L’autopsia
non è giunta ad alcuna conclusione. L’inchiesta israeliana non ha
rilevato segni di tortura. Saber Aloul, medico palestinese nominato
dall’Autorità Nazionale Palestinese come perito di parte, si dice
certo che la morte sia avvenuta a causa delle sevizie subite. Un
sudario di impunità pare avvolgere il corpo di Arafat Jaradat, 35
anni, detenuto palestinese morto in cella – nel carcere di Megiddo
– sabato 23 febbraio.
Era
stato arrestato lunedì scorso, a Hebron, in Cisgiordania, mentre
protestava contro l’edificazione di case per i coloni che, in
violazione del diritto internazionale, continuano a prendere la terra
dei palestinesi. Oggi, lunedì 25 febbraio, sono attesi i funerali di
Arafat e si temono scontri. Alcuni parlano di Terza Intifada, ma in
realtà la forma d protesta che ormai dilaga tra i detenuti
palestinesi è lo sciopero della fame. Ieri non meno di 4mila
prigionieri palestinesi hanno rifiutato il cibo, mentre in tutta la
Cisgiordania si moltiplicano le manifestazioni di solidarietà a
Samer Issawi e ad altri quattro detenuti che da giorni praticano lo
sciopero della fame.
Torna
alla mente uno dei film più toccanti degli ultimi anni, che forse
avrebbe meritato una riflessione più accurata: Hunger, di
Steve McQueen, interpretato magistralmente da Michael Fassbender. La
storia è quella di Bobby Sands, dell’Ira e dell’Irlanda. Ma non
è importante il dove quanto il tema, che spiega più di mille
dibattiti sugli attentati suicidi. Quando il corpo è l’arma,
quando la vita non ha più valore, si è arrivati a un punto del
conflitto che ha superato il più rischioso dei confini: quello dove
le parti in causa, reciprocamente, si disconoscono l’umanità.
Quello dove le parti, dentro di loro, non sentono più la vita come
degna di essere vissuta. La crisi economica e le rivolte arabe hanno
totalmente spento i riflettori sulla questione palestinese. La fame e
la morte, in quella terra, parlano a tutti noi, senza concedere il
lusso di guardare altrove.