giovedì 9 maggio 2013

Oltre la paura: un saggio sulle derive e le speranze di una società civile e democratica




Edito da Feltrinelli, è da poco stato pubblicato il saggio Oltre la paura. Cinque riflessioni su criminalità, società e politica di Adolfo Ceretti e Roberto Cornelli, docenti di criminologia presso l'Università di Milano Bicocca. Sicurezza sociale, pene sicure, paura nella convivenza: questi sono alcuni degli argomenti approfonditi nel saggio in cui si parla anche di una dimensione penale e di politiche di sicurezza democratiche da mettere in atto in funzione di una società, finalmente, aperta e,soprattutto, civile. Senza perdere di vista i diritti e i doveri che appartengono a tutti i cittadini.




Abbiamo rivolto alcune domande agli autori.

Cosa legittima, oggi in Italia, il sentimento della paura?

La paura segnala l’imminenza di una crisi di sistema; è il sentimento che più di ogni altro è in grado di significare la perdita di certezze e l’isolamento dell’individuo di fronte a trasformazioni epocali. In un certo senso è come se la paura della violenza avesse oggi la funzione di ordinare l’esperienza quotidiana e gli avvenimenti collettivi intorno a nuclei di significato condivisi. Proprio come l’ira di Achille nel mondo antico: prendendo spunto dalle riflessioni di Mario Vegetti, storico della filosofia antica, come l’ira, rappresentata letterariamente nell’Iliade, costituiva un’esperienza affettiva fondamentale in quanto reiterava la riluttanza diffusa verso una condizione di perdita della libertà, così oggi la paura – rappresentata nei luoghi della politica, nei mass-media, nella cinematografia e nelle fiction, nei discorsi quotidiani – esprime l’inquietudine diffusa che si possa regredire a uno stato di in-civiltà. Si teme di ritornare a una condizione di homo homini lupus, di guerra di tutti contro tutti, di violenza incontenibile perchè non più ingabbiata in quel progetto moderno fondato sull’idea di Stato-nazione in grado di garantire sicurezza e promuovere libertà, uguaglianza e fraternità.



Da chi e perchè viene inculcata la paura? Forse per ottenere un maggior controllo della società oppure per l'incapacità di gestire la criminalità?

Quel che è certo è che la propagazione sociale della paura non dipende, come si ritiene normalmente, da una sommatoria in crescita delle paure individuali. I dati delle ricerche che citiamo nel libro dimostrano una sostanziale stabilità dei livelli di paura della criminalità negli ultimi 15-20 anni. E probabilmente non è neanche semplicemente l’esito programmato di una manipolazione politico-mediatica. Certo che esistono imprenditori della paura, che speculano e costruiscono fortune e carriere sulla costruzione di campagne di allarme sociale. Ma ciò che caratterizza questi anni, rispetto a qualche decennio fa, è la pervasività dei discorsi sulla paura. Emerge, cioè, una rinnovata centralità del sentimento della paura come passione collettiva, intesa come stato affettivo diffuso che si costruisce culturalmente in relazione a una certa idea di società e come apparato significante, che orienta le mentalità e sensibilità e il modo in cui percepiamo ciò che sta intorno a noi. In questo modo, la paura entra, senza che ci sia necessariamente una regia, nella politica, vale a dire nelle decisioni e negli atti che organizzano la vita sociale e, prima ancora, nelle mentalità e sensibilità che competono nell’orientare quelle decisioni. La paura s’impone nei rapporti tra istituzioni, fino a diventare, per esempio, la conditio sine qua non dell’accesso a finanziamenti pubblici: se non si descrive il proprio territorio come insicuro e caratterizzato da allarme sociale non si ottengono finanziamenti per riqualificare quartieri degradati, per realizzare impianti di illuminazione nei parchi e per aumentare la qualità dei servizi. La paura diventa criterio per la protezione dei propri spazi vitali (casa, automobile) come per la progettazione e la riqualificazione urbanistica di quartieri popolari delle grandi città, ri-orienta i programmi sociali degli enti locali, ridisegna gli spazi pubblici, ridefinisce la vita sociale, influisce sugli stili educativi.



Quali sono, quindi, le politiche in atto relative alla sicurezza? Potete farci alcune esempi. E in che modo si potrebbe, invece, progettare una società civile aperta e pronta all'inclusione?

La paura dei barbari è ciò che rischia di renderci barbari”[1]. In queste poche parole di Tzvetan Todorov si condensa il circolo vizioso della paura, la quale, in una sorta di profezia che si autoavvera, legittima politiche che, con l’intento di rassicurare, finiscono per produrre proprio quella regressione della civiltà tanto temuta. La paura orienta e legittima comportamenti disumani, restrizioni illiberali e politiche discriminatorie; sostiene e attribuisce significato a innovazioni legislative e pratiche amministrative che affermano un’idea distorta di cittadinanza la quale si caratterizza sempre più marcatamente come dispositivo di esclusione (e non più d’inclusione) dall’area dei diritti. I casi sono innumerevoli, in Italia e all’estero: dalle Civility Laws statunitensi all’introduzione del reato di ingresso illegale in Italia, dagli Anti Social Behaviour Orders britannici alle ordinanze dei Sindaci sulla sicurezza urbana, dalle restrizioni discimnatorie nell’accesso ai servizi pubblici alla progettazione di spazi blindati e di comunità chiuse.
Per interrompere questa spirale, nell’ultimo capitolo riflettiamo su concetti (come fraternità, fiducia, eguale rispetto, libertà e diritti, dignità, capacità) ed esperienze “esemplari” che a essi si ispirano perché diventino nuovi vettori per ridirigere in senso democratico le politiche pubbliche nel campo penale. Tra queste esperienze diamo particolare risalto all’intuizione del Maestro Abreu, consolidata nel Sistema delle Orchestre Giovanili del Venezuela, di affrontare il problema delle sofferenze urbane fuori da una logica assistenziale e caritatevole, per dotare le persone di capacità. Abreu ha sottratto decine di migliaia di giovani dal rischio di entrare in gang criminali e violente, li ha riscattati da una situazione di miseria materiale e spirituale, dando loro la forza per lottare per il proprio futuro e per quello delle persone a loro vicine. Ci sembra il modo migliore  per dimostrare che un'altra sicurezza è possibile.


Le città italiane - anche dal punto di vista architettonico - sottolineano la necessità di separare, dividere (per contenere l'ansia, la paura, le angosce) invece di favorire le relazioni tra le persone...

Le gated communities sono forse l’esempio più noto di come le città si stiano trasformando attraverso nuove forme di architettura segreganti ed escludenti. Si tratta di comunità residenziali, generalmente abitate dalle classi sociali agiate, i cui accessi sono controllati da guardie giurate o da sistemi di videosorveglianza, e il cui perimetro è costituito da mura o cancellate, coronate da filo spinato o allarmate. Sono sempre più diffuse nei suburbs delle grandi aree metropolitane, tra cui, in modo eclatante, quella di Los Angeles. Ma è una tendenza che riguarda anche l'Europa e l’Italia. Va detto che questa ricerca di un rifugio protetto non produce quasi mai la sicurezza sperata. Numerosi studi hanno mostrato come anche in luoghi blindati e apparentemente omogenei al loro interno le paure si diffondono per una maggiore percezione del rischio d’infiltrazione e d’ingresso di estranei all’interno di un territorio ritenuto inviolabile, in modo direttamente proporzionale all’ostentata chiusura degli spazi di vita.


Nel saggio si parla delle carceri e degli ospedali psichiatrici: potete anticiparci il vostro pensieri riguardo a questi istituti? E qual è la vostra opinione sui CIE ?

Nel saggio riflettiamo, col supporto dei dati e della letteratura criminologica, sociologica e psichiatrica, sul processo di de-istituzionalizzazione e nuova istituzionalizzazione nel campo della salute mentale, sull’aumento della popolazione carceraria e sul fenomeno poco studiato della psichiatrizzazione del carcere.
Più in generale rileviamo come la domanda di sicurezza stia riportando in auge la funzione d’incapacitazione dei delinquenti e, parallelamente (come troppo spesso è capitato nella storia) dei sofferenti psichici, accompagnata da discorsi neo-retributivi (“se lo meritano”, “devono marcire in cella”, “bisognerebbe buttare via la chiave”). La stessa logica incapacitante – che nasconde alla città i problemi che non sa e non vuole affrontare – sostiene l’operatività dei Cie e rischia di affermarsi, se non si pone un argine anzitutto culturale, anche nel processo di riarticolazione istituzionale connesso alla chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari posta dalla legislazione. Sono molti i motivi di preoccupazione, primo tra tutti il fatto che le nuove strutture sanitarie regionali atte a ospitare i sofferenti psichici socialmente pericolosi finiscano col riprodurre surrettiziamente il modello custodiale degli attuali OPG, privati persino delle garanzie formali previste nel codice penale. Ma sappiamo che dal buon esito di questo percorso dipenderà in parte il miglioramento delle prestazioni di cura dei detenuti e quindi il rispetto di un loro diritto inviolabile, quello alla salute.





[1] T. Todorov, La Peur des barbares Au-delà du choc des civilisations, Paris, Robert Laffont, 2008, tr. it. di E. Lana, La paura dei barbari. Oltre lo scontro delle civiltà, Milano, Garzanti, 2009, p. 16.