Dal 22
gennaio nelle sale cinematografiche italiane, Difret
– Il coraggio di cambiare
parla di diritti e di donne, di forza e di violenza.
Hirut è
una ragazza di quattordici anni, una studentessa che vive in un
villaggio alle porte di Addis Abeba ed è la seconda di tre sorelle.
All'uscita da scuola, un giorno come un altro, viene aggredita da un
gruppo di uomini a cavallo: uno di loro la violenta perchè ha deciso
di prenderla in moglie.
Hirut,
nonostante la violenza, afferra un fucile e spara, uccidendo Tadele,
l'uomo che ha abusato di lei. Il destino di Hirut si sovrappone a
quello della sorella maggiore rimasta vittima, in passato, di
un'atroce tradizione, quella della “telefa”, il sequestro di una
giovane donna come rituale per il matrimonio forzato.
Ma la
sofferenza della protagonista (la parte è recitata da una ragazza
del posto che ha seguito un workshop di preparazione per le riprese
del film) non termina con l'uccisione del suo aggressore, anzi: verrà
portata davanti a un tribunale con il rischio di essere condannata a
morte per il reato compiuto.
Questa
la trama del racconto filmico. Ma il racconto è tratto da una storia
realmente accaduta nel 1996: il regista, Zeresenay Berhane Mehari, ha
scelto di portarla sul grande schermo per porre al centro
dell'interesse pubblico la questione delle tradizioni tribali, della
violenza di una cultura patriarcale, della mancanza di una cultura e
di una educazione sanitaria e della coscienza di sé da parte
femminile in alcuni Paesi del mondo. Mehari ha studiato cinema negli
Stati Uniti, ma è nato e cresciuto in Etiopia; il suo, quindi, è
uno sguardo “da dentro”, non superficiale e che rende il
risultato cinematografico realistico e sincero. Pensiamo, ad esempio,
alla sequenza di apertura: si parla di un caso di violenza domestica,
per entrare subito in argomento. Una donna, Meaza, si trova in prima
linea per difendere i diritti di un'altra donna che ha deciso di
sporgere denuncia contro il marito. Il regista segue la vittima fin
sul luogo di lavoro del coniuge, dove lo affronta, circondata da
altri uomini, con coraggio e fierezza. Interessante anche il
personaggio dell'avvocatessa: Meaza Ashenafi non è solo un
personaggio di finzione, ma è un legale di Addis Abeba che ha creato
una rete di sostegno per donne e bambine maltrattate e che
necessitano di assistenza gratuita. Con la sua associazione, ANDENET,
si batte ogni giorno per difendere i diritti dei più deboli.
Il
regista e l'avvocatessa realizzano un'opera genuina, attenta ai volti
delle persone inquadrate, testimoni e vittime di forti ingiustizie,
spesso lacerate dalla dicotomia tra rispetto per la tradizione e
diritto alla vita. Ma l'epilogo regala una speranza seppur amara:
Hirut, protetta fino a quel momento all'interno di un istituto per
ragazzi abbandonati, scende da un'auto e fa ritorno alle proprie
radici, ripresa di spalle e in mezzo alla folla, mentre una barca sta
affondando...