a lungo storicamente. Il problema, e qui
parlo da docente e non da scrittrice, è che le nuove generazioni
sono state educate dalla temperie culturale dominante all’oblio
della storia, perché porre gli eventi in una prospettiva
storicizzata apre squarci di consapevolezza che non sono desiderabili
per chi vuole formare eserciti di mediadipendenti manipolabili.
La
scrittura del testo presenta alcune simmetrie, quali ad esempio,
quella tra le protagoniste, ma anche tra i due Paesi. Quali sono le
sue considerazioni a riguardo?
Ci siamo illusi a lungo, noi
“occidentali”, di vivere in una situazione di benessere
inestinguibile. La recente crisi ci ha smentito in pieno. Il
benessere ha abbandonato molti di noi, la disoccupazione galoppa, il
futuro non promette nulla di buono. E c’è chi lascia l’Italia
per cercare fortuna altrove, è già in atto un piccolo fenomeno
migratorio che ci riguarda. La Moldavia, con la sua povertà, la sua
mancanza di risorse, la sua fragilità, non ci sembra più così
lontana come pochi anni fa. Siamo regrediti e abbiamo paura, gli
“stranieri” ci appaiono ora più forti, capaci di lavorare più a
lungo e meglio, in grado di rifarsi una vita in un Paese spesso
ostile, e perfino di condurre un’esistenza di qualità: molti
immigrati ibridi prendono la laurea e spesso hanno ottimi risultati
nello studio e nel lavoro. Non c’è una ricetta per superare la
paura e l’ansia di questo periodo critico, ma il consiglio che mi
sento di dare è questo: accogliere, sostenere, empatizzare invece di
rifiutare, ostacolare, disconoscere.