Naria
Giuliano e Rosella Simone sono le autrici del libro intitolato La
casa del nulla (Milieu
edizioni) opera sospesa tra storia orale, letteratura carceraria,
racconto corale e antropologico. Pubblicato per la prima volta a metà
degli anni ottanta da Tullio Pironti, e riproposto in una versione
ridotta nel 1997 con il titolo "I duri", il testo ha avuto,
come i suoi autori, diverse vicissitudini, ma rimane un testo
fondamentale per capire gli anni settanta-ottanta e conserva ancora
oggi una freschezza narrativa inossidabile.
Abbiamo
rivolto alcune domande a Rosella Simone che ringraziamo.
Il
libro racconta storie ambientate nelle carceri degli anni '70, anni
difficili per il nostro Paese: qual era la popolazione carceraria
dell'epoca ? E quali relazioni si instauravano tra le mura degli
istituti?
Era
una popolazione carceraria particolare e rispecchiava, come sempre fa
il carcere, la società di allora. Nelle carceri speciali appena
istituite erano stati concentrati due soggetti diciamo
“nuovi”: ”terroristi” e rapinatori. Le istituzioni ritenevano
che le regole durissime di quel carcere (colloqui con i vetri, arie
d’aria ridotte all’osso, perquisizioni corporali….) e mettere
insieme soggetti così apparentemente diversi avrebbe creato
conflitti e piegato gli irriducibili. Non fu così. Proprio le
condizioni brutali in cui erano costretti a vivere i detenuti creò
una saldatura, una solidarietà, una amicizia, tra politici e banditi
che fece detonare il circuito carcerario italiano.
Facciamo
un paragone tra le condizioni di vita all'interno dei luoghi di
detenzione di ieri e in quelli di oggi...
Il
carcere è cambiato ma non è detto che sia sempre e solo in meglio.
La carcerazione è differenziata e c’è chi può avere accesso alle
pene alternative, andare a scuola, fare teatro e chi è chiuso
nell’orrore del 41 bis. Di recente mi sono occupata del caso di un
carcerato rinchiuso a Sulmona, Domenico Belfiore ergastolano in
carcere da 32 anni, con un tumore all’intestino che,
andato in coma, era
stato ricoverato con urgenza, operato e rimandato immediatamente in
carcere deve nel giro di pochi giorni è ritornato, ovviamente, in
coma. Fortunatamente siamo venuti a saperlo e c’è stata una
mobilitazione che ha portato alla concessione degli arresti
domiciliari. Ma quanti i casi di cui non si sa niente?
Non
sono contraria al carcere attenuato ma non posso giustificare,
neanche per un capomafia alla Reina, una detenzione che equivale, per
me, alla tortura.
Tra
l’altro è proprio questa differenziazione che crea nei soggetti
detenuti un processo di desolidarizzazione. Se io aspiro al premio (e
non dico che non sia legittimo) dovrò guardarmi da stringere
amicizie o essere solidale con chi gode fama di “cattivo”. E un
carcere dove non c’è solidarietà tra i reclusi è un carcere dove
si vive molto male.
Com'è
nata l'idea di scrivere questo libro?
E’
una storia vecchia di 30 anni. Nell’agosto del 1985 Giuliano Naria,
allora mio marito (abbiamo divorziato nel 1993), (condannato per
banda armata denominata Brigate rosse e accusato, poi assolto, del
delitto del Procuratore della Repubblica di Genova Francesco Coco)
dopo un durissimo sciopero della fame che lo aveva portato a pesare
40 chili e dopo aver scontato 9 anni e sei mesi aveva ottenuto gli
arresti domiciliari a Garlenda, un paesino dell’entroterra ligure
nella casa che era dei mia nonna e che avevo dato in uso a i suoi
genitori. Io lo avevo raggiunto lasciando Milano e il lavoro di
giornalista. Era una bella cosa ma cosa ci facevamo lì? Non ci
amavamo più così tanto da fare un figlio ma un libro forse potevamo
provare a farlo. Avevamo a disposizioni personaggi straordinari da
far impazzire di gioia qualsiasi aspirante scrittore! Giuliano era il
narratore che sa guardare il carcere con ironia e gusto del
paradosso, io l’intervistatrice. L’idea era raccontare la
brutalità del carcere ma senza piagnistei, volevamo racconti
scanzonati anche nella tragedia. Volevamo raccontare persone,
non criminali o terroristi. Persone curiose, sbruffone, prepotenti,
generose, crudeli anche e, soprattutto, non volevamo dare giudizi.
Quelli li aveva già dati la legge.
Il
testo fa fare una riflessione anche sull'utilità del carcere: qual è
la sua opinione in merito?
L’obbiettivo di
fondo per cui è stato scritto il libro è far si che chi lo legge si
chieda: a cosa serve il carcere? Credo, credevamo, che il carcere non
sia riformabili e, come da tempo insiste il mio amico Vincenzo
Guagliardo, e fortunatamente non solo lui, che dovremmo liberarci
dalla necessità del carcere.
Si
tratta di storie che, da una parte, attingono alla realtà e, da
un'altra, sono romanzate: perchè questa scelta?
Il
libro è firmato da due persone ma in realtà è un canto corale e
tutti i personaggi citati ne sono in qualche modo gli autori. E’ un
documento di storia orale, storia raccontate come intorno a un
bivacco (molti racconti sono nati all’Asinara a celle distrutte),
dove ciascuno racconta la sua di storia e magari la abbellisce,
omette, confonde. Non sono la verità ma sono più che vere.