L’Associazione
“Federico Aldrovandi”
nasce come naturale evoluzione del Comitato
“Verità per Aldro”,
creato nel gennaio del 2006 per chiedere verità e giustizia per
Federico Aldrovandi, il diciottenne ferrarese ucciso durante un
controllo di polizia il 25 settembre 2005.
In
questi anni, dopo una fase iniziale di stallo nelle indagini e
numerose omissioni, si è riusciti ad arrivare al processo e nel
giugno del 2012 i quattro poliziotti che avevano fermato Federico
sono stati condannati definitivamente a 3 anni e 6 mesi di
reclusione per eccesso colposo in omicidio colposo.
Ma
il “lavoro” non è finito. Abbiamo visto con i nostri occhi come
sia difficile vedere applicato un banale principio di giustizia per
cui se chi commette un reato indossi o no una divisa dovrebbe essere
indifferente ai fini dell’azione giudiziaria.
Per
tutto questo crediamo che passaggi fondamentali siano l’approvazione
di una legge sulla tortura e la democratizzazione delle forze
dell’ordine.
Perché, come
recitava lo striscione che apriva il corteo nazionale che
organizzammo nel 2006, ad un anno dall’uccisione di Federico…
Verità grido il tuo nome.
Per quello che non doveva succedere.
Per quello che non è ancora successo.
Perché non accada mai più.
Di
seguito, pubblihciamo la lettera della mamma di Federico, pubblicata
sul sito della loro associazione.
Perché
rimetto le querele contro Paolo Forlani, Franco Maccari e Carlo
Giovanardi
Ho perso Federico che aveva 18 anni la notte del 25 settembre di dieci anni fa per l’azione scellerata di quattro poliziotti che vestivano una divisa dello stato, e forti di quella divisa hanno infierito su mio figlio fino a farlo morire. Non avrebbero mai più dovuto indossarla.
Patrizia Moretti
Ho perso Federico che aveva 18 anni la notte del 25 settembre di dieci anni fa per l’azione scellerata di quattro poliziotti che vestivano una divisa dello stato, e forti di quella divisa hanno infierito su mio figlio fino a farlo morire. Non avrebbero mai più dovuto indossarla.
I giudici hanno
riconosciuto l’estrema violenza, l’assurda esigenza di “vincere”
Federico, e una mancanza di valutazione – da parte di quei quattro
agenti – al di fuori da ogni criterio di senso comune, logico,
giuridico e umanitario.
Non dovevano più
indossare quella divisa: nessuno può indossare una divisa dello
stato se pensa che sia giusto o lecito uccidere. O se pensa
che magari non si dovrebbe, ma ogni tanto può succedere, e
allora fa lo stesso, il tutto verrà ben coperto. Con la
speranza che il sospetto di una morte insensata, inutile e
violenta scivoli via fra la rassicurante verità di carte col
timbro dello Stato, di fronte alle quali tutti si dovrebbero
rassegnare. E poi con quella stessa divisa si continuerà a chiedere
il rispetto di quello stesso Stato: che però sarà
inevitabilmente più debole e colpevole. Come un padre ubriaco
che ha picchiato e ucciso i suoi figli.
Il delitto è stato
accertato, le sentenze per omicidio emesse. Invece le divise restano
sulle spalle dei condannati fino alla pensione. Fine del discorso.
L’orrore e gli
errori, con la morte e dopo la morte di Federico. La mancanza di
provvedimenti non guarda al futuro, non protegge i diritti e la
vita: non tutela nemmeno l’onestà delle forze dell’ordine.
Alla fine del
percorso giudiziario che ha condannato gli agenti tutto ciò ora mi
è ben chiaro: ed è il messaggio che voglio continuare a consegnare
alla politica e all’amministrazione del mio Paese.
Dopo la morte di
Federico, abbiamo dovuto difendere la sua vita vissuta e la sua
dignità assurdamente minacciate. Era pazzesco, sembrava il processo
contro Federico.
Ho chiesto risposte
alla giustizia e la giustizia ha riconosciuto che Federico non
doveva morire così.
Il processo è stato
per me, mio marito Lino e mio figlio Stefano una fatica atroce, ma
era necessario prendervi parte e lottare ad ogni udienza: ci ha
sostenuti l’amore per Federico.
Su quel processo e
da quel processo in tanti hanno espresso un’opinione. E’ stato
un modo per crescere.
Alcuni hanno colto
l’occasione per offendere me, Federico e la nostra famiglia.
Qualcuno l’ha fatto per quella che ritengo gratuita sciatteria e
volgarità, altri per disegni politici volti a negare o a
sminuire la responsabilità per la morte di Federico.
Avevo chiesto alla
giustizia di tutelarci ancora. In quel momento era l’unica strada,
e non me ne pento.
Sono passati due
anni dai fatti per cui ho sporto querela. Ci sono state le reazioni
pubbliche e anche quelle politiche. Però poi non è cambiato
niente.
Ho riflettuto a
lungo e ho maturato la decisione di dismettere questa richiesta alle
Procure e ai Tribunali: non perché non mi ritenga offesa da chi
ha stoltamente proclamato la falsità delle foto di mio figlio
sul lettino di obitorio, di chi ha definito mio figlio un “cucciolo
di maiale”, o da chi mi ha insultata, diffamata e definita faccia
da culo falsa e avvoltoio.
Non dimenticherò
mai le offese che mi ha rivolto Paolo Forlani dopo la sentenza della
Cassazione: è stati lui, sconosciuto e violento, ad
appropriarsi degli ultimi istanti di vita di mio figlio. Le sue
offese pubbliche, arroganti e spavalde le ho vissute come lo sputo
sprezzante sul corpo di mio figlio. E lo stesso sapore ha ogni
applauso dedicato a quei quattro poliziotti. Applausi compiaciuti,
applausi alla morte, applausi di morte. Per me non sono nulla di
diverso.
Rappresentano un
modo di pensare molto diverso dal mio.
Non sarà una
sentenza di condanna per diffamazione a fare la differenza nel loro
atteggiamento.
Rifiuto di mantenere
questo livello basato su bugie e provocazioni per ferirmi ancora e
costringermi a rapportarmi con loro. Io ci sto male, per loro –
credo di capire – è un mestiere.
Forlani e i suoi
colleghi li lascio con le loro offese e i loro applausi, magari ad
interrogare ogni tanto quella loro vecchia divisa, quando sarà
messa in un cassetto dopo la pensione, sull’onore e la dignità
che essa avrebbe preteso.
Un onore che
avrebbero minimamente potuto rivendicare se da uomini, cittadini,
pubblici ufficiali e servitori dello Stato, coloro che hanno ucciso
mio figlio e coloro che li hanno sostenuti avessero raccontato la
verità su cosa era successo quella notte, e non invece le menzogne
accertate dietro alle quali si sono nascosti prima, durante e dopo
il processo, cercando di negare anche l’esistenza di quella
mezzora in cui erano stati a contatto con Federico prima dei suoi
ultimi respiri.
Da Forlani e dai
suoi colleghi avrei voluto in quest’ultimo processo solo la
semplice verità, tutta.
Chi ha ucciso
Federico sa perfettamente quale strazio sta dando ad una madre, un
padre e un fratello privandoli della piena verità dopo avergli
strappato il loro figlio e fratello. Nessun onore di indossare la
divisa dello stato, nessun onore.
E nessun onore
neanche a chi da dieci anni cerca nella morte di mio figlio
l’occasione per dire che in fondo andava bene così: i poliziotti
non possono aver sbagliato, in fondo deve essere stata colpa di
Federico se è morto in quel modo a 18 anni.
Costruite pure su
questo le vostre carriere e la vostra visibilità. Dite pure, da
oggi in poi, che il mio silenzio è la vostra vittoria. Muscoli,
volantini, telecamere, libri, convegni e applausi. Per dire che non
c’è stato nessun problema il 25 settembre 2005. E per convincere
voi stessi e il vostro pubblico che il problema l’hanno creato
solo Federico Aldrovandi e sua madre Patrizia Moretti.
Vi esorto soltanto,
da bravi cattolici quali vi dichiarate, a ricordare il quinto
comandamento: non uccidere.
Non spenderò più
minuti della mia vita per queste persone e per i loro pensieri. Mi
voglio sottrarre a questo stillicidio: una fatica soltanto mia che
nulla aggiungerebbe utilmente e concretamente a nessuno se non alla
loro ansia di visibilità. Trovo stancante anche pronunciare i loro
nomi. Inutile commentare le loro dichiarazioni pubbliche.
A dieci anni dalla
morte di Federico per il mio ruolo di madre, ma anche per le mie
aspirazioni e per la mia attuale visione del mondo, penso che il
dedicare anche solo alcuni minuti a persone che disprezzo sia
un’imperdonabile perdita di tempo. Non voglio più doverli vedere
né ascoltare o parlare di loro.
Perciò ritirerò le
querele ancora in corso.
Non lo faccio perché
mi è venuta meno la fiducia nella giustizia, ma dieci anni sono
troppi, ed è il momento di dire basta.
Non è il perdono,
d’altra parte nessuno mi ha mai chiesto scusa, ma prendere atto
che per me andare avanti nelle azioni giudiziarie rappresenta
soltanto un doloroso e inutile accanimento.
Ritiro le querele
perché sono convinta che una sentenza di condanna non potrebbe
cambiare persone che – da quanto capisco – costruiscono la
loro carriera sull’aggressività e sul rancore.
Non ci potrà mai
essere un dialogo costruttivo, perciò addio.
Questo non significa
che verrà meno il mio impegno di cittadina per contribuire a
rendere questo paese un po’ più civile, e questo impegno mi vedrà
come sempre a fianco dell’associazione degli amici di Federico per
l’introduzione del reato di tortura e ogni altra forma di
trasparenza e giustizia.
C’è molta strada
da fare: confronti, discussioni, leggi giuste. Bisogna affrontare il
problema degli abusi in divisa in modo costruttivo.
Le parole e le
espressioni contro Federico, contro me e la nostra famiglia le
lascio alla valutazione in coscienza di chi ha avuto il coraggio di
dirle. E soprattutto alla valutazione di chi se le ricorda. Io ne
conservo solo il disprezzo.
Per me l’onore è
un’altra cosa.
L’onore appartiene
a chi ha cercato di capire, a chi ha ascoltato la coscienza e a chi
ha fatto professionalmente il proprio dovere, a chi ha messo il
cuore e l’arte oltre quel muro di gomma costruito attorno
all’omicidio di Federico, a tutti coloro che gli dedicano un
pensiero, un rimpianto, gli mandano un bacio.
Sono queste le
persone che ringrazierò sempre, è grazie a loro che Federico è
stato restituito al suo onore di figlio, fratello, amico, ragazzo
che voleva vivere, e tornare a casa.