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Quali
potrebbero essere le nuove forme di organizzazione politica che porti
i Paesi islamici dall'autoritarismo a governi più democratici?
Le
forme di autoritarismo o di governo francamente dittatoriale che
hanno caratterizzato soprattutto i paesi arabo-islamici negli ultimi
decenni sono state un effetto dell’affermarsi e poi dell’evolversi
di regimi militari o comunque verticistici che hanno bensì gestito
la transizione dal sistema coloniale a quello post-coloniale (tra gli
anni Cinquanta e Settanta), ma che hanno riprodotto anche le
sperequazioni sociali, il saccheggio delle risorse, l’elitarismo
dei precedenti sistemi cosiddetti “liberali”. Ciò significa che
non è stato l’Islam in quanto religione a imprimere un marchio di
controllo autoritario allo stato e alla società. Anzi, per lungo
tempo l’Islam e le organizzazioni islamiche hanno svolto una
funzione contro-egemonica di contestazione dei regimi laici sortiti
dalla decolonizzazione, sia pure non senza ombre e compromessi. Le
cosiddette “primavere arabe” sembravano agli inizi promettere
nuovi percorsi verso la democrazia e le conquiste dei diritti, anche
con l’emergere sul proscenio di forze islamiste moderate come i
Fratelli Musulmani che hanno, disordinatamente, cercato di imprimere
un carattere appunto “islamizzante” alle transizioni. Ma le
“primavere arabe” si sono involute: gli islamisti moderati sono
stati emarginati o repressi, i militari sono tornati al potere, in
alcuni paesi sono scoppiate guerre civili. È dunque difficile
prevedere quali “nuove” forme di organizzazione politica
potrebbero condurre i paesi arabo-islamici “oltre la democrazia”.
Il pensiero politico islamista oscilla tra la rivendicazione di
un’applicazione modernizzata della shari’a e il movimentismo
jihadista che talvolta sconfina col terrorismo. I monarchi e i nuovi
presidenti che si sono consolidati al potere (e peggio ancora per
quelli che sono travolti dalla guerra civile) non hanno interesse ad
allentare una presa autoritaria sullo stato e la società civile,
anche per timore di una recrudescenza della contestazione interna.
Certamente, appare sempre più chiaro che una automatica applicazione
della (presunta) “democrazia” occidentale alle realtà
arabo-islamiche è problematica, anche perché una eventuale
affermazione islamica cercherebbe vie proprie di governo e di
formulazione dei diritti, non necessariamente omologabili a quelle
occidentali.
Si
può parlare, nel Mediterraneo, di scontro di civiltà? E come,
invece, porre le basi per un incontro?
Lo
“scontro di civiltà” è, in certo senso, un dato di fatto,
provocato, da un lato, dalla demonizzazione dell’Islam da parte di
personaggi come Huntington o Pipes o Fukuyama (senza dimenticare gli
islamofobi nostrani che pescano nei pregiudizi dell’opinione
pubblica), e, dall’altro, dalla parallela demonizzazione
dell’occidente da parte delle organizzazioni jihadiste più
estreme. Il dialogo non si costruisce, comunque, sulla base di una
“tolleranza”, termine ambiguo che sottintende un sentimento di
superiorità da parte di un soggetto che, dall’alto della sua
“verità”, “tollera” (cioè “sopporta”) il diverso. Si
costruisce piuttosto, come ha sostenuto il filosofo egiziano Hasan
Hanafi, sulla base di un reciproco riconoscimento di “soggettività”
che interloquiscono nel confronto delle opinioni e nel rispetto della
reciproca diversità, considerando l’interlocutore, appunto, come
un altro “soggetto” e non come un potenziale avversario o un
essere inferiore. Le religioni hanno ovviamente un ruolo importante
da svolgere, soprattutto se riconoscessero la comune radice
abramitica. Il problema dei diritti si presenta centrale, ed è forse
significativo riflettere sul fatto che il suddetto Hanafi,
intellettuale molto prestigioso e ascoltato nel mondo arabo, ha
sostenuto che l’occidente impone i “suoi” diritti spacciandoli
come “universali”. È vero che la formulazione dei diritti da
parte di alcuni ‘ulema musulmani sembra legittimare la
subordinazione della donna o l’emarginazione delle minoranze, ma
l’aggiornamento deve avvenire dall’interno, come hanno sostenuto
intellettuali come Abdullahi al-Na’im.
Come
conciliare il pensiero politica islamico classico con la modernità?
Nella
sua formulazione classica, il pensiero politico islamico contiene
numerosi princìpi compatibili con la modernità e potenzialmente con
la democrazia. Il principio della consultazione (shura), per esempio,
implica quello della rappresentatività (il governante decide
“consultandosi” con i rappresentanti liberamente scelti della
comunità); il principio del consenso (ijma’) implica che il
governante sia eletto dai sudditi e debba godere della loro
approvazione (e possa essere rimosso nel caso di malgoverno); il
principio del bene pubblico (maslaha) corrisponde esattamente
all’intenzione “occidentale” di garantire l’equa
distribuzione delle risorse e la protezione dei deboli. Certo, nella
prospettiva islamica, il detentore della sovranità rimane Dio; ma la
maggior parte dei teorici, anche islamisti, riconosce che la
sovranità di Dio va esercitata attraverso la mediazione umana,
cosicché il popolo sia il detentore del potere. Dunque non esistono
ostacoli di principio a una modernizzazione del pensiero politico
islamico. Il punto nodale più complicato è piuttosto la tendenza,
diffusa nel pensiero politico ma in genere nella mentalità
musulmana, di idealizzare l’epoca del profeta e dei suoi compagni,
la prima generazione dei musulmani (i salaf), il cui esempio deve
essere imitato, secondo i più rigidi e radicali (i salafiti
appunto), alla lettera con una evidente distorsione del tempo
storico.
Come
si rapportano, oggi, i giovani all'Islam religioso e politico?
Innanzi
tutto, bisogna considerare che un processo di secolarizzazione è
comunque in atto nelle società musulmane, e la secolarizzazione è
per antonomasia occidentale. Anche a Mecca ci sono i McDonald’s e i
Kentucky Fried Chicken! Ciò incide sull’atteggiamento dei giovani
che imparano ad andare al cinema e in discoteca. Per quanto sia poco
noto, esistono diverse band rap e pop di giovani musulmani. Inoltre,
vi sono molti tele-predicatori, come il carismatico Amr Khaled, che
incitano i giovani a dedicarsi a quello che è stato definito (da
Patrick Haenni), “Islam di mercato”, il cui motto è
“Arricchitevi!” (sia pure in nome della religione). Perciò si è
parlato (Oliver Roy) di un post-islamismo, cioè di un atteggiamento
mentale, soprattutto giovanile, per il quale la religione diviene un
fatto privato e le sirene dell’islamismo politico hanno perso il
loro appeal. Naturalmente, non bisogna né generalizzare né
banalizzare i fenomeni. L’Islam conserva tuttora la sua importanza
come elemento di identità culturale, prima ancora che religiosa.
L’Islam può essere vissuto liberamente come un’ideologia aperta
e di giustizia, o come pretesto per un integralismo dottrinale e del
comportamento sociale. Dipende dai contesti (sociali) e
dall’inclinazione individuale. Del resto, il richiamo dell’Islam
estremista e terrorista è stato (finora) relativamente limitato dal
punto di vista numerico, e personalmente non credo che possa
attecchire più di tanto.
Quanto
è importante il ruolo delle donne nel processo culturale per una
transizione verso una democrazia?
Naturalmente,
è fondamentale. Soprattutto per quanto le donne stanno di fatto
(anche se ciò raramente viene considerato dai mass-media
occidentali) ritagliandosi sempre più spazio nelle professioni e
nella società civile. Il processo è comunque ancora lungo e
difficile. Nelle società patriarcali mediterranee, la donna è
considerata (spesso ancora) lo scrigno dell’onore della famiglia e
del clan, per cui deve essere protetta o addirittura isolata. Non è
un caso che, dal punto di vista della giurisprudenza, le ultime
vestigia del diritto musulmano classico (in presenza di una decisa
occidentalizzazione dei codici e delle procedure) si conservino
proprio nel diritto di famiglia: matrimonio, divorzio, eredità, cura
dei figli. La notevole diffusione (poco nota, ma reale) del
cosiddetto femminismo islamico (alcuni nomi: Amina Wadud, Asma
Barlas, Asma Lamrabet, eccetera) non sempre è ben vista nelle
società tradizionali: per esempio le stesse donne del Marocco rurale
e profondo hanno reagito negativamente alla riforma del diritto di
famiglia del re Muhammad VI, che pure migliorava notevolmente le loro
condizioni e i loro diritti, temendo una dissoluzione dei vincoli
familiari e di appartenenza. Anche qui bisogna evitare le
banalizzazioni e le semplificazioni, poiché la realtà è complessa
e in movimento, e le condanne pregiudiziali dell’Islam non portano
da nessuna parte, se non a irrigidire ancor di più i
fondamentalisti.