Nel
giungo 2011, 116 profughi, provenienti dalla Libia, sono stati
trasferiti in un albergo disabitato sulle Alpi, a 1800 metri. Per
mesi hanno vissuto in completo isolamento nell'attesa che venisse
riconosciuto il loro status di rifugiati. Il documentario, intitolato
Il
rifugio
di Francesco Cannito e Luca Cusani, racconta la loro vita sospesa tra
sogni e aspettative deluse ed è stato proiettato presso la sede del
Naga, a pochi giorni dallo scadere del piano “Emergenza
nord-africa” che abbandonerà per strada i profughi.
Abbiamo
rivolto alcune domande a Luca Cusani
Quando
avete girato il documentario? E come vi siete relazionati alle
persone che hanno partecipato a questo lavoro?
Abbiamo
girato dall'agosto 2011 per circa un anno perchè la vicenda è
durata a lungo e non si sapeva se, con l'arrivo dell'inverno, gli
immigrati sarebbero scesi a valle e, quando hanno cominciato a
smistarli nei paesini, a quel punto abbiamo continuato a seguirli per
vedere come andava a finire.
Erano
tutti uomini, alcuni giovani, altri con qualche anno in più; tutti
dell'Africa sub-sahariana. Alcuni erano diffidenti e chiusi, qualcuno
da subito si è messo in gioco per raccontare la propria storia e noi
abbiamo seguito chi si è dimostrato disponibile.
C'è
stato un momento di tensione perchè loro volevano andare via da lì,
ma le autorità non glielo permettevano: la nostra presenza, a quel
punto, è stata ben accetta perchè potevamo avere un effetto sulle
autorità stesse per il fatto di essere lì con le cineprese...
Perchè
il loro arrivo è stato gestito come un'emergenza?
L'interpretazione
data dalla cooperativa che si è occupata di loro è che i politici
non volevano prendersi carico di questa cosa, anzi questa ondata di
rifugiati dava fastidio e,quindi, la situazione è stata gestita in
modo tale da metterli il più lontano possibile.
Inoltre,
è stata gestita dalla Protezione Civile, secondo lo schema che
abbiamo visto anche negli anni scorsi: la cosa è stata derubricata
come “emergenza” e, quindi, gestita in maniera molto libera,
anche affidandosi ai privati. Queste persone, infatti, sono state
messe in una struttura privata che ha percepito 46 euro al giorno per
ogni profugo, per quattro mesi, con un guadagno di circa 500 mila
euro.
Per
queste persone, invece, cosa vuol dire essere “rifugiati”?
Lo
status di rifugiato permette di stare tranquilli, di avere i
documenti in regola, la protezione sussidiaria etc. Però in Italia è
difficile ottenere tutto questo: mancano le strutture e non si
effettuano inserimenti lavorativi, ad esempio.
Queste
persone sono state tenute in stand-by per più di un anno: alcuni non
hanno ottenuto i documenti, ma anche quelli che li hanno ottenuti non
hanno risolto i problemi pratici. Alcuni profughi sono rimasti in
Italia, magari grazie all'aiuto di qualche connazionale; altri sono
rimasti nella struttura di Monte Campione e dal 28 febbraio non si sa
che fine faranno; altri ancora hanno tentato di andarsene.
Perchè
molti di loro non hanno ottenuto i documenti?
Perchè
la valutazione da parte delle Commissioni considera una serie di
fattori: per esempio, se il Paese di provenienza sia effettivamente
rischioso, le storie personali, le condizioni da cui si vuole
scappare. Il tutto deve essere supportato da evidenze, da prove. E'
una strada molto stretta che tanti non riescono a percorrere.
Il
documentario fa emergere tre storie. Puoi anticiparcele?
Abbiamo
seguito, in particolare, un nigeriano che si autoproclama un
“profeta” e che, per motivi religiosi, è scappato dal Paese
percorso da grandi tensioni tra il movimento islamico e i cristiani;
un profugo del Gambia fuggito, invece, per motivi politici (in quanto
oppositore del regime), con il padre ucciso dalle autorità e lui
stesso torturato; e un altro ragazzo, sempre nigeriano, che era
approdato in Libia dove era diventato un calciatore professionista,
ma - a causa dell'esodo dopo la guerra - è arrivato in Italia,
sperando di poter ricostruirsi una vita anche grazie allo sport, e,
invece, questo non è accaduto.