Limbo
è
il titolo di un documentario realizzato da Matteo Calore e Gustav
Hofer per Zalab. Un lavoro cinematografico di racconto e di denuncia
delle condizioni di sopravvivenza all'interno dei CIE, una prigionia
forzata che vede coinvolti uomini, ma anche le loro donne e i loro
bambini. Il film narra le storie di Alejandro,
Bouchaib, Karim, e Peter, rinchiusi nei C.I.E. (Centri di
Identificazione ed Espulsione) di Torino, Trapani e Roma, e delle
loro famiglie, che attendono di sapere se i propri cari torneranno a
casa o saranno mandati via dall'Italia. Storie di attesa, rabbia e
paura.
L'Associazione
per i Diritti Umani ha intervistato Matteo Calore e lo ringrazia
molto per questo approfondimento.
“Limbo”
si riferisce allo stato di attesa, degli immigrati e delle loro
famiglie, quando vengono portati nei CIE. Ci può anticipare alcune
delle storie raccontate nel documentario?
L’entrata
nel C.I.E. è l’inizio di una prigionia non solo per chi ci viene
portato ma anche per chi ne rimane fuori. Genitori, mogli, mariti,
compagni e figli si ritrovano improvvisamente, da un giorno
all’altro, a dover gestire l’angoscia e la paura di perdere un
affetto importante, di vederlo rinchiuso in un carcere di fatto per
un tempo indefinito con il rischio che venga rimpatriato nel paese
d’origine, dove in molti casi non ha più ne una casa ne una
famiglia. Tutto questo non per aver commesso un reato ma solo per non
avere i documenti in regola.
Limbo è
un documentario che cerca di raccontare il dramma della detenzione
amministrativa in questi centri attraverso un punto di vista fino ad
ora inesplorato, un punto di vista importante ed universale che
mostra l’assurda deriva di una legislazione problematica, costruita
negli anni senza un vero progetto politico ma inseguendo le emergenze
e il consenso elettorale.
Limbo
racconta la storia di quattro famiglie che hanno vissuto questo
dramma e sono riuscite a superarlo con grande dignità e
determinazione.
Karim ha
24 anni, vive a Milano da quando ne aveva appena 6, da allora è
tornato in Egitto solo una volta per una breve vacanza estiva quando
era ancora un bambino.
Qui ha
tutta la sua famiglia, i suoi amici, la sua casa, qui ha frequentato
le scuole ed oggi si esprime scrivendo canzoni rap in Italiano con un
forte accento Milanese.
Da circa
tre anni ha una relazione con Federica, ventiduenne, milanese "doc",
mamma di Aurora, una bimba di 4 anni di cui Karim non è il padre
naturale, ma il padre "di fatto".
Vivevano
tutti insieme nella periferia sud di Milano e stavano ricostruendosi
una vita dopo un periodo difficile in cui K. aveva scontato una pena
tra carcere e comunità a causa di piccoli reati.
Poi, un
giorno, durante un normale controllo della polizia K. viene trovato
senza documenti in regola e in poche ore si ritrova nel C.I.E. di
Ponte Galeria, a Roma, dove sarà trattenuto per oltre due mesi.
In
provincia di Varese una famiglia allargata del San Salvador vive nel
terrore che Alejandro possa essere espulso da un giorno all’altro.
Sua madre ci spiega che tutta la loro famiglia, zii, nonni, cugini e
parenti lontani si sono trasferiti in Italia da una decina di anni.
“Siamo
scappati da una zona molto violenta e pericolosa ed oggi non abbiamo
più niente laggiù!”
Ci
racconta di essere arrivata in Italia prima lei con il marito, poi
nel 2007 li ha raggiunti Alejandro con sua moglie e i suoi 2 figli
maggiori e nel 2013, qui in Italia, è nata anche la loro ultima
figlia.
Fino a
un paio di anni fa Alejandro lavorava in regola insieme al padre in
una piccola impresa di giardinaggio,
sua moglie si occupava dei bambini e la madre lavorava come badante.
Oggi la
loro quotidianità è stata stravolta, dopo che suo padre è stato
colpito da un brutto ictus.
Alejandro
ha perso il lavoro per occuparsi di lui e in poco tempo non ha più
potuto rinnovare il permesso di soggiorno. Oggi mentre le due donne
portano a casa i soldi, lui si occupa della casa e della famiglia,
organizza le giornate dei figli, e si fa carico del padre malato che
ormai non è più in grado di badare a se stesso. Poi la storia si
ripete, e questo equilibrio complicato viene messo in crisi in una
mattina di dicembre, quando Alejandro viene trovato senza documenti
in regola e spostato in meno di 24 quattro ore a 1600 km da casa, nel
C.I.E. di Trapani.
A
Firenze, Susanna vive con la madre e passa le sue giornate al
telefono con il suo compagno, Bouchaib, rinchiuso da più di un mese
nel C.I.E di Trapani.
Susanna
ha trentacinque anni, è italiana, ed è in cinta di 4 mesi. Quando
la incontriamo sta mandando una foto della prima ecografia della loro
bimba a Bouchaib.
“Non è
facile” ci dice trattenendo la rabbia a fatica “lui dovrebbe
essere qui con me, dovremmo avere il diritto di viverci questa
gravidanza serenamente insieme, come qualsiasi altra coppia italiana,
se me lo mandano via sarò costretta a trasferirmi anch’io in
Marocco perché voglio che mia figlia possa crescere accanto a suo
padre”.
L’ultima
è la storia di Peter e Cynthia, entrambi nigeriani, si sono
conosciuti in Italia, qui hanno avuto il piccolo Godstime e si sono
sposati.
Dopo un
periodo di grande instabilità Cynthia ha trovato lavoro come
lavapiatti in un albergo e Peter, mentre lei lavora si occupa del
bimbo e di tutto il resto.
Una
mattina, dopo aver accompagnato Godstime a scuola, la polizia ha
fermato Peter a pochi metri da casa. L’unico documento di Peter è
un libretto internazionale che certifica il suo matrimonio con
Cynthia, lei è in regola ed è corsa subito in suo aiuto, ma ne il
libretto, ne il certificato di nascita del bimbo in cui è indicata
la paternità di Peter, ne la sua gentilezza e le sue suppliche le
hanno permesso di evitare che lo portassero via.
Peter è
rimasto più di due mesi bloccato nei C.I.E.
Un lungo
periodo in cui Cynthia, improvvisamente sola, ha dovuto
riorganizzarsi con caparbietà per tenere in piedi il difficile
equilibrio tra gli impegni con l’avvocato di Peter e le intricate
trafile burocratiche per cercare di farlo uscire, tra la gestione del
piccolo Godstime e il suo lavoro in albergo, un lavoro prezioso,
ottenuto con grandi fatiche dopo anni di precarietà, una risorsa
fondamentale che le stava finalmente permettendo di sostenere tutta
la sua famiglia e che ora ha il terrore di perdere.
A
Milano, il CIE di Via Corelli è stato trasformato in un alloggio per
migranti, soprattutto per quelli in transito nel nostro Paese: quali
potrebbero essere le altre buone pratiche in termini di accoglienza?
In
generale, credo sia difficile ragionare in termini di accoglienza
dentro i confini disegnati dalla legislazione italiana
sull’immigrazione.
Si tende
a dividere tra cittadini stranieri regolari, per cui meritevoli di
essere sostenuti con politiche di accoglienza, e immigrati
irregolari, “clandestini” contro cui bisogna battersi con
politiche di contrasto, con i C.I.E. e con le espulsioni.
La
realtà, però, è ben diversa: non esistono comunità di stranieri
regolari da un lato e di clandestini dall’altro.
Una
legge come la nostra permette di maturare una posizione di
clandestinità anche dopo diversi anni di permanenza regolare sul
territorio italiano, così si trovano molto più spesso persone con i
documenti in regola e persone prive di documenti che convivono sotto
lo stesso tetto, all’interno della stessa famiglia. Non riconoscere
questo apertamente rende estremamente ipocrita ogni riflessione sulle
“buone pratiche in termini di accoglienza”.
“Come,
quando e chi accogliere” è diventata sempre di più una scelta
arbitraria, costruita intorno alle emergenze del momento, agli
accordi più o meno espliciti tra i diversi stati membri della
comunità europea e alle esigenze elettorali dei partiti di
maggioranza.
Nel
C.I.E. di via Corelli, ad esempio, si è riusciti ad aprire un
improvvisato centro di prima accoglienza per far fronte all’emergenza
Siria e, per molti mesi, i siriani in transito verso i paesi
dell’Europa del nord facevano una tappa lì, per due o tre giorni,
per poi rimettersi in viaggio.
Tutto
questo è potuto accadere fino a quando l’operazione italiana “Mare
Nostrum” salvava le vite di queste persone e i paesi di
destinazione più gettonati, come la Svezia o la Germania,
accoglievano e accettavano le loro richieste di asilo. In quel
periodo infatti, la polizia italiana non ha mai raccolto le impronte
digitali di chi arrivava, permettendo così a tutti di decidere in
quale paese andare senza rischiare di essere rimandati indietro,
secondo quanto previsto dagli accordi di Dublino.
Per un
altro lavoro, ho seguito uno di questi viaggi dallo sbarco al porto
di Augusta in Sicilia fino al presidio alla stazione di Milano.
Durante tutto il viaggio, abbiamo incontrato diversi poliziotti e a
nessuno è venuto in mente di controllare i documenti ai Siriani con
cui stavo viaggiando.
Pensando
alle storie di Limbo mi è sembrato davvero strano, quasi fosse un
tacito accordo con cui si riusciva a far defluire i flussi il più
velocemente possibile verso nord. Era come se l’Europa dicesse:
“l’Italia si fa carico di gestire le operazioni di salvataggio in
mare e, in cambio, Germania, Francia, Svezia e Olanda chiudono un
occhio sugli arrivi nel proprio territorio.”
In
effetti una volta finita l’operazione Mare Nostrum è subentrata
Triton, un’operazione internazionale gestita da Frontex, e gli
equilibri internazionali sono improvvisamente cambiati: la polizia
italiana ha ricominciato a pretendere le impronte di tutti i nuovi
arrivati, spesso anche con metodi violenti, le frontiere di Svezia e
Germania si sono richiuse duramente ed è tornato impossibile
varcarle più o meno legalmente. Perché? Per il mio amico Mohammed,
approdato in Sicilia la scorsa estate, arrivare in Svezia è stato
semplice, in una settimana con quattro, cinque treni ce l’aveva
fatta mentre oggi, suo cugino è stato bloccato all’arrivo,
trasferito in un centro da cui non poteva uscire. L’hanno obbligato
con la forza a lasciare le sue impronte in Italia, costringendolo di
fatto a una vita qui, in un paese in cui non ha alcun legame. Per
quanto mi riguarda questo non ha alcun senso.
Per fare
qualcosa seriamente in termini di accoglienza è necessario che
l’Europa smetta di agire costantemente invocando l’emergenzialità,
cambiando in maniera schizofrenica posizione riguardo a questa o a
quella ondata.
E’
necessario combattere davvero l’immigrazione clandestina, le mafie
da entrambe le parti del Mediterraneo e gli smugglers che da anni
gestiscono questi flussi con un giro d’affari impressionante, ma
per farlo esiste solo una possibilità.
Dobbiamo
costruire più occasioni di migrazione legale, rivedere il decreto
flussi, ampliare le possibilità di ricevere un visto anche per chi è
nato dalla parte sbagliata del mare e soprattutto fronteggiare le
ondate di profughi costruendo dei canali umanitari che permettano
loro di arrivare senza mettere a rischio la propria vita. Solo così
possiamo combattere lo sfruttamento feroce di chi ha messo in gioco
tutto pur di poter cambiare vita.
Quali
sono le conseguenze del sistema italiano, in tema di politiche
migratorie, per i figli di queste persone?
Io vivo
in un quartiere altamente popolato da immigrati e i miei figli
frequentano una scuola dove solo il 50% dei bambini ha entrambi i
genitori italiani.
I loro
amici vengono da famiglie nigeriane, bengalesi, somale, indiane e
rumene, sono cresciuti insieme, molti di loro sono nati in Italia e
per la loro generazione l’area geografica di provenienza dei
genitori è un dato di totale disinteresse.
Purtroppo
il loro modo di vedere il mondo è ancora molto lontano da quello
delle generazioni che oggi votano in Italia, e fino a quando non
saranno loro a definire una nuova politica i figli degli stranieri
continueranno a portare lo stesso peso con cui devono convivere i
loro genitori.
Al di là
delle ingiustizie giuridiche sull’acquisizione della cittadinanza
di cui si è già molto discusso, pensando più che altro ai figli di
chi viene bloccato nei C.I.E. e rischia l’espulsione, le
ripercussioni sulla vita di questi bambini sono evidenti.
La
perdita improvvisa di un genitore senza ragioni apparenti non può
che diventare motivo di angoscia e sofferenza per i figli di chi
viene portato via lasciando una ferita e un insicurezza che farà
fatica a riemarginarsi.
Fortunatamente
i diritti dell’infanzia contano molto nel nostro paese e lo stato
cerca sempre di tutelarli al meglio, per cui in molti casi, come ad
esempio è stato per Peter e Cynthia, è proprio il tribunale dei
minori l’ultima istituzione in grado di garantire che queste
famiglie non vengano spezzate dalle espulsioni, ogni bambino che vive
in Italia ha infatti il diritto di vivere accanto ai propri genitori,
qualsiasi sia la loro situazione amministrativa.
E
le donne sono costrette a cambiare il proprio ruolo all'interno delle
famiglie?
Le
storie raccontate in “Limbo” sono tutte storie in cui le donne
restano al di fuori dei C.I.E. e sostengono il peso di errori,
angosce e ingiustizie.
Non si
può cedere alla paura di perdere il proprio compagno perché bisogna
mantenere le forze per continuare a lavorare, per organizzare la vita
dei propri figli, bisogna inventarsi delle storie per non farli
soffrire e trovare le energie per combattere contro un ingiustizia
che spesso si fatica anche solo a capire.
Credo
però che farne una questione di genere rischia di diventare un
esercizio ideologico.
Noi
abbiamo raccontato le vicende di queste famiglie e non di altre solo
perché nei pochi giorni in cui ci è stato concesso entrare nei
centri non siamo riusciti a passare nelle sezioni femminili.
Nei
C.I.E. ci finiscono tanto gli uomini quanto le donne.
In
entrambi i casi, se fuori c’è una famiglia che si ritrova
improvvisamente spezzata, c’è una persona che se ne deve fare
carico e molto spesso lo deve fare da sola, ricoprendo ruoli che fino
ad allora delegava al proprio partner.
Molte
delle persone che abbiamo incontrato prima di cominciare le riprese
del documentario hanno famiglie che si reggono su equilibri economici
molto delicati, vivono in zone di periferia, in situazioni complesse
e spesso, non avendo in Italia una rete familiare che può farsi
carico dei bambini, solo uno dei coniugi riesce a lavorare mentre
l’altro si occupa di tutto il resto, è chiaro che spezzare questi
equilibri porta a situazioni di grande sofferenza che non possono che
avere un peso importante per tutta la società.
Il
documentario si basa sul parallelismo tra un “dentro” (nei CIE) e
il “fuori”: cosa può fare la società civile per queste persone?
Sono
convinto che il ruolo principale della società civile sia quello di
tenere alta l’attenzione sulle violazioni dei diritti delle
minoranze, moltiplicando le occasioni di informare e rendere
partecipi anche le fette di cittadinanza meno sensibili, cercando in
tutti i modi di controllare l’operato di una classe politica che
ormai sembra aver completamente perso ogni contatto con la realtà
del paese.
In
Italia esiste una società civile già forte, fatta di associazioni,
gruppi informali, comitati, centri sociali, patronati e volontari che
da anni si impegna attivamente in questo senso.
Molte
sono state le iniziative a difesa dei diritti di queste persone
perché per fortuna c’è ancora una bella parte della popolazione
che ha ben chiaro quanto tutto questo abbia a che fare direttamente
con la vita di tutti noi.
Un paese
che non è in grado di accogliere, di condividere, che ha dimenticato
il proprio passato e lascia spazio alla paura e alla xenofobia è un
paese che sta male, che fatica a rigenerarsi e in cui i diritti di
tutti sono sempre più a rischio.