di
Stefano Liberti (da internazionale.it)
L’idea di istituire in alcuni
paesi africani dei campi dove esaminare le richieste d’asilo verso
l’Unione europea è sempre più dibattuta a Bruxelles e nelle
varie capitali. Lanciata dal governo italiano durante il suo
semestre di presidenza nel 2014 con il nome di “processo di
Khartoum”, la proposta ha raccolto l’adesione del ministro
dell’interno tedesco Thomas de Maizière e dei governi francese e
austriaco. In linea teorica, tale idea avrebbe alcuni risvolti
positivi: come ha sottolineato Luigi Manconi, presidente della
commissione diritti umani del senato, che ne è un sostenitore, essa
“permetterebbe di evitare l’attraversamento illegale del
Mediterraneo, con i rischi che comporta, e distribuire i richiedenti
asilo in Europa secondo quote equilibrate di accoglienza”. Ma
siamo sicuri che questo sia l’obiettivo principale di chi l’ha
lanciata? E, soprattutto, siamo sicuri che sia praticabile?
Basta guardare al precedente più vicino alla proposta italiana, nel tempo e nella sostanza, per avanzare qualche perplessità: nel 2011, quando scoppiò la guerra in Libia, migliaia di profughi fuggirono in Tunisia, dove fu allestito il campo di Choucha, a poca distanza dalla frontiera libica. Questo campo era un esempio ante litteram di quelli che oggi si discutono a livello europeo: le domande dei richiedenti asilo erano esaminate alla presenza dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni. E chi aveva diritto alla protezione otteneva un via libera per il “reinsediamento” in paesi terzi. Nella vicina Europa? Non proprio. Delle 3.167 persone alle quali era stato riconosciuto il diritto di asilo, circa 2.600 sono state accettate dagli Stati Uniti, e solo qualche decina da Svezia, Norvegia e Germania (unici stati europei a dare il proprio assenso).
L’Italia, che aveva ricevuto la richiesta di cinque casi di ricongiungimento familiare (cioè di profughi con famiglia nel nostro paese), ha impiegato più di un anno a rilasciare i visti necessari – che pure, secondo le nostre leggi e le convenzioni internazionali, spettavano di diritto ai richiedenti. I numeri poi ci dicono anche altro: a Choucha, dopo lo scoppio della guerra, vivevano 18mila persone. Che fine hanno fatto? Molte di loro, stanche di aspettare che la loro richiesta fosse esaminata, sono rientrate in Libia e hanno preso un barcone per l’Italia.
Cosa fa pensare che, una volta realizzati, questi campi non diventeranno parcheggi a tempo indeterminato come fu Choucha? E perché, se si vuole evitare l’attraversamento del mare, non prevedere da subito la possibilità di chiedere asilo presso le ambasciate nei paesi di transito piuttosto che in megacampi allestiti ad hoc? Tutto lascia presagire che il processo di Khartoum non sia tanto un modo per bloccare il business del trasporto clandestino e distribuire più equamente i rifugiati tra i vari stati membri, ma piuttosto uno stratagemma per delegare ancora una volta la gestione dei flussi migratori a paesi terzi che hanno delle dubbie credenziali democratiche.
Basta guardare al precedente più vicino alla proposta italiana, nel tempo e nella sostanza, per avanzare qualche perplessità: nel 2011, quando scoppiò la guerra in Libia, migliaia di profughi fuggirono in Tunisia, dove fu allestito il campo di Choucha, a poca distanza dalla frontiera libica. Questo campo era un esempio ante litteram di quelli che oggi si discutono a livello europeo: le domande dei richiedenti asilo erano esaminate alla presenza dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni. E chi aveva diritto alla protezione otteneva un via libera per il “reinsediamento” in paesi terzi. Nella vicina Europa? Non proprio. Delle 3.167 persone alle quali era stato riconosciuto il diritto di asilo, circa 2.600 sono state accettate dagli Stati Uniti, e solo qualche decina da Svezia, Norvegia e Germania (unici stati europei a dare il proprio assenso).
L’Italia, che aveva ricevuto la richiesta di cinque casi di ricongiungimento familiare (cioè di profughi con famiglia nel nostro paese), ha impiegato più di un anno a rilasciare i visti necessari – che pure, secondo le nostre leggi e le convenzioni internazionali, spettavano di diritto ai richiedenti. I numeri poi ci dicono anche altro: a Choucha, dopo lo scoppio della guerra, vivevano 18mila persone. Che fine hanno fatto? Molte di loro, stanche di aspettare che la loro richiesta fosse esaminata, sono rientrate in Libia e hanno preso un barcone per l’Italia.
Cosa fa pensare che, una volta realizzati, questi campi non diventeranno parcheggi a tempo indeterminato come fu Choucha? E perché, se si vuole evitare l’attraversamento del mare, non prevedere da subito la possibilità di chiedere asilo presso le ambasciate nei paesi di transito piuttosto che in megacampi allestiti ad hoc? Tutto lascia presagire che il processo di Khartoum non sia tanto un modo per bloccare il business del trasporto clandestino e distribuire più equamente i rifugiati tra i vari stati membri, ma piuttosto uno stratagemma per delegare ancora una volta la gestione dei flussi migratori a paesi terzi che hanno delle dubbie credenziali democratiche.