sabato 6 aprile 2013

Come pietra paziente: dal romanzo al film





Una giovane donna e un marito inerme. Siamo in Afghanistan: lui è un mujaeddin e si ritrova in coma in seguito ad uno scontro in battaglia. Lei deve accudire a due figlie piccole, ha pochissimo denaro e, a causa della povertà, decide di affidare le bambine ad una zia che gestisce una casa di piacere.
Da quel momento la donna e l'uomo, senza nome, si trovano soli, uno a fianco all'altro; lei parla ad un corpo immobile; parole e silenzio.
La “syngué sabour”, nella tradizione popolare afghana, è la “pietra paziente”, una pietra magica alla quale si raccontano segreti, desideri, difficoltà, sogni e sofferenze: la pietra raccoglie in sé tutte queste confidenze fino a quando si frantuma. Parte da questo elemento culturale il soggetto del romanzo dello scrittore e documentarista Atiq Rahimi che ha vissuto la guerra afghana, tra il 1979 e il 1984, per poi rifugiarsi in Pakistan e vivere, oggi, in Francia.
Il titolo italiano del testo scritto è Pietra di pazienza - pubblicato da Einaudi e vincitore del Premio Goncourt - testo che è stato trasposto nel film Come pietra paziente, nelle sale cinematografiche in questi giorni. Alla sceneggiatura ha preso parte il maestro francese Jean-Claude Carriére che ha mescolato, per questo script, la sua esperienza con Bunuel, Loui Malle fino a Trueba e il suo avvicinamento alla pratica filosofica del sufismo.
La suggestione all'origine del racconto di Rahimi, oltre alla pietra paziente, è tratta dalla cronaca reale: l'assassinio, da parte del marito, della poetessa afgana Nadia Anjuman, con il rifiuto - da parte della famiglia di lei - di incontralo. La realtà si trasforma in un'opera di fantasia, delicata e poetica, veritiera e struggente, che racconta la vicenda di una giovane donna povera e di un uomo, militare ed eroe: intorno a loro, una casa disadorna, le montagne e i ricordi di una vita.
Secondo le regole della religione islamica, la moglie deve pregare accanto al corpo del marito per 99 giorni. E proprio quel periodo diventa, per la protagonista (Golshifteh Farahani, conosciuta per la sua bravura in About Elly), occasione di un viaggio nel loro Passato, nelle loro dinamiche di coppia, ma anche nella società a cui appartengono. La guerra e i talebani con la loro violenza; la famiglia del marito, orgogliosa di avere in casa un eroe, ma poco sensibile nei confronti della madre dei suoi figli; l'imam capace solo di un conforto sterile e formale.
Ma soprattutto il corpo. I corpi - di lei e di lui - sono il fulcro della narrazione: le parole sì, ci sono, ma la comunicazione passa attraverso gesti lenti o appena accennati, sguardi intensi ed emozioni trattenute. Il corpo di lei, celato sotto il burqua a proteggere una femminilità negata; il corpo di lui, fiaccato e ferito nell'orgoglio di maschio guerriero. Lui, portatore di morte; lei, tenacemente attaccata alla vita. Fino a quando, quella stessa vita ricomincerà a sbocciare, il corpo a svelarsi, le emozioni a prendere aria. Un nuovo incontro, altri gesti, nuovi sguardi per diro no alle restrizioni, alla mancanza di libertà, al sacrificio; per dire sì alla potenza della passione e della scelta consapevole.