Pubblichiamo la recensione del film Sta per piovere, oggi nelle sale italiane, a cura del critico cinematografico Alessandro Leone, uscita anche su www.cinequanon.it
Ventisei
anni, al terzo lungometraggio, il fiorentino Haider Rashid (padre
iracheno e madre italiana) porta nelle sale una storia emblematica di
una parte consistente d'Italia: ovvero il dramma della seconda
generazione, dei figli di immigrati che, nati su suolo patrio, sono a
tutti gli effetti anche figli del nostro Paese. Che poi vengano
riconosciuti come tali o siano percepiti come illegittimi è
questione centrale, per comprendere le trasformazioni in atto in una
società ancora refrattaria nel riconoscere pari diritti (leggi
cittadinanza, leggi dignità) a chi vive, lavora, paga le tasse, e
soprattutto si progetta in Italia.
Il paradosso contro cui si trova a lottare Said, nato a Firenze da genitori che lasciarono l'Algeria nei primi anni 80, costituisce la scarna sinossi del film: il suicidio di un imprenditore toscano decreta la chiusura della fabbrica in cui lavora Hamid. Senza contratto di lavoro l'uomo non può rinnovare il permesso di soggiorno e, dopo trent'anni, riceve un decreto di espulsione. Per i due figli, Said e Amir, comincia una lotta impossibile che li vede a fianco del padre nella difesa del presente e, quindi, dell'immediato futuro: Said è fidanzato con Giulia, fa il panettiere, ha amici italiani, non conosce l'Algeria e non ha mai pensato di viverci. L'incipit è significativo con il ragazzo che si prepara alla finalissima degli europei di calcio che vede l'Italia di fronte alla Spagna, cantando l'inno nazionale come buon auspicio.
Non ci sono - e non dovrebbero esserci - dubbi a riguardo, perché l'appartenenza culturale non è un foglio di carta timbrato da un prefetto, ma una condizione esistenziale che ha a che fare con il tessuto di relazioni ed esperienze formative/educative. La Firenze di Said non è un luogo occasionale di transito, ma la sua casa, una terra di affetti e passioni.
Così l'espulsione è un insulto ingiusto e chiama alla battaglia legale, condotta in prima linea da Said, che mobilita la stampa, le radio, le televisioni private, i politici locali, abbagliati dal talento retorico del ragazzo. Il caso diventa di dominio pubblico e scopre impreparato il paese, deficitario, sfregiato da una legge difettosa che contraddice i principi costituzionali.
Il regista ha dichiarato che le seconde generazioni possono essere la chiave del rinnovamento culturale e sociale a cui l'Italia aspira da tempo. Vivere in un limbo non permette di trovare l'equilibrio tra radici profonde (l'origine dei genitori) e legame con la terra natia. Connubio che invece dovrebbe a buon ragione costituire il valore aggiunto, generare un dialogo che da personale possa diventare collettivo e condiviso, capace di spalancare scenari nuovi e suggestivi.
Se l'espulsione equivale alla privazione delle libertà basilari, per Said diventa occasione per riconsiderare l'Algeria come Terra originaria, innescando per questo un processo, sempre rinviato, di esplorazione di una dimensione culturale che aveva rimosso. Suggestioni che visivamente cercano la strada della rappresentazione onirica, frammentando il racconto con soluzioni espressive più libere.
Si perdona un intreccio povero (volutamente, ma rischiando costantemente di cadere nel film a tesi), per cogliere lo sforzo di definire nel combattivo Said, l'alfiere della moltitudine silenziosa di stranieri-non-stranieri che quotidianamente reagiscono all'espatrio forzato. Il volto del bravo Lorenzo Baglioni si impadronisce dello schermo, producendosi, prima del finale, in un monologo che lascia il segno e che sancisce la sovrapposizione tra personaggio e narratore, ovvero Said/Haider Rashid che afferma l'urgenza di raccontare ciò che non può più passare sotto silenzio.
Aspettando che la pioggia, che nel film si attende invano, lavi via le nostre vergogne, in un clima culturale stantio, la domanda è: le produzioni italiane, avare di sguardi "meticci" - mentre in Francia, Germania, Inghilterra, le seconde (e terze) generazioni hanno da tempo cominciato a raccontarsi - sono pronte a investire in autori che favoriscano una riflessione sul presente davvero plurale?
Il paradosso contro cui si trova a lottare Said, nato a Firenze da genitori che lasciarono l'Algeria nei primi anni 80, costituisce la scarna sinossi del film: il suicidio di un imprenditore toscano decreta la chiusura della fabbrica in cui lavora Hamid. Senza contratto di lavoro l'uomo non può rinnovare il permesso di soggiorno e, dopo trent'anni, riceve un decreto di espulsione. Per i due figli, Said e Amir, comincia una lotta impossibile che li vede a fianco del padre nella difesa del presente e, quindi, dell'immediato futuro: Said è fidanzato con Giulia, fa il panettiere, ha amici italiani, non conosce l'Algeria e non ha mai pensato di viverci. L'incipit è significativo con il ragazzo che si prepara alla finalissima degli europei di calcio che vede l'Italia di fronte alla Spagna, cantando l'inno nazionale come buon auspicio.
Non ci sono - e non dovrebbero esserci - dubbi a riguardo, perché l'appartenenza culturale non è un foglio di carta timbrato da un prefetto, ma una condizione esistenziale che ha a che fare con il tessuto di relazioni ed esperienze formative/educative. La Firenze di Said non è un luogo occasionale di transito, ma la sua casa, una terra di affetti e passioni.
Così l'espulsione è un insulto ingiusto e chiama alla battaglia legale, condotta in prima linea da Said, che mobilita la stampa, le radio, le televisioni private, i politici locali, abbagliati dal talento retorico del ragazzo. Il caso diventa di dominio pubblico e scopre impreparato il paese, deficitario, sfregiato da una legge difettosa che contraddice i principi costituzionali.
Il regista ha dichiarato che le seconde generazioni possono essere la chiave del rinnovamento culturale e sociale a cui l'Italia aspira da tempo. Vivere in un limbo non permette di trovare l'equilibrio tra radici profonde (l'origine dei genitori) e legame con la terra natia. Connubio che invece dovrebbe a buon ragione costituire il valore aggiunto, generare un dialogo che da personale possa diventare collettivo e condiviso, capace di spalancare scenari nuovi e suggestivi.
Se l'espulsione equivale alla privazione delle libertà basilari, per Said diventa occasione per riconsiderare l'Algeria come Terra originaria, innescando per questo un processo, sempre rinviato, di esplorazione di una dimensione culturale che aveva rimosso. Suggestioni che visivamente cercano la strada della rappresentazione onirica, frammentando il racconto con soluzioni espressive più libere.
Si perdona un intreccio povero (volutamente, ma rischiando costantemente di cadere nel film a tesi), per cogliere lo sforzo di definire nel combattivo Said, l'alfiere della moltitudine silenziosa di stranieri-non-stranieri che quotidianamente reagiscono all'espatrio forzato. Il volto del bravo Lorenzo Baglioni si impadronisce dello schermo, producendosi, prima del finale, in un monologo che lascia il segno e che sancisce la sovrapposizione tra personaggio e narratore, ovvero Said/Haider Rashid che afferma l'urgenza di raccontare ciò che non può più passare sotto silenzio.
Aspettando che la pioggia, che nel film si attende invano, lavi via le nostre vergogne, in un clima culturale stantio, la domanda è: le produzioni italiane, avare di sguardi "meticci" - mentre in Francia, Germania, Inghilterra, le seconde (e terze) generazioni hanno da tempo cominciato a raccontarsi - sono pronte a investire in autori che favoriscano una riflessione sul presente davvero plurale?
Alessandro Leone |