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venerdì 4 settembre 2015

Prigionieri della violenza




Se percepiamo molta violenza, più che nel passato, è perché alla nostra sensibilità, resa acuta dalla storia, si aggiunge l’effetto prodotto dalla risonanza mediatica.


di Donatella Di Cesare (da La lettura – Corriere della Sera)




Il mondo è pieno di violenza. Subdola, strisciante, imprevedibile, ci attende in agguato a ogni angolo, ci coglie di sorpresa a ogni istante. La violenza è il sottofondo della nostra vita quotidiana, il basso insistente e perturbante, il ritmo stonato e importuno, la cadenza stridente e sconcertante. La violenza è all’ordine del giorno. Non c’è forse parola che abbia un rilievo analogo nel vocabolario dell’attualità. Ma è davvero un fenomeno così esteso? Oppure parliamo di violenza in un senso troppo ampio e impreciso? Certo è che il dilagare della violenza sembra lo spettacolo che si ripete sotto gli occhi di tutti.
Eppure le statistiche dicono che le cose non starebbero così. Nel complesso le cifre dell’atto violento per eccellenza, l’omicidio, sono in calo sia nel nostro Paese, sia in generale in tutti i continenti, anche se, in base a un recente rapporto dell’Onu, restano differenze considerevoli tra Sud e Nord del globo.
Se dovessimo prestar fede alle cifre, potremmo quindi trarre un respiro di sollievo. Il Novecento, inaugurato da grandi speranze e finito nella più buia disperazione, segnato dalla mattanza delle guerre mondiali, dalla brutalità delle dittature, dalle fabbriche dello sterminio, è deflagrato in una esplosione di violenza senza precedenti. Dopo il secolo breve e crudele, ci siamo ripromessi: «Mai più!». Questo «mai più!» impronta il nostro atteggiamento verso ogni forma di violenza, ci rende guardinghi e vigilanti. Ci rende, soprattutto, estremamente sensibili.
Forse mai come oggi la violenza è stata condannata moralmente, stigmatizzata politicamente, sanzionata giuridicamente. Per noi rappresenta la sconfitta dell’etica, l’attentato alla convivenza civile, la ferita alla dignità umana. Ne siamo consapevoli. Non vogliamo dimenticarlo. E non esitiamo perciò a spingere lo sguardo fin dentro quei territori dove — come ci ha insegnato Walter Benjamin — il diritto mostra la sua ambigua vicinanza alla violenza.
Perché ci sembra allora che la violenza aumenti in modo preoccupante? E perché captiamo ovunque indizi gravi e inequivocabili di una recrudescenza che ci tiene con il fiato sospeso? L’oscena esibizione di una testa mozzata, i corpi sulla spiaggia dei turisti inermi, il cadavere di un bambino che galleggia nelle acque del Mediterraneo, il corpo di una donna ferita a morte — quante visioni potremmo ancora richiamare alla memoria? Quante inquietano le nostre notti e allarmano i nostri giorni?
La violenza è lo spettacolo, drammatico e disumanizzante, a cui assistiamo in quella seconda vita che quotidianamente viviamo nei media, travolti dal flusso ininterrotto delle informazioni, sopraffatti dal vortice delle immagini. Ci sentiamo spettatori impotenti, paradossalmente ridotti alla passività, proprio mentre il mondo segue il corso opposto a quello che ci eravamo figurati.
Se percepiamo molta violenza, più che nel passato, è perché alla nostra sensibilità, resa acuta dalla storia, si aggiunge l’effetto prodotto dalla risonanza mediatica. Lo spettacolo della violenza, non di rado esibita con disinvoltura, anche nella spietata incontrollabilità della diretta, è parte integrante della nostra esistenza. Virtuale e reale si confondono e, anzi, il virtuale finisce per avere un effetto più perturbante del reale stesso. Sui rischi di un uso spregiudicato delle foto che, nella loro presunta immediatezza, «nascondono più di quel che svelino», ha avvertito Susan Sontag.
Lo spettacolo della violenza ha il suo contrappeso nella violenza spettacolarizzata. Si fa labile il confine tra i fatti di cronaca e la trama del film dove l’eroico detective rischia la vita per la sicurezza di tutti. Serie tv, fiction, videogiochi mettono in scena un mondo suddiviso fra criminali e custodi dell’ordine, fra assassini e astuti investigatori. Ma ansia, timore, preoccupazione, svaniscono d’incanto nello scontato happy end, in una preannunciata vittoria del bene sul male.
Questa visione del mondo, dove la violenza viene ogni volta sconfitta, diventa un modello fuorviante. Ci aspettiamo che la realtà abbia lo stesso esito della finzione. Dato che non è così, siamo frustrati, quasi risentiti. E anche questo, certo, aumenta il grado di violenza percepita. È il caso allora di chiedersi se si tratta solo di una percezione. Forse quella nostra frequente esclamazione «che violenza!» non è casuale. La violenza è sulla bocca di tutti, perché non ha mai smesso di percorrere sotterraneamente la storia. E ora riemerge tra le crepe, assumendo le forme più diverse, subdole o sfrontate, sottili o prepotenti. Malgrado le statistiche rassicuranti, la riconosciamo subito, anche se non avremmo voluto vederla più. Né avremmo voluto che fosse ancora la protagonista di pagine di storia e di cronaca. Per questo quasi ci vergogniamo. E la nostra cattiva coscienza vorrebbe indurci a negarla.
Ma perché la violenza nelle sue forme attuali ci sconvolge, ci irrita, ci imbarazza? E soprattutto: che cos’è la violenza? Perché è ben riconoscibile, ma si lascia afferrare con difficoltà?
La violenza non è un oggetto né una sostanza; ma non è neppure una qualità. Nessun essere umano è, come tale, violento. Ad essere violenti sono un atto, un gesto, una parola. La violenza alberga nella relazione, esplode nei rapporti tra gli individui, resta nascosta nei legami sociali, intacca perciò la convivenza.
Per Aristotele la violenza è un movimento contro natura. Questa spiegazione ci soddisfa solo in parte. E per noi, che veniamo dopo la modernità, la violenza appare piuttosto relegata in quello stato di natura che la cultura dovrebbe aver elevato e nobilitato per sempre. In breve, per noi la violenza è opposta alla cultura. Quanto più la cultura prevale, tanto più la violenza dovrebbe essere tacitata. Ma la storia ci fa riflettere e la cronaca, nazionale e internazionale, ci smentisce.
Sarebbe comodo identificare la violenza con la barbarie, vederla come una caduta nello stadio primitivo e selvaggio, che l’umanità si è da tempo lasciata alle spalle, o magari relegarla ai confini della ragione, demonizzarla o tacciarla di follia. La violenza accompagna la storia nelle sue fasi alterne e assume forme diverse, perché è guidata dall’immaginazione e dall’inventiva. Soltanto gli esseri umani hanno escogitato la tortura, la pena di morte, i massacri.
Quasi impercettibile, la violenza attuale risponde ai comandi della tecnica; è soft, corre rapida lungo i flussi dei dispositivi elettronici e telematici, per condensarsi in quella sorta di esperanto visivo costituito dalle immagini digitali. La nostra è l’epoca delle immagini violente e della violenza delle immagini.
Eppure si può mettere da parte l’iPad, spegnere la tv. Quelle immagini crudeli e atroci di una strage, di un attentato, di una guerra, sono insieme vicine e lontane. Potremmo allontanarcene, come avviene al termine di un film. Ma ecco la novità di oggi: la violenza passa dalla virtualità alla realtà, il suo spettro ci insegue al di là dello spettacolo. Brutalmente siamo stati strappati al nostro abituale ruolo di spettatori per entrare d’improvviso nella scena concreta dell’aggressione, e per giunta come vittime inermi della violenza.
Siamo disorientati, turbati, increduli, delusi. Scopriamo di essere vulnerabili. E questa estrema, irrimediabile vulnerabilità, aumenta via via che viene meno il miraggio di un ordine del mondo. La violenza ci investe, scalfisce, offende, incrina la nostra vita. È stata Judith Butler, dopo l’11 Settembre, a parlare di «vite precarie». Ed è interessante che negli ultimi anni soprattutto le filosofe — da Butler ad Adriana Cavarero — si siano soffermate su questo tema. La precarietà della nostra vita ci fa avvertire un incremento della violenza. Ne scorgiamo ovunque l’incombere, ne constatiamo il dilagare. Ed è qui che il terrorismo porta la sua sfida. Il video di una decapitazione non è solo la cruda violenza contro l’altro; è anche un messaggio. Il «risentimento fondamentalista» — come lo ha definito Slavoj Žižek — fa del jihadista dell’Isis non un barbaro, bensì un postmoderno. Se brandisce una testa mozzata come un trofeo, se giunge a farsi beffardamente un selfie , a scattarsi un autoritratto celebrativo, è per dirci che il progresso non ha eliminato la violenza, che la razionalizzazione tecnica non è in grado di proteggere davvero nessuna vita.
La violenza temuta ci rende più sensibili a quella subita, in una pericolosa escalation. Tanto più che l’accelerazione del nostro tempo, questa vertigine dell’illimitato, che ci dà straordinari poteri, ci rende insofferenti al limite. Non sopportiamo alcun ostacolo, non tolleriamo alcun impedimento. Reagiamo immediatamente. Come già aveva osservato Hannah Arendt, non ci fermiamo a riflettere sui fini e le ripercussioni del nostro agire. L’altro è solo il nostro limite. Di qui le stragi familiari, gli infanticidi, gli stupri. Per un nonnulla il vicino insospettabile può diventare un assassino, lo studente modello può compiere una strage. La disponibilità delle armi fa sì che la furia estatica dell’io possa facilmente tradursi nell’annientamento dell’altro. Rabbia, rancore, rivalsa, disperazione, esibizionismo, indifferenza, persino noia o assuefazione, innumerevoli sono i motivi della violenza — nessuno può spiegarla.
L’intelligenza tecnica ha aumentato a dismisura i mezzi della distruttività inaugurando nuove forme di aggressione. E, d’altra parte, la violenza meno eclatante, più invisibile, della miseria, della fame, dell’immigrazione, delle catastrofi ecologiche, resta il portato della globalizzazione. Più l’intensità della violenza ci sconvolge, più siamo chiamati a riflettere, a partire dalla vulnerabilità che ci accomuna.

mercoledì 27 maggio 2015

La vita non facile dei diritti riscoperti dalle sentenze



di Luigi Ferrarella (da “Corriere della sera” 15 maggio 2015)





Quanti diritti ci possiamo permettere?


Quanti diritti ci possiamo permettere? Quale dose di giustizia può tollerare il nostro assetto sociale ed economico? Fino a pochi anni fa una domanda simile sarebbe suonata bestemmia. Ora, invece, viene implicitamente declinata ogni volta che dalle Corti (Corte costituzionale, Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, Corte di cassazione) arriva una sentenza all’incrocio di un dilemma: adesso tra rivalutazione delle pensioni e vincoli di bilancio, ma già in passato tra danni dell’inquinamento Ilva alla salute di Taranto e destino degli operai e dell’acciaio italiano, e prima tra ritmi giudiziari delle inchieste anticorruzione e invece esigenze extragiudiziarie di far aprire in tempo Expo 2015, o prima ancora tra impopolarità del tema carceri e condizioni inumane di vita di chi sta in prigione. E si può già scommettere riaccadrà nelle prossime sentenze che scioglieranno nodi sulle questioni di bioetica, o che metteranno il dito nel contrasto tra irrazionalità fiscali e esigenze dell’erario, o che incroceranno assetto degli statali e nuove regole per i dipendenti pubblici.
Sotto sotto, è come se ogni volta ribollisse questo non detto: quanti diritti ci possiamo permettere? Un retropensiero talmente sdoganato da nutrire reazioni sempre più insofferenti alle conseguenze di sentenze ripristinatorie di diritti, che sino a poco tempo fa sarebbero state percepite come ovvie riaffermazioni (di eguaglianza, dignità, equità sociale), e che invece adesso vengono vissute quasi come invasioni di Corti debordanti nel campo della politica, tapina perché commissariata dallo scippo giudiziario della sua facoltà di decidere tra più alternative possibili e di imporre questa scelta senza lacci e lacciuoli.
È un’insofferenza che trasuda già dalle parole usate da governo e parlamentari per definire la sentenza della Consulta sulle pensioni: «danno alla credibilità del Paese», verdetto che «scardina», decisione che (se applicata in toto) causerebbe conseguenze «immorali». Così, dopo ciascuna di queste sentenze, sempre più palese scatta il riflesso automatico di non applicarle, oppure — se proprio non è possibile disattenderle completamente — almeno di contenerle, di arginarne la portata, di neutralizzarne gli effetti, di mitridatizzarne le conseguenze. Plastico l’esempio delle condanne inflitte dalla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo all’Italia per le condizioni inumane e degradanti della detenzione nelle carceri: sentenze alle quali in questi mesi il governo ha ritenuto di adeguarsi con una legge su piccoli «rimedi compensativi» (8 euro al giorno per il passato, oppure lo scomputo di un giorno ogni dieci sulla pena ancora da scontare) dalle maglie normative però talmente strette che l’85 per cento delle domande avanzate a fine 2014 era stata dichiarata inammissibile, e soltanto l’1,2 per cento di richieste di risarcimento era stato accolto. E qualcosa del genere, in attesa che accada per le pensioni, sta avvenendo già in parte con la legge sulla tortura, in teoria introdotta sull’onda di un’altra condanna dell’Italia da parte di Strasburgo (stavolta per il G8 di Genova), ma in realtà parcheggiata (dopo approvazione in prima lettura) in un ramo del Parlamento con un testo di compromesso al ribasso.
Cambiano infatti i casi, ma il denominatore comune resta che la giurisdizione è sottoposta a una pressione sociale molto più insidiosa di passate grossolane ingerenze politiche: il mordere della crisi economica, la coperta corta dei bilanci statali, l’urgenza della disoccupazione, la disabitudine alla ricerca di soluzioni che non siano vendibili in pochi slogan, il fastidio per ciò che inevitabilmente complesso non sia tagliabile con l’accetta, tutto congiura a domandare alle Corti superiori (come in fondo già ai magistrati nei gradi inferiori) di subordinare le proprie decisioni a
«compatibilità» con equilibri di volta in volta politici-sociali-economici e di assumere come parametro la «sostenibilità» dei propri atti. Con la conseguenza che non sembra più strano dare esecuzione a queste sentenze soltanto se e nella misura in cui esse siano compatibili con i bilanci statali, o appaiano socialmente accettabili, o risultino «digeribili» dalle esigenze delle imprese, o siano in linea con il momento politico, o siano empatiche con le emozioni dei cittadini.
Il che illumina due sottovalutazioni. La prima, nel presente, è che il ritardo con il quale il Parlamento sta mancando di eleggere i due giudici costituzionali di propria competenza influisce e di fatto altera la vita della Consulta, dove indiscrezioni attribuiscono ad esempio la contestata sentenza sulle pensioni al voto con valore doppio del presidente tra 6 favorevoli e 6 contrari. La seconda sottovalutazione, in prospettiva, è di quanto la combinazione tra nuova legge elettorale e nuovo Senato possa sbilanciare, a favore delle artificiosamente rafforzate maggioranze politiche di turno, le quote di giudici costituzionali e di componenti laici che spetta al Parlamento eleggere rispettivamente alla Consulta e al Consiglio superiore della magistratura.



mercoledì 11 marzo 2015

Crolla la libertà di stampa in Italia e nel mondo: lo dice Reporter Senza Frontiere




Secondo il rapporto sulla libertà di stampa redatto da Reporter Senza Frontiere, l'Italia scende al 73°posto nella classifica dei Paesi nel mondo, posizionandosi tra Moldavia e Nicaragua: “La situazione dei giornalisti è peggiorata nettamente nel 2014 con un grande incremento di attacchi alle loro proprietà, specie le automobili”, si legge nel testo. Si tratta di intimidazioni da parte della criminalutà organizzata, spesso al soldo di persone influenti, soprattutto di politici. Il rapporto parla anche di aggressioni fisiche ed incendi alle abitazioni di chi si occupa di informazione (a quanto pare, fastidiosa perchè veritiera). A questi dati sconcertanti vanno aggiunti i 129 casi di diffamazione “ingiustificati” che rischiano di essere vere e proprie prove di censura non tanto velata. L'organizzazione Ossigeno per l'Informazione ha poi aggiunto che sono state conteggiate 421 minacce nei confronti dei cronisti, con un aumento del 10% rispetto all'anno precedente: “Le minacce di morte sono comuni e sono di solito recapitate sotto forma di lettere o simboli, come croci dipinte sulle automobili o proiettili inviati via posta”.

In questa situazione stridono le parole del vicedirettore del Corriere della Sera che ha definito il rapporto di RSF come “arbitrario e infondato”.

Ma vediamo com'è la situazione in Europa e nel resto del mondo. Su 180 Paesi presi in esame, l'Italia si colloca al 26°posto nell'Ue dove una buona posizione è, invece, stata conseguita dai Paesi nordici: Finlandia, Svezia, Norvegia e Germania.

Il World Press Freedom Index segnala: “Sotto attacco dalle guerre, dalle crescenti minacce di agenti non statali, da violenze durante manifestazioni e dalla crisi economica, la libertà dei media è in ritirata in tutti e cinque i continenti”: grave influenza, ovviamente, è data dall'Isis e da Boko Haram. Russia, Cina e Giappone perdono punti, da segnalare la ripresa del Brasile in un'area, quella sudamericana, dove i cartelli della droga fanno da padrone.

Monitoriamo, quindi, l'informazione perchè imbavagliare l'informazione, attaccare la cultura e l'Arte sono strumenti di violenza contro i cittadini: si tratta di colpi duri e indelebili all'identità e alla crescita consapevole dei popoli.



martedì 13 gennaio 2015

Violenza domestica: la paura di denunciare



L'Associazione per i Diritti Umani di Milano
 
presenta




D(i)RITTI AL CENTRO”

VIOLENZA DOMESTICA, LA DIFFICOLTA’ DI DENUNCIARE

Alla presenza di DIANA BATTAGGIA (curatrice dello spettacolo teatrale tratto dal libro) e di ILEANA ZACCHETTI (una delle autrici e testimone diretta)


 
 

MERCOLEDI' 21 GENNAIO

ore 19.00

presso

BISTRO' DEL TEMPO RITROVATO

Via Foppa, 4 (MM Sant'Agostino) MILANO

Milano 12/01/2015 - L’Associazione per i Diritti Umani presentala seconda edizione della manifestazione “DiRITTI AL CENTRO”, che affronta, attraverso incontri con autori, registi ed esperti, temi che spaziano dal lavoro, diritti delle donne in Italia e all’estero, minori, carceri, disabilità.

In ogni incontro l’Associazione per i Diritti Umani - attraverso la sua vicepresidente Alessandra Montesanto, saggista e formatrice - vuole dar voce ad uno o più esperti della tematica trattata e, attraverso uno scambio, anche con il pubblico, vuole dare degli spunti di riflessione sull’attualità e più in generale sui grandi temi dei giorni nostri.



In questo incontro dal titolo “Violenza domestica, la difficoltà di denunciare” si affronta il tema della violenza contro le donne attraverso il libro QUESTO NON E' AMORE. Venti storie raccontano la violenza domestica sulle donne, edito da Marsilio, a cura delle giornaliste de La 27ORA e l’intervista/scambio/dibattito con DIANA BATTAGGIA, curatrice dello spettacolo teatrale tratto dal libro e di ILEANA ZACCHETTI, una delle autrici e testimone diretta.



IL LIBRO:

Perchè le donne maltrattate da uomini a loro molto vicini (mariti, compagni, conviventi) non denunciano? In che modo i figli di queste donne vengono coinvolti da tali situazioni? E' importante avviare percorsi di recupero? Queste e molte altre sono le riflessioni proposte dal testo. Ogni storia ha una sua “chiave” che trattiene o libera la donna che la racconta.



LE AUTRICI:

La 27ma Ora è un blog curato da giornaliste del Corriere delle sera che si occupano di tematiche sociali attraverso le proprie esperienze personali e professionali, esperienze diverse e ricche di idee, ma sempre nell'ottica di un' “inchiesta condivisa”.







lunedì 8 settembre 2014

E si riaprono i CIE




Cari lettori,

riportiamo l'articolo di Alessandra Coppola uscito sabato 30 agosto 2014 sul Corriere della Sera.




Rifugiati, piano accoglienza
Cie aperto dal 15 settembre
Nel centro di via Corelli i primi 140 profughi. La struttura «prestata» per sei mesi dal Viminale al Comune. Allestita un’area dormitorio anche all’ex Palasharp
   


Comincia lunedì 15 settembre la nuova (provvisoria) vita del Centro di identificazione ed espulsione (Cie) di via Corelli, «prestato» per sei mesi dal Viminale al Comune per far fronte all’«emergenza profughi».
Lunedì, in Prefettura, saranno definiti gli ultimi dettagli, tempo due settimane ed entreranno nella struttura appena rinnovata i primi 140 rifugiati (tanti quanti sono gli attuali posti letto). Quindi, sarà fatto spazio per altri ospiti ancora, sfruttando tutte le aree disponibili. Contemporaneamente, alle spalle dell’ex Palasharp, verrà allestito un nuovo centro-dormitorio per un centinaio di persone, poco lontano dalla struttura gestita dalla cooperativa Farsi Prossimo (Caritas) in via Padre Salerio. Qualche esperimento è stato fatto già in estate, da settembre diventerà questo il secondo principale pilastro della nuova strategia comunale sull’«emergenza».
«È in corso una riorganizzazione del sistema dei luoghi di accoglienza - spiega l’assessore alle Politiche sociali, Pierfrancesco Majorino -, che si baserà fondamentalmente sulle aree di via Corelli e dell’ex Palasharp. Questo darà la possibilità - continua - di chiudere progressivamente le strutture di via Fratelli Zoia o di via Aldini, per esempio, sulle quali ha gravato tantissimo l’emergenza quest’anno».

Accoglienza a famiglie siriane ed eritree
L’assessore l’aveva già annunciato prima della pausa estiva: un «turnover» degli spazi cittadini pensato in modo da alternare i quartieri sotto pressione. Da mesi, poi, Majorino era in trattativa con i rappresentanti del governo per ottenere che la struttura di via Corelli non riaprisse come Cie. Il Centro era stato chiuso lo scorso dicembre dopo numerose rivolte, incendi e danneggiamenti. Da gennaio era stata avviata la ristrutturazione e al tempo stesso era stata bandita una nuova gara per la gestione, scaduto il contratto con la Croce Rossa. Il nuovo corso è stato affidato a una società francese esperta di carceri, la Gepsa, che avrebbe dovuto far ripartire l’attività del Cie a settembre. A luglio, però, il Comune ha ottenuto a Roma la promessa di una destinazione d’uso provvisoria. E i nuovi gestori, assieme agli ex dipendenti della Croce Rossa riassunti, fino a marzo non si occuperanno di immigrati irregolari in attesa di espulsione, ma di famiglie prevalentemente siriane ed eritree, in fuga da guerra e dittatura.
«Aspettiamo il presidio dell’Asl in stazione»

Gli ultimi dati, appena calcolati a Palazzo Marino, contano tra il 18 ottobre 2013 e lo scorso 27 agosto un passaggio a Milano di 29.625 rifugiati, di cui la grandissima maggioranza siriani (21.145). L’ultimo mese è stato il più impegnativo, con una media di 272 arrivi al giorno e 1.153 ospiti a notte. Una situazione ancora complicata, segnalano al Comune, che richiede ancora la collaborazione del governo e degli altri enti locali. «Molte delle nostre richieste sono state accolte - dice ancora Majorino -, siamo però ancora in attesa di un presidio medico permanente dell’Asl in stazione. Ci sarebbe già il luogo adatto, nell’ex ambulatorio al binario 21. Manca la volontà di Asl, Grandi Stazioni e, soprattutto, della Regione, che a parole dice di avere a cuore la salute dei milanesi, ma poi non interviene».


domenica 27 aprile 2014

Una conferenza per fare il punto sul Pakistan




Ci è pervenuta la seguente comunicazione che pubblichiamo volentieri.


Associazione Italian Friends of The Citizens Foundation TCF – ONLUS, in collaborazione con ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale), ha organizzato per giovedì 15 maggio (ore 18.00 presso ISPI, Via Clerici, 5 Milano) una conferenza, aperta al pubblico, dal titolo "Il Pakistan oltre il terrorismo. Il ruolo della società civile". L’incontro vedrà la partecipazione dell’esperto politologo britannico, profondo conoscitore del Pakistan, Prof. Anatol Lieven (King's College London), insieme a:
   
- Prof.ssa Elisa Giunchi, docente di “Storia e Istituzioni dei Paesi Islamici” (Università degli Studi di Milano) – moderatrice dell’incontro
- Viviana Mazza, giornalista del Corriere della Sera e autrice del libro “Storia di Malala” (Mondadori 2013), inviata in Medio Oriente e nel subcontinente Indo-Pakistano
- Imtiaz Dossa, membro del Consiglio Direttivo di The Citizens Foundation - TCF, esperto sul sistema scolastico pakistano.
La conferenza permetterà di approfondire gli aspetti del Pakistan di oggi, per lo più sconosciuti all’opinione pubblica italiana, e in particolare l’impegno civile a favore dei diritti e dell’empowerment femminile, con l’obiettivo di fornire una panoramica sulla odierna situazione di questo Paese, andando oltre la “mono-dimensione” con cui viene raccontato dai media oggi.




mercoledì 12 marzo 2014

Ricchi di cosa, poveri di cosa? Burkina Faso, Senegal, Italia. Reportage teatrale tra giornalismo, fotografia e musica




testo e voce Livia Grossi

foto e video Emiliano Boga

musica Jali Omar Suso

scrittura scenica Emanuela Villagrossi

Emiliano Boga
 

Senegalesi che tornano a casa dopo anni di emigrazioni, lavori degradanti in Europa e tante umiliazioni; europei che decidono di andare in Burkina Faso per essere poveri sì, ma più felici. Questa la situazione paradossale che viene raccontata da Livia Grossi in un reportage che, alla forza della sua indagine giornalistica unisce le bellissime foto - un paio qui pubblicate – e i video di Emiliano Boga.
La giornalista del Corriere della sera accompagna gli spettatori in un viaggio reso affascinante anche dalle note della
kora (tipico strumento africano) di Jali Omar Suso che come tanti altri nel suo Paese è un “griot”, un cantastorie. Storie che dovremmo solo imparare ad ascoltare con attenzione.






Abbiamo intervistato per voi Livia Grossi che ci ha anche scritto:

Emiliano è stato il mio compagno di viaggio, amico e fotografo: è scomparso recentemente per un incidente. Ogni replica di questo reading la dedico a lui”.  



Quando è come si è sviluppato il suo progetto sul teatro africano?

Da oltre vent'anni viaggio per il continente africano, ma solo nel 2012 ho deciso di partire per il Burkina Faso, "il paese degli uomini integri", come l'aveva battezzato Thomas Sankara, ex presidente del Paese assassinato nel 1987. A farmi prendere la decisione di partire è stata una notizia a dir poco bizzarra: in Burkina, il 6° paese più povero al mondo, ci sono oltre 200 compagnie che lavorano e si mantengono facendo teatro. Per una giornalista come me che scrive di cultura e teatro è quasi una provocazione: ho deciso di prendere l'aereo e partire, ovviamente a mie spese , senza alcuna sicurezza di pubblicare l'articolo, fa parte del pacchetto 'rischi e libertà' del free lance.


Che cosa significa "fare teatro" nei paesi africani, in particolare in Burkina Faso e in Senegal?                        


In Burkina Faso, ma anche in Senegal spesso gli spettacoli sono un mezzo d’informazione e formazione sociale. Si parla di aids, emigrazione, infibulazione, decessi per parto, ma anche di come ci si cura con le erbe. Si fa teatro ovunque, sotto i baobab nei villaggi, in piazza tra la polvere rossa della strada, sotto le stelle del teatro della capitale Ouagadogou, o tra i panni stesi nella Casa della Parola di Bobo Doulasso, l'antica corte di Sotigui Kouyaté, il griot scelto da Peter Brook per il suo Mahabharata. Il teatro è essenziale per la vita del popolo burkinabé, e qui se c'è da pagare qualche centesimo per il biglietto nessuno si tira indietro, perchè tutti ne riconoscono il valore.
"Le “case della parola” nate nei villaggi come luoghi dove discutere responsabilità e conflitti, proprio come in tribunale, in Burkina Faso sono diventati palcoscenici dove raccontare e raccontarsi. La sede africana di quell’agorà, dove il Teatro delle Origini è nato. Un rito sociale antico che noi con il tempo abbiamo dimenticato, lasciando il palcoscenico a forme d’ intrattenimento non sempre di buon gusto".



Il teatro può essere una forma di giornalismo?


Certo, qui si fa teatro per conoscere tutto ciò che è utile sapere, e gli attori e i cantastorie (i griot), in qualche modo diventano miei colleghi. Come m'interessa ritrovare quel “Teatro delle origini” che al di là di ogni luogo comune, stabilisca una rinnovata forma di condivisione della realtà attraverso il racconto e la sua rappresentazione. m'interessa un “giornalismo delle origini”, capace di trasmettere, con sentimento e ragione, nuove e necessarie motivazioni. Da qui nascono i miei reportage teatrali, una forma di giornalismo detto in scena, come se il palco fosse una pagina di un magazine, con contributi fotografici, interviste in video e la giornalista che 'dice il pezzo' guardando negli occhi il lettore.



Quali sono, oggi, gli stereotipi sugli africani in Italia? Ed esistono anche stereotipi al contrario?


I media spesso fanno passare un'immagine che conferma e rassicura su posizioni di ricchezza e povertà. Il bambino nero con la pancia gonfia e la mosca sull'occhio e il bianco grasso e opulento con la sua Range Rover. Certo, questo è uno degli aspetti della realtà ma non l'unico. La seconda parte del mio reportage offre al lettore/spettatore un 'altro punto di vista. Racconto che in tempo di crisi l'emigrazione inizia a invertire le rotte.
I senegalesi incominciano tornare a casa perché il gioco non vale più la candela, gli italiani pensano all’Africa per fuggire da solitudine e povertà. Non sto ovviamente dicendo che gli aerei oggi si stanno riempiendo di italiani in fuga, ma cerco di far riflettere dando voce alle testimonianze di alcuni "emigrati al contrario": insegnanti precari tagliati dalla Gelmini che per sei mesi all'anno fanno imparare a leggere e scrivere ai bambini della spiaggia (i figli dei pescatori), ragazzi in cerca di futuro e socialità che aprono ostelli per viaggiatori zaino in spalla, e a chi con 300 euro di pensione dichiara: 'Ci vuole molto più coraggio a vivere in Italia con la mia pensione che stare in Senegal'. Un pensionato comasco che ho intervistato in un piccolo villaggio di pescatori, nella sede della sua associazione, un punto di riferimento per tutti i bambini di strada, qui possono avere una doccia, abiti puliti, cibarsi, giocare e imparare a scrivere in wolof e in francese. Tra un italiano e l' altro ci sono le testimonianze anche di alcuni senegalesi che dopo anni in Italia hanno deciso di tornare a casa, preferendo qualità di vita rispetto a qualche euro in più in tasca. Dal 2011 in Italia se ne sono andati circa 800mila immigrati , ma anche se i dati non sono mai certi, pare i numero siano destinato a salire.



Il lavoro si intitola Ricchi di cosa e poveri di cosa?: perché questa scelta?

Nel nostro Occidente alla deriva credo sia necessario pensare a una nuova definizione delle parole “ricchezza” e “povertà”, il Pil non può essere l'unica unità di misura; credo sia giunto, da tempo, il momento di chiedersi "Ricchi di cosa e poveri di cosa?", O meglio è questa la vera domanda a cui dovremmo impegnarci a rispondere. In scena dico: "Qui da noi la Festa oggi pare essere proprio finita, non ci resta che imparare a guardare con altri occhi". Il reportage non a caso inizia con il prologo (in video) dedicato a Thomas Sankara, “il Che Guevara africano”, con alcuni estratti del suo discorso sul debito pubblico.




Rai 3 domenica 9 febbraio 2014 ha dedicato la puntata di "Persone" , approfondimento del TG3,  registrata in occasione della messa in scena di "Ricchi di cosa?" all'interno dell'Edge festival Teatro/carcere.

Il link è :


La prossima data di "Ricchi di cosa e poveri di cosa" sarà il 15 marzo allo Spazio Har Baje, via Zuretti 47, nella stessa via dove è stato ucciso un ragazzo africano di 19 anni, per avere rubato un pacco di dolciumi da un chiosco. Abba. Dopo il reading ci sarà una cena africana.

Le nuove storie di resistenza al femminile di Livia Grossi saranno in scena per la prima volta allo Spazio Oberdan, di Milano il 19 marzo ore 20.15. per il festival Sguardi Altrove.

martedì 18 giugno 2013

Noi donne di Teheran: il nuovo saggio di Farian Sabahi



"La verità è uno specchio caduto dalle mani di Dio e andato in frantumi: ogni pezzo restituisce a chi lo tiene, una parte di verità", queste sono i versi del poeta sufi Rumi. La poesia, per i persiani, è la seconda lingua madre e dal teatro e dalla poesia, veicoli di verità profonde, nasce il nuovo saggio di Farian Sabahi intitolato Noi donne di Teheran, pubblicato in e-book, nella collana I corsivi del Corriere delle Sera.
Un testo oggi più che mai importante, a pochi giorni dalle elezioni presidenziali in Iran e alle quali non è stata ammessa nemmeno una delle trenta donne candidate.
Farian Sabahi, docente di Storia dei Paesi islamici all'università di Torino e giornalista, riesce a coniugare leggerezza e ironia in un testo che affronta argomenti seri, quali: la condizione femminile, il divorzio, la dicotomia tra islamismo e modernità, il senso della democrazia, i diritti degli omosessuali musulmani e molto altro ancora.
Numerose citazioni letterarie e cinematografiche intrecciano Passato e Presente, Storia e attualità per raccontare, come una Sherazade contemporanea, gli aspetti chiaro-scuri della città di Teheran, del suo popolo e dell'intero Paese. Una città in cui le donne, oggi come ieri, sono ricchezza umana e culturale e potrebbero essere il motore del cambiamento verso una maggiore libertà e garanzia dei diritti, per tutti.


Abbiamo intervistato Farian Sabahi


Il libro è dedicato a suo figlio, Atesh. Qual è il significato di questo nome e perchè ha voluto scrivere per lui proprio questo saggio?

Atesh vuol dire “fuoco”, è un nome che appartiene alla tradizione zoroastriana e quindi alle origini dell'Iran, prima dell'invasione arabo-musulmana. Non ho scritto “Noi donne di Teheran” per lui, ma ho pensato di dedicarglielo per dargli uno strumento per abbattere, fin da ragazzino, gli stereotipi sul nostro paese d'origine.

Attraverso i racconti, i proverbi e le vicende di alcune persone – intellettuali e non – fa compiere, al lettore, un viaggio nella Storia e, in particolare, nella città di Teheran. Cosa rappresenta, per lei, la sua città ?

Qual è la mia città? Non so, ho vissuto in tanti posti diversi. Teheran è la città in cui è nato e cresciuto mio padre, poi emigrato a Torino. E non era in realtà nemmeno la città di mia nonna Mariam, di cui parlo verso la fine del testo: lei era nata a Baku, nell'odierna Repubblica dell'Azerbaigian. Poi, alla fine degli anni Venti del Novecento, è stata obbligata a varcare la frontiera, con la famiglia, cercando scampo in Iran. Il Medio Oriente e il Caucaso sono da sempre mondi complessi, e certe latitudini emigrare è spesso stata una scelta obbligata: per motivi legati alle persecuzioni politiche, per studiare, per il desiderio di conoscere altri luoghi ed emanciparsi dall'amore delle famiglie.

Ed è' vero che Teheran si può accostare all'archetipo femminino?

“Donna è Teheran”, dico in questo testo che nasce per il teatro e ha un diverso registro di scrittura rispetto ai miei saggi accademici e ai reportage giornalistici. La città, declinata al femminile, diventa pretesto per raccontare la storia di un Paese, le sue similitudini rispetto al Sud Italia e le tante, tantissime contraddizioni. Per esempio religiose: a Teheran cristiani, ebrei e zoroastriani hanno i loro luoghi di culto, mentre i sunniti (musulmani pure loro, come gli sciiti) non hanno moschee tutte per loro. Ma non solo: niente omosessuali a Teheran, aveva dichiarato il presidente Ahmadinejad, ma a Teheran sono consentite (e incoraggiate) le operazioni chirurgiche per cambiare sesso. Questioni complesse, cui cerco di dare risposta.

Quali sono gli stereotipi confermati, ancora oggi, in Occidente sul popolo iraniano?

Principalmente quelli sulle donne, percepite sempre e comunque come coperte dal chador e quindi oppresse. Nel testo racconto che le iraniane hanno ricevuto il diritto di voto nel 1963, per gentile concessione dell'ultimo scià di Persia. 1963, ovvero cinquant'anni fa e quindi prima delle svizzere. Ma il diritto di voto non basta a fare una democrazia. E ancora, stereotipi sull'istruzione: non tutti sanno che a Teheran due matricole su tre sono donne. Che scelgono sempre e comunque (tranne un'esigua minoranza) materie scientifiche. Perché con una laurea in Lettere finisci tutt'al più a fare l'insegnante.

Perchè, nel suo libro, parla di “schizofrenia culturale” degli iraniani?

Prendo a prestito questa espressione dal filosofo iraniano Dariush Shayegan. Schizofrenia culturale perché Teheran non è né Oriente né Occidente. Teheran è una città con due anime. Viviamo sospesi, appunto tra Oriente e Occidente, tra modernità e tradizione. Siamo cittadini di una Repubblica... islamica, e la nostra dovrebbe essere una democrazia... religiosa, ma in realtà è una oligarchia di ayatollah e pasdaran. Mescoliamo Oriente e Occidente. Per esempio quando mangiamo la pizza: con il gormeh sabzi (un nostro piatto tipico). E al zereshk polo, un altro piatto tipico, qualcuno aggiunge il ketchup.

E, invece, cosa intende quando parla di “mondo iranico”?

I confini dell'Iran attuale sono ridimensionati rispetto a quelli dell'antico impero persiano. Mondo iranico è lo spazio culturale che va dall'est dell'Iraq all'India del Nord passando per l'Asia centrale. Un mondo ancora intriso di cultura persiana. In cui la poesia è una seconda lingua madre. Anche quando dobbiamo combattere gli integralismi. Perché spesso tiriamo in ballo un poeta antico, contemporaneo di Dante: il nostro Hafez.

Nella seconda parte del saggio, elenca nomi di donne che – attraverso il loro operato – si sono affermate nel mondo dell' Arte, della cultura, della politica e molte di loro hanno lottato per affermare diritti umani e civili. Nel 1907, in Iran, viene fondata la prima scuola femminile: sono gli stessi anni che vedono protagoniste, in Europa, le suffragette.
C'è così tanta differenza tra le donne iraniane e quelle occidentali, italane in particolare?

Non più di tanto. In “Noi donne di Teheran” l'elenco di donne in gamba è lungo, anche se ovviamente non esaustivo. In un primo momento pensavo di accorciarlo. E nella lettura teatrale salto a piè pari quel lungo elenco di nomi. Ma resta la frase finale di quella parte: quando pensare a noi riflettere sul nostro coraggio, sulla forza di noi donne di Teheran. Perché, come recita un proverbio persiano, se cerchi la luna guarda il cielo, non lo stagno.

 
Farian Sabahi (www.fariansabahi.com)