lunedì 5 gennaio 2015

Oltre la democrazia. Temi e problemi del pensiero politico islamico



 


Il pensiero politico islamico è stato messo alla prova dalle rivolte o rivoluzioni che hanno coinvolto il mondo arabo negli ultimi anni. Il ruolo dei movimenti e dei partiti islamisti prefigura un percorso che può andare "oltre la democrazia" alla ricerca di nuove forme di organizzazione politica. Il volume Oltre la democrazia. Temi e problemi del pensiero politico islamico, di Massimo Campanini edito da Mimesis, raccoglie un certo numero di saggi e articoli precedentemente pubblicati e si prefigge di analizzare i presupposti teorici di siffatta progettualità politica indagando i caratteri e le forme del pensiero politico islamico classico e contemporaneo.


L'Associazione per i Diritti Umani ha rivolto alcune domande al Prof. Campanini e lo ringrazia molto per la sua disponibilità.






Quali potrebbero essere le nuove forme di organizzazione politica che porti i Paesi islamici dall'autoritarismo a governi più democratici?



Le forme di autoritarismo o di governo francamente dittatoriale che hanno caratterizzato soprattutto i paesi arabo-islamici negli ultimi decenni sono state un effetto dell’affermarsi e poi dell’evolversi di regimi militari o comunque verticistici che hanno bensì gestito la transizione dal sistema coloniale a quello post-coloniale (tra gli anni Cinquanta e Settanta), ma che hanno riprodotto anche le sperequazioni sociali, il saccheggio delle risorse, l’elitarismo dei precedenti sistemi cosiddetti “liberali”. Ciò significa che non è stato l’Islam in quanto religione a imprimere un marchio di controllo autoritario allo stato e alla società. Anzi, per lungo tempo l’Islam e le organizzazioni islamiche hanno svolto una funzione contro-egemonica di contestazione dei regimi laici sortiti dalla decolonizzazione, sia pure non senza ombre e compromessi. Le cosiddette “primavere arabe” sembravano agli inizi promettere nuovi percorsi verso la democrazia e le conquiste dei diritti, anche con l’emergere sul proscenio di forze islamiste moderate come i Fratelli Musulmani che hanno, disordinatamente, cercato di imprimere un carattere appunto “islamizzante” alle transizioni. Ma le “primavere arabe” si sono involute: gli islamisti moderati sono stati emarginati o repressi, i militari sono tornati al potere, in alcuni paesi sono scoppiate guerre civili. È dunque difficile prevedere quali “nuove” forme di organizzazione politica potrebbero condurre i paesi arabo-islamici “oltre la democrazia”. Il pensiero politico islamista oscilla tra la rivendicazione di un’applicazione modernizzata della shari’a e il movimentismo jihadista che talvolta sconfina col terrorismo. I monarchi e i nuovi presidenti che si sono consolidati al potere (e peggio ancora per quelli che sono travolti dalla guerra civile) non hanno interesse ad allentare una presa autoritaria sullo stato e la società civile, anche per timore di una recrudescenza della contestazione interna. Certamente, appare sempre più chiaro che una automatica applicazione della (presunta) “democrazia” occidentale alle realtà arabo-islamiche è problematica, anche perché una eventuale affermazione islamica cercherebbe vie proprie di governo e di formulazione dei diritti, non necessariamente omologabili a quelle occidentali.




Si può parlare, nel Mediterraneo, di scontro di civiltà? E come, invece, porre le basi per un incontro?



Lo “scontro di civiltà” è, in certo senso, un dato di fatto, provocato, da un lato, dalla demonizzazione dell’Islam da parte di personaggi come Huntington o Pipes o Fukuyama (senza dimenticare gli islamofobi nostrani che pescano nei pregiudizi dell’opinione pubblica), e, dall’altro, dalla parallela demonizzazione dell’occidente da parte delle organizzazioni jihadiste più estreme. Il dialogo non si costruisce, comunque, sulla base di una “tolleranza”, termine ambiguo che sottintende un sentimento di superiorità da parte di un soggetto che, dall’alto della sua “verità”, “tollera” (cioè “sopporta”) il diverso. Si costruisce piuttosto, come ha sostenuto il filosofo egiziano Hasan Hanafi, sulla base di un reciproco riconoscimento di “soggettività” che interloquiscono nel confronto delle opinioni e nel rispetto della reciproca diversità, considerando l’interlocutore, appunto, come un altro “soggetto” e non come un potenziale avversario o un essere inferiore. Le religioni hanno ovviamente un ruolo importante da svolgere, soprattutto se riconoscessero la comune radice abramitica. Il problema dei diritti si presenta centrale, ed è forse significativo riflettere sul fatto che il suddetto Hanafi, intellettuale molto prestigioso e ascoltato nel mondo arabo, ha sostenuto che l’occidente impone i “suoi” diritti spacciandoli come “universali”. È vero che la formulazione dei diritti da parte di alcuni ‘ulema musulmani sembra legittimare la subordinazione della donna o l’emarginazione delle minoranze, ma l’aggiornamento deve avvenire dall’interno, come hanno sostenuto intellettuali come Abdullahi al-Na’im.




Come conciliare il pensiero politica islamico classico con la modernità?



Nella sua formulazione classica, il pensiero politico islamico contiene numerosi princìpi compatibili con la modernità e potenzialmente con la democrazia. Il principio della consultazione (shura), per esempio, implica quello della rappresentatività (il governante decide “consultandosi” con i rappresentanti liberamente scelti della comunità); il principio del consenso (ijma’) implica che il governante sia eletto dai sudditi e debba godere della loro approvazione (e possa essere rimosso nel caso di malgoverno); il principio del bene pubblico (maslaha) corrisponde esattamente all’intenzione “occidentale” di garantire l’equa distribuzione delle risorse e la protezione dei deboli. Certo, nella prospettiva islamica, il detentore della sovranità rimane Dio; ma la maggior parte dei teorici, anche islamisti, riconosce che la sovranità di Dio va esercitata attraverso la mediazione umana, cosicché il popolo sia il detentore del potere. Dunque non esistono ostacoli di principio a una modernizzazione del pensiero politico islamico. Il punto nodale più complicato è piuttosto la tendenza, diffusa nel pensiero politico ma in genere nella mentalità musulmana, di idealizzare l’epoca del profeta e dei suoi compagni, la prima generazione dei musulmani (i salaf), il cui esempio deve essere imitato, secondo i più rigidi e radicali (i salafiti appunto), alla lettera con una evidente distorsione del tempo storico.




Come si rapportano, oggi, i giovani all'Islam religioso e politico?



Innanzi tutto, bisogna considerare che un processo di secolarizzazione è comunque in atto nelle società musulmane, e la secolarizzazione è per antonomasia occidentale. Anche a Mecca ci sono i McDonald’s e i Kentucky Fried Chicken! Ciò incide sull’atteggiamento dei giovani che imparano ad andare al cinema e in discoteca. Per quanto sia poco noto, esistono diverse band rap e pop di giovani musulmani. Inoltre, vi sono molti tele-predicatori, come il carismatico Amr Khaled, che incitano i giovani a dedicarsi a quello che è stato definito (da Patrick Haenni), “Islam di mercato”, il cui motto è “Arricchitevi!” (sia pure in nome della religione). Perciò si è parlato (Oliver Roy) di un post-islamismo, cioè di un atteggiamento mentale, soprattutto giovanile, per il quale la religione diviene un fatto privato e le sirene dell’islamismo politico hanno perso il loro appeal. Naturalmente, non bisogna né generalizzare né banalizzare i fenomeni. L’Islam conserva tuttora la sua importanza come elemento di identità culturale, prima ancora che religiosa. L’Islam può essere vissuto liberamente come un’ideologia aperta e di giustizia, o come pretesto per un integralismo dottrinale e del comportamento sociale. Dipende dai contesti (sociali) e dall’inclinazione individuale. Del resto, il richiamo dell’Islam estremista e terrorista è stato (finora) relativamente limitato dal punto di vista numerico, e personalmente non credo che possa attecchire più di tanto.




Quanto è importante il ruolo delle donne nel processo culturale per una transizione verso una democrazia?



Naturalmente, è fondamentale. Soprattutto per quanto le donne stanno di fatto (anche se ciò raramente viene considerato dai mass-media occidentali) ritagliandosi sempre più spazio nelle professioni e nella società civile. Il processo è comunque ancora lungo e difficile. Nelle società patriarcali mediterranee, la donna è considerata (spesso ancora) lo scrigno dell’onore della famiglia e del clan, per cui deve essere protetta o addirittura isolata. Non è un caso che, dal punto di vista della giurisprudenza, le ultime vestigia del diritto musulmano classico (in presenza di una decisa occidentalizzazione dei codici e delle procedure) si conservino proprio nel diritto di famiglia: matrimonio, divorzio, eredità, cura dei figli. La notevole diffusione (poco nota, ma reale) del cosiddetto femminismo islamico (alcuni nomi: Amina Wadud, Asma Barlas, Asma Lamrabet, eccetera) non sempre è ben vista nelle società tradizionali: per esempio le stesse donne del Marocco rurale e profondo hanno reagito negativamente alla riforma del diritto di famiglia del re Muhammad VI, che pure migliorava notevolmente le loro condizioni e i loro diritti, temendo una dissoluzione dei vincoli familiari e di appartenenza. Anche qui bisogna evitare le banalizzazioni e le semplificazioni, poiché la realtà è complessa e in movimento, e le condanne pregiudiziali dell’Islam non portano da nessuna parte, se non a irrigidire ancor di più i fondamentalisti.