Aicha è tornata , documentario diretto da Juan Martin Baigorria e Lisa Tormena, propone le testimonianze di alcuni migranti marocchini che, dall'Europa, vengono rimpatriati o per loro volontà e senza accompagnamento oppure con un percorso assistito in quanto espulsi; si parla, dunque, di "migrazione di ritorno". I registi hanno raccolto le parole (ma anche i silenzi, le lacrime, i sorrisi) soprattutto di donne, giovani e meno giovani, molte delle quali nate in Francia e in Italia che, per vari motivi, sono tornate in Marocco.
Gaia Vianello ricorda che il film è autoprodotto e si inserisce nell'ambito di un progetto di reinserimento socio-economico degli immigrati di ritorno. Uno dei tanti problemi da affrontare è stata la quasi totale assenza da parte delle donne alle attività proposte, nonostante la migrazione femminile dal Marocco sia quasi pari a quella maschile. Si è posta, quindi, l'esigenza di indagare a fondo il fenomeno per conoscere meglio queste donne.
Cosa
si intende con l'espressione "fenomeno migratorio di ritorno"?
Le
migrazioni di ritorno sono uno degli aspetti del percorso migratorio
e possono essere di diverso tipo: transitorie o permanenti,
volontarie o forzate. La distinzione fondamentale è dunque quella
tra ritorni e rimpatri, ovvero tra l’intenzionalità dei primi
rispetto all’involontarietà e coercizione dei secondi.
Dal
punto di vista del migrante che vive questa esperienza, il ritorno in
patria può essere percepito e vissuto come reinserimento e in certi
casi miglioramento della propria condizione nel paese d’origine,
oppure come perdita del proprio status precedente la migrazione.
Rispetto
alla comunità d’origine, l’esperienza del ritorno può vedere
nel migrante la figura dell’eroe, ovvero colui che avendo avuto
successo all’estero veda riconosciuto dalla famiglia e comunità il
proprio rientro come avanzamento economico, sociale e culturale. Ma
il ritorno può anche rappresentare un fallimento del progetto
migratorio, nel caso in cui le difficoltà socio-economiche
incontrate all’estero non abbiano permesso la realizzazione del
successo sperato.
Nel
caso di “Aicha è Tornata” vengono trattate le migrazioni di
ritorno femminili in una specifica area del Marocco, quella di Tadla
Azilal e Chaouia Ouardigha, che rappresenta il maggiore bacino
migratorio dal Marocco verso il sud dell’Europa, in cui la spinta
migratoria è data prevalentemente da motivi economici e di
miglioramento della qualità della vita. La maggioranza dei rientri
in quest’area non sono volontari nel senso stretto del termine, ma
nella maggior parte dei casi dovuti o ad espulsione o a motivi
indipendenti dalla volontà dei migranti di ritorno, che possono
andare dalle difficoltà economiche, alla difficoltà d’integrazione
o a problemi familiari.
Quali sono le attuali politiche europee rivolte alle persone che hanno deciso o sono state costrette a rimpatriare? E cosa si potrebbe migliorare ?
Nell’agenda
della gestione politica dei flussi migratori il tema dei ritorni
rappresenta spesso una questione centrale, obbiettivo per molti
governi, in particolare per quello che riguarda il ritorno dei
migranti illegali.
L’Italia
e l’Unione Europea hanno avviato un programma per i rimpatri
assistiti, implementato dall’OIM e da diverse ONG, che permette ai
migranti che desiderano o sono costretti a tornare in patria di avere
un’assistenza per l’organizzazione del ritorno, per il
reinserimento socioeconomico una volta rientrati, oltre ad un
incentivo economico per coprire le spese di viaggio.
Il
Programma d’Azione sul ritorno sostiene sia i ritorni volontari che
forzati di cittadini di Paesi terzi, coprendo tutte le fasi della
percorso: quella antecedente la partenza, il ritorno stesso, il
ricevimento e la reintegrazione del Paese di destinazione.
Sulla
base della mia esperienza lavorativa personale, questi programmi
hanno una loro utilità per i servizi di assistenza che offrono, ad
esempio il sostegno legale o psicologico nel paese d’origine,
rimangono tuttavia deboli nell’affrontare la causa principale per
cui i migranti hanno deciso di lasciare la loro patria, ovvero il
lavoro. Trattandosi di programmi a breve termine non riescono ad
avere un impatto efficace sul reinserimento lavorativo dei migranti e
questo rischia di innescare un circolo vizioso che porta il migrante
rientrato a voler partire nuovamente.
Da
questo punto di vista sarebbe necessario pensare a programmi sul
medio e lungo periodo, che possano prendere in considerazione tutte
le diverse tappe del percorso migratorio, con un particolare accento
sulla prevenzione e sensibilizzazione, oltre alla creazione di
possibilità alternative nei paesi d’origine, che possano
sostituirsi alla necessità di cercare altrove condizioni migliori di
vita.
Tra le storie che hai riportato nel documentario, qual è quella che ti ha colpito di più?
Le
donne protagoniste del documentario sono tutte persone che ho
conosciuto attraverso il mio lavoro di cooperante in progetti di
reinserimento socio economico dei migranti di ritorno e con le quali
sono riuscita ad instaurare, nel corso dei due anni trascorsi a
Khouribga e Beni Mellal, un rapporto di fiducia reciproca.
Le
loro storie sono per diversi aspetti tutte molto toccanti. Ne riporto
tuttavia una in particolare, che non abbiamo potuto inserire nel
documentario perché non abbiamo avuto il consenso della famiglia
della giovane donna.
All’inizio
della mia ricerca sulle migrazioni di ritorno femminili una delle
prime donne ad essermi stata presentata è una ragazza di sedici
anni, Amal.
Amal
parla un perfetto italiano con accento romagnolo, è andata in Italia
con i genitori a soli due anni, a Faenza, dov’è cresciuta, ha
frequentato le elementari, quindi le medie per poi iscriversi al
liceo.
Quando
compie quindici anni il padre decide di riportare la famiglia in
Marocco, perché sente che le sue figlie stanno perdendo la cultura
d’origine. Amal e la sorella riescono a convincere i genitori a
lasciarle lì, almeno per poter finire il liceo. Tuttavia dopo pochi
mesi le due ragazze si rendono conto che da sole è troppo dura, non
riescono a studiare e mantenersi e sono dunque costrette a far
ritorno a Beni Mellal.
Amal
parla e scrive perfettamente in italiano, ma l’arabo lo parla male
e soprattutto non sa né leggerlo né scriverlo, così non viene
ammessa al liceo. Finisce dunque a lavorare nel piccolo negozio di
alimentari dei suoi genitori, continuando a sognare di poter tornare
dai suoi amici a Faenza.
Dopo
la prima intervista ho perso di vista Amal e sono tornata a trovarla
solo dopo due anni, con l’idea di proporle di essere una delle
protagoniste del documentario una collega dell’ong marocchina con
cui lavoravamo mi ha però sconsigliato di contattare la famiglia e
andarla a trovare per evitare problemi con il padre, raccontandomi
che l’anno precedente i genitori le avevano combinato un matrimonio
con un uomo di quarant’anni che abita nelle campagna vicino a Beni
Mellal, dove Amal adesso si è trasferita.