Jafar
Panahi non era presente alla 63ma edizione del Festival
Internazionale del Cinema di Berlino per la presentazione del suo
ultimo film intitolato Closed
curtain.
Il
regista iraniano de Il
palloncino bianco
e vincitore del Leone d'oro con Il
cerchio -
imprigionato nel 2010 per aver partecipato alle manifestazioni di
piazza e oggi agli arresti domiciliari con l'accusa di propaganda
antigovernativa e con il divieto, per vent'anni, di girare film, di
scrivere sceneggiature, di viaggiare e di rilasciare interviste -
torna, quindi, con un'opera presentata al pubblico di un festival
importante, sfidando le autorità.
Closed
curtain è
stato realizzato, infatti, in grande segretezza e racconta proprio la
prigionia del regista nella sua casa al mare. Nelle note di regia si
legge: “Ho scritto la sceneggiatura mentre ero molto depresso, cosa
che mi ha portato a esplorare un mondo irrazionale, lontano dalle
convenzioni”.
E,
infatti, il film del cineasta iraniano non è di facile lettura: in
una villa di fronte al mare vive un uomo (il
co-regista Kamboziya
Partovi), in
compagnia di un cagnolino saltato fuori da un borsone sigillato, è
lì dentro, ha chiuso tutte le finestre e le ha coperte con teli neri
in compagnia del suo cane e i cani, dal regime, sono considerati
impuri e, quindi, vengono spesso sterminati. Poi entrano in scena
altri due personaggi, in particolare una ragazza di nome Melika, ex
giornalista embedded con istinti suicidi inseguita dalla polizia per
aver fatto bisboccia in spiaggia con un gruppetto di amici;
scopriremo che la ragazza non esiste, è probabilmente una proiezione
dell'uomo che rimane solo, nella casa vuota. Un uomo, un artista in
esilio, con le proprie frustrazioni, con la propria rabbia, con i
propri desideri.
Un
film metacinematografico, che accumula segni simbolici ( da segnalare
l'inquadratura che apre il film) in una narrazione che si fa sempre
più ritmata e sofisticata e che fa riflettere sulla censura, sulle
pratiche di un governo dittatoriale, ma soprattutto sulla psicologia
di una persona che è costretta a dialogare con se stessa.
E
il tema della censura è stato affrontato anche da Shrin Neshat ,
presente a Berlino non come regista o videoartista, ma come giurata,
la quale ha affermato che: “ Non ci sarà una nuova generazione di
cineasti iraniani. (I registi) possono lavorare solo all'interno del
Paese, ma poi nulla riesce ad uscire fuori” . E ha aggiunto che,
comunque, il film di Jafar Panahi “verrà giudicato come opera
d'arte e non per meriti politici”.