giovedì 28 febbraio 2013

Il rifugio, documentario di Francesco Cannito e Luca Cusani : profughi abbandonati in alta montagna


Nel giungo 2011, 116 profughi, provenienti dalla Libia, sono stati trasferiti in un albergo disabitato sulle Alpi, a 1800 metri. Per mesi hanno vissuto in completo isolamento nell'attesa che venisse riconosciuto il loro status di rifugiati. Il documentario, intitolato Il rifugio di Francesco Cannito e Luca Cusani, racconta la loro vita sospesa tra sogni e aspettative deluse ed è stato proiettato presso la sede del Naga, a pochi giorni dallo scadere del piano “Emergenza nord-africa” che abbandonerà per strada i profughi.
 

Abbiamo rivolto alcune domande a Luca Cusani

Quando avete girato il documentario? E come vi siete relazionati alle persone che hanno partecipato a questo lavoro?

Abbiamo girato dall'agosto 2011 per circa un anno perchè la vicenda è durata a lungo e non si sapeva se, con l'arrivo dell'inverno, gli immigrati sarebbero scesi a valle e, quando hanno cominciato a smistarli nei paesini, a quel punto abbiamo continuato a seguirli per vedere come andava a finire.
Erano tutti uomini, alcuni giovani, altri con qualche anno in più; tutti dell'Africa sub-sahariana. Alcuni erano diffidenti e chiusi, qualcuno da subito si è messo in gioco per raccontare la propria storia e noi abbiamo seguito chi si è dimostrato disponibile.
C'è stato un momento di tensione perchè loro volevano andare via da lì, ma le autorità non glielo permettevano: la nostra presenza, a quel punto, è stata ben accetta perchè potevamo avere un effetto sulle autorità stesse per il fatto di essere lì con le cineprese...

Perchè il loro arrivo è stato gestito come un'emergenza?

L'interpretazione data dalla cooperativa che si è occupata di loro è che i politici non volevano prendersi carico di questa cosa, anzi questa ondata di rifugiati dava fastidio e,quindi, la situazione è stata gestita in modo tale da metterli il più lontano possibile.
Inoltre, è stata gestita dalla Protezione Civile, secondo lo schema che abbiamo visto anche negli anni scorsi: la cosa è stata derubricata come “emergenza” e, quindi, gestita in maniera molto libera, anche affidandosi ai privati. Queste persone, infatti, sono state messe in una struttura privata che ha percepito 46 euro al giorno per ogni profugo, per quattro mesi, con un guadagno di circa 500 mila euro.

Per queste persone, invece, cosa vuol dire essere “rifugiati”?

Lo status di rifugiato permette di stare tranquilli, di avere i documenti in regola, la protezione sussidiaria etc. Però in Italia è difficile ottenere tutto questo: mancano le strutture e non si effettuano inserimenti lavorativi, ad esempio.
Queste persone sono state tenute in stand-by per più di un anno: alcuni non hanno ottenuto i documenti, ma anche quelli che li hanno ottenuti non hanno risolto i problemi pratici. Alcuni profughi sono rimasti in Italia, magari grazie all'aiuto di qualche connazionale; altri sono rimasti nella struttura di Monte Campione e dal 28 febbraio non si sa che fine faranno; altri ancora hanno tentato di andarsene.


Perchè molti di loro non hanno ottenuto i documenti?

Perchè la valutazione da parte delle Commissioni considera una serie di fattori: per esempio, se il Paese di provenienza sia effettivamente rischioso, le storie personali, le condizioni da cui si vuole scappare. Il tutto deve essere supportato da evidenze, da prove. E' una strada molto stretta che tanti non riescono a percorrere.

Il documentario fa emergere tre storie. Puoi anticiparcele?

Abbiamo seguito, in particolare, un nigeriano che si autoproclama un “profeta” e che, per motivi religiosi, è scappato dal Paese percorso da grandi tensioni tra il movimento islamico e i cristiani; un profugo del Gambia fuggito, invece, per motivi politici (in quanto oppositore del regime), con il padre ucciso dalle autorità e lui stesso torturato; e un altro ragazzo, sempre nigeriano, che era approdato in Libia dove era diventato un calciatore professionista, ma - a causa dell'esodo dopo la guerra - è arrivato in Italia, sperando di poter ricostruirsi una vita anche grazie allo sport, e, invece, questo non è accaduto.