lunedì 12 gennaio 2015

Quel "limbo" vergognoso dentro e fuori dai C.I.E.




Limbo è il titolo di un documentario realizzato da Matteo Calore e Gustav Hofer per Zalab. Un lavoro cinematografico di racconto e di denuncia delle condizioni di sopravvivenza all'interno dei CIE, una prigionia forzata che vede coinvolti uomini, ma anche le loro donne e i loro bambini. Il film narra le storie di Alejandro, Bouchaib, Karim, e Peter, rinchiusi nei C.I.E. (Centri di Identificazione ed Espulsione) di Torino, Trapani e Roma, e delle loro famiglie, che attendono di sapere se i propri cari torneranno a casa o saranno mandati via dall'Italia. Storie di attesa, rabbia e paura.



L'Associazione per i Diritti Umani ha intervistato Matteo Calore e lo ringrazia molto per questo approfondimento.





Limbo” si riferisce allo stato di attesa, degli immigrati e delle loro famiglie, quando vengono portati nei CIE. Ci può anticipare alcune delle storie raccontate nel documentario?



L’entrata nel C.I.E. è l’inizio di una prigionia non solo per chi ci viene portato ma anche per chi ne rimane fuori. Genitori, mogli, mariti, compagni e figli si ritrovano improvvisamente, da un giorno all’altro, a dover gestire l’angoscia e la paura di perdere un affetto importante, di vederlo rinchiuso in un carcere di fatto per un tempo indefinito con il rischio che venga rimpatriato nel paese d’origine, dove in molti casi non ha più ne una casa ne una famiglia. Tutto questo non per aver commesso un reato ma solo per non avere i documenti in regola.

Limbo è un documentario che cerca di raccontare il dramma della detenzione amministrativa in questi centri attraverso un punto di vista fino ad ora inesplorato, un punto di vista importante ed universale che mostra l’assurda deriva di una legislazione problematica, costruita negli anni senza un vero progetto politico ma inseguendo le emergenze e il consenso elettorale.

Limbo racconta la storia di quattro famiglie che hanno vissuto questo dramma e sono riuscite a superarlo con grande dignità e determinazione.

Karim ha 24 anni, vive a Milano da quando ne aveva appena 6, da allora è tornato in Egitto solo una volta per una breve vacanza estiva quando era ancora un bambino.

Qui ha tutta la sua famiglia, i suoi amici, la sua casa, qui ha frequentato le scuole ed oggi si esprime scrivendo canzoni rap in Italiano con un forte accento Milanese.

Da circa tre anni ha una relazione con Federica, ventiduenne, milanese "doc", mamma di Aurora, una bimba di 4 anni di cui Karim non è il padre naturale, ma il padre "di fatto".

Vivevano tutti insieme nella periferia sud di Milano e stavano ricostruendosi una vita dopo un periodo difficile in cui K. aveva scontato una pena tra carcere e comunità a causa di piccoli reati.

Poi, un giorno, durante un normale controllo della polizia K. viene trovato senza documenti in regola e in poche ore si ritrova nel C.I.E. di Ponte Galeria, a Roma, dove sarà trattenuto per oltre due mesi.

In provincia di Varese una famiglia allargata del San Salvador vive nel terrore che Alejandro possa essere espulso da un giorno all’altro. Sua madre ci spiega che tutta la loro famiglia, zii, nonni, cugini e parenti lontani si sono trasferiti in Italia da una decina di anni.

Siamo scappati da una zona molto violenta e pericolosa ed oggi non abbiamo più niente laggiù!”

Ci racconta di essere arrivata in Italia prima lei con il marito, poi nel 2007 li ha raggiunti Alejandro con sua moglie e i suoi 2 figli maggiori e nel 2013, qui in Italia, è nata anche la loro ultima figlia.

Fino a un paio di anni fa Alejandro lavorava in regola insieme al padre in una piccola impresa di giardinaggio, sua moglie si occupava dei bambini e la madre lavorava come badante.

Oggi la loro quotidianità è stata stravolta, dopo che suo padre è stato colpito da un brutto ictus.

Alejandro ha perso il lavoro per occuparsi di lui e in poco tempo non ha più potuto rinnovare il permesso di soggiorno. Oggi mentre le due donne portano a casa i soldi, lui si occupa della casa e della famiglia, organizza le giornate dei figli, e si fa carico del padre malato che ormai non è più in grado di badare a se stesso. Poi la storia si ripete, e questo equilibrio complicato viene messo in crisi in una mattina di dicembre, quando Alejandro viene trovato senza documenti in regola e spostato in meno di 24 quattro ore a 1600 km da casa, nel C.I.E. di Trapani.

A Firenze, Susanna vive con la madre e passa le sue giornate al telefono con il suo compagno, Bouchaib, rinchiuso da più di un mese nel C.I.E di Trapani.

Susanna ha trentacinque anni, è italiana, ed è in cinta di 4 mesi. Quando la incontriamo sta mandando una foto della prima ecografia della loro bimba a Bouchaib.

Non è facile” ci dice trattenendo la rabbia a fatica “lui dovrebbe essere qui con me, dovremmo avere il diritto di viverci questa gravidanza serenamente insieme, come qualsiasi altra coppia italiana, se me lo mandano via sarò costretta a trasferirmi anch’io in Marocco perché voglio che mia figlia possa crescere accanto a suo padre”.

L’ultima è la storia di Peter e Cynthia, entrambi nigeriani, si sono conosciuti in Italia, qui hanno avuto il piccolo Godstime e si sono sposati.

Dopo un periodo di grande instabilità Cynthia ha trovato lavoro come lavapiatti in un albergo e Peter, mentre lei lavora si occupa del bimbo e di tutto il resto.

Una mattina, dopo aver accompagnato Godstime a scuola, la polizia ha fermato Peter a pochi metri da casa. L’unico documento di Peter è un libretto internazionale che certifica il suo matrimonio con Cynthia, lei è in regola ed è corsa subito in suo aiuto, ma ne il libretto, ne il certificato di nascita del bimbo in cui è indicata la paternità di Peter, ne la sua gentilezza e le sue suppliche le hanno permesso di evitare che lo portassero via.

Peter è rimasto più di due mesi bloccato nei C.I.E.

Un lungo periodo in cui Cynthia, improvvisamente sola, ha dovuto riorganizzarsi con caparbietà per tenere in piedi il difficile equilibrio tra gli impegni con l’avvocato di Peter e le intricate trafile burocratiche per cercare di farlo uscire, tra la gestione del piccolo Godstime e il suo lavoro in albergo, un lavoro prezioso, ottenuto con grandi fatiche dopo anni di precarietà, una risorsa fondamentale che le stava finalmente permettendo di sostenere tutta la sua famiglia e che ora ha il terrore di perdere.



A Milano, il CIE di Via Corelli è stato trasformato in un alloggio per migranti, soprattutto per quelli in transito nel nostro Paese: quali potrebbero essere le altre buone pratiche in termini di accoglienza?



In generale, credo sia difficile ragionare in termini di accoglienza dentro i confini disegnati dalla legislazione italiana sull’immigrazione.

Si tende a dividere tra cittadini stranieri regolari, per cui meritevoli di essere sostenuti con politiche di accoglienza, e immigrati irregolari, “clandestini” contro cui bisogna battersi con politiche di contrasto, con i C.I.E. e con le espulsioni.

La realtà, però, è ben diversa: non esistono comunità di stranieri regolari da un lato e di clandestini dall’altro.

Una legge come la nostra permette di maturare una posizione di clandestinità anche dopo diversi anni di permanenza regolare sul territorio italiano, così si trovano molto più spesso persone con i documenti in regola e persone prive di documenti che convivono sotto lo stesso tetto, all’interno della stessa famiglia. Non riconoscere questo apertamente rende estremamente ipocrita ogni riflessione sulle “buone pratiche in termini di accoglienza”.

Come, quando e chi accogliere” è diventata sempre di più una scelta arbitraria, costruita intorno alle emergenze del momento, agli accordi più o meno espliciti tra i diversi stati membri della comunità europea e alle esigenze elettorali dei partiti di maggioranza.

Nel C.I.E. di via Corelli, ad esempio, si è riusciti ad aprire un improvvisato centro di prima accoglienza per far fronte all’emergenza Siria e, per molti mesi, i siriani in transito verso i paesi dell’Europa del nord facevano una tappa lì, per due o tre giorni, per poi rimettersi in viaggio.

Tutto questo è potuto accadere fino a quando l’operazione italiana “Mare Nostrum” salvava le vite di queste persone e i paesi di destinazione più gettonati, come la Svezia o la Germania, accoglievano e accettavano le loro richieste di asilo. In quel periodo infatti, la polizia italiana non ha mai raccolto le impronte digitali di chi arrivava, permettendo così a tutti di decidere in quale paese andare senza rischiare di essere rimandati indietro, secondo quanto previsto dagli accordi di Dublino.

Per un altro lavoro, ho seguito uno di questi viaggi dallo sbarco al porto di Augusta in Sicilia fino al presidio alla stazione di Milano. Durante tutto il viaggio, abbiamo incontrato diversi poliziotti e a nessuno è venuto in mente di controllare i documenti ai Siriani con cui stavo viaggiando.

Pensando alle storie di Limbo mi è sembrato davvero strano, quasi fosse un tacito accordo con cui si riusciva a far defluire i flussi il più velocemente possibile verso nord. Era come se l’Europa dicesse: “l’Italia si fa carico di gestire le operazioni di salvataggio in mare e, in cambio, Germania, Francia, Svezia e Olanda chiudono un occhio sugli arrivi nel proprio territorio.”

In effetti una volta finita l’operazione Mare Nostrum è subentrata Triton, un’operazione internazionale gestita da Frontex, e gli equilibri internazionali sono improvvisamente cambiati: la polizia italiana ha ricominciato a pretendere le impronte di tutti i nuovi arrivati, spesso anche con metodi violenti, le frontiere di Svezia e Germania si sono richiuse duramente ed è tornato impossibile varcarle più o meno legalmente. Perché? Per il mio amico Mohammed, approdato in Sicilia la scorsa estate, arrivare in Svezia è stato semplice, in una settimana con quattro, cinque treni ce l’aveva fatta mentre oggi, suo cugino è stato bloccato all’arrivo, trasferito in un centro da cui non poteva uscire. L’hanno obbligato con la forza a lasciare le sue impronte in Italia, costringendolo di fatto a una vita qui, in un paese in cui non ha alcun legame. Per quanto mi riguarda questo non ha alcun senso.

Per fare qualcosa seriamente in termini di accoglienza è necessario che l’Europa smetta di agire costantemente invocando l’emergenzialità, cambiando in maniera schizofrenica posizione riguardo a questa o a quella ondata.

E’ necessario combattere davvero l’immigrazione clandestina, le mafie da entrambe le parti del Mediterraneo e gli smugglers che da anni gestiscono questi flussi con un giro d’affari impressionante, ma per farlo esiste solo una possibilità.

Dobbiamo costruire più occasioni di migrazione legale, rivedere il decreto flussi, ampliare le possibilità di ricevere un visto anche per chi è nato dalla parte sbagliata del mare e soprattutto fronteggiare le ondate di profughi costruendo dei canali umanitari che permettano loro di arrivare senza mettere a rischio la propria vita. Solo così possiamo combattere lo sfruttamento feroce di chi ha messo in gioco tutto pur di poter cambiare vita.




Quali sono le conseguenze del sistema italiano, in tema di politiche migratorie, per i figli di queste persone?



Io vivo in un quartiere altamente popolato da immigrati e i miei figli frequentano una scuola dove solo il 50% dei bambini ha entrambi i genitori italiani.

I loro amici vengono da famiglie nigeriane, bengalesi, somale, indiane e rumene, sono cresciuti insieme, molti di loro sono nati in Italia e per la loro generazione l’area geografica di provenienza dei genitori è un dato di totale disinteresse.

Purtroppo il loro modo di vedere il mondo è ancora molto lontano da quello delle generazioni che oggi votano in Italia, e fino a quando non saranno loro a definire una nuova politica i figli degli stranieri continueranno a portare lo stesso peso con cui devono convivere i loro genitori.

Al di là delle ingiustizie giuridiche sull’acquisizione della cittadinanza di cui si è già molto discusso, pensando più che altro ai figli di chi viene bloccato nei C.I.E. e rischia l’espulsione, le ripercussioni sulla vita di questi bambini sono evidenti.

La perdita improvvisa di un genitore senza ragioni apparenti non può che diventare motivo di angoscia e sofferenza per i figli di chi viene portato via lasciando una ferita e un insicurezza che farà fatica a riemarginarsi.

Fortunatamente i diritti dell’infanzia contano molto nel nostro paese e lo stato cerca sempre di tutelarli al meglio, per cui in molti casi, come ad esempio è stato per Peter e Cynthia, è proprio il tribunale dei minori l’ultima istituzione in grado di garantire che queste famiglie non vengano spezzate dalle espulsioni, ogni bambino che vive in Italia ha infatti il diritto di vivere accanto ai propri genitori, qualsiasi sia la loro situazione amministrativa.




E le donne sono costrette a cambiare il proprio ruolo all'interno delle famiglie?



Le storie raccontate in “Limbo” sono tutte storie in cui le donne restano al di fuori dei C.I.E. e sostengono il peso di errori, angosce e ingiustizie.

Non si può cedere alla paura di perdere il proprio compagno perché bisogna mantenere le forze per continuare a lavorare, per organizzare la vita dei propri figli, bisogna inventarsi delle storie per non farli soffrire e trovare le energie per combattere contro un ingiustizia che spesso si fatica anche solo a capire.

Credo però che farne una questione di genere rischia di diventare un esercizio ideologico.

Noi abbiamo raccontato le vicende di queste famiglie e non di altre solo perché nei pochi giorni in cui ci è stato concesso entrare nei centri non siamo riusciti a passare nelle sezioni femminili.

Nei C.I.E. ci finiscono tanto gli uomini quanto le donne.

In entrambi i casi, se fuori c’è una famiglia che si ritrova improvvisamente spezzata, c’è una persona che se ne deve fare carico e molto spesso lo deve fare da sola, ricoprendo ruoli che fino ad allora delegava al proprio partner.

Molte delle persone che abbiamo incontrato prima di cominciare le riprese del documentario hanno famiglie che si reggono su equilibri economici molto delicati, vivono in zone di periferia, in situazioni complesse e spesso, non avendo in Italia una rete familiare che può farsi carico dei bambini, solo uno dei coniugi riesce a lavorare mentre l’altro si occupa di tutto il resto, è chiaro che spezzare questi equilibri porta a situazioni di grande sofferenza che non possono che avere un peso importante per tutta la società.




Il documentario si basa sul parallelismo tra un “dentro” (nei CIE) e il “fuori”: cosa può fare la società civile per queste persone?



Sono convinto che il ruolo principale della società civile sia quello di tenere alta l’attenzione sulle violazioni dei diritti delle minoranze, moltiplicando le occasioni di informare e rendere partecipi anche le fette di cittadinanza meno sensibili, cercando in tutti i modi di controllare l’operato di una classe politica che ormai sembra aver completamente perso ogni contatto con la realtà del paese.

In Italia esiste una società civile già forte, fatta di associazioni, gruppi informali, comitati, centri sociali, patronati e volontari che da anni si impegna attivamente in questo senso.

Molte sono state le iniziative a difesa dei diritti di queste persone perché per fortuna c’è ancora una bella parte della popolazione che ha ben chiaro quanto tutto questo abbia a che fare direttamente con la vita di tutti noi.

Un paese che non è in grado di accogliere, di condividere, che ha dimenticato il proprio passato e lascia spazio alla paura e alla xenofobia è un paese che sta male, che fatica a rigenerarsi e in cui i diritti di tutti sono sempre più a rischio.