Siamo negli Stati Uniti del sud e sta per scoppiare la Guerra Civile. Il Dott. King Schultz - un cacciatore di taglie tedesco - vuole catturare i fratelli Brittle, consegnarli alla giustizia e incassare la ricompensa. Per trovarli, ingaggia lo schiavo Django con la promessa di restituirgli la libertà, una volta compiuta la missione. Django non si tira indietro soprattutto perchè anche lui cerca qualcuno: la moglie Broomhilda, diventata a sua volta schiava di un latifondista.
Tra Django e Schultz - contro ogni previsione perchè tanto diversi - si verrà a creare un legame speciale, mentre attraversano l'America delle piantagioni che non è poi così distante dall'Occidente di oggi.
Quentin Tarantino riesce a mescolare la fiaba tedesca di Sigfrido e Brumilde con un omaggio al celebre film, Django, di Sergio Corbucci, del 1966. Contamina i generi western, epico, drammatico e - nel finale - anche horror...forse. Ma, soprattutto, riesce - con intelligenza e la sua solita ironia - a ribaltare gli stereotipi sugli africani ( e non solo) e a rendere ridicolo, inutile e folle l'impianto culturale del razzismo anche attraverso una sequenza che fa sorridere. Smonta la superiorità del Ku Klux Klan (e dei bianchi) nei confronti dei neri e dimostra, a modo suo, la gravità della violenza, in ogni epoca e in ogni situazione.
Al di là della polemica sollevata da alcuni, soprattutto dal regista afro-americano Spike Lee che - senza neanche averlo visto, ha accusato Tarantino di parlare della schiavitù in maniera banale e retorica - Django unchained restituisce allo spettatore il percorso - duro e senza sconti - di un uomo che si riprende la propria libertà e la propria dignità; che riafferma il significato dell'orgoglio di un'appartenenza; e che prepara la ricostruzione di un' identità. Ma tutto questo non appartiene solo a Django, dovrebbe appartenere a tutti, nel rispetto reciproco.