Si
chiama Sara Mahamoud, ha 21 anni: è nata in Italia da genitori
egiziani, è musulmana e indossa il velo.
Sara
è, quindi, italiana a tutti gli effetti e anche egiziana, parla con
una certa inflessione milanese e conosce anche la lingua araba:
studia per laurearsi in Beni Culturali all'Università Statale e
vuole contribuire al suo mantenimento con lavoretti saltuari, ma ogni
volta la risposta alle sue domande di lavoro, è: “Sei molto
carina, ma se vuoi lavorare qui devi togliere il velo”.
Il
velo che indossa è l'hijab, che copre solo i capelli e lascia
scoperto il (bel) viso. Zita Dazzi ha riportato sul quotidiano La
Repubblica la vicenda della ragazza e si legge: “ L'ultimo no è
scritto nero su bianco nella mail di risposta avuta da una società
che cura eventi in Fiera, che l'ha respinta per il suo rifiuto di
togliere il fazzoletto che le copre i capelli. Sara ha così deciso
di rivolgersi a uno studio di avvocati specializzati in procedimenti
contro la discriminazione razziale e di fare causa per stabilire
quello che ritiene un suo diritto: portare il velo come prescrive la
sua religione senza essere ingiustamente penalizzata sul lavoro e
nella società”.
Il
lavoretto in questione prevedeva un'attività di volantinaggio e Sara
ha voluto mostrare, anche davanti alle telecamere di alcuni
telegiornali, le mail intercorse tra lei e i suoi possibili datori di
lavoro. “ Ciao Sara, mi piacerebbe farti lavorare perchè sei molto
carina. Ma sei disponibile a toglierti il chador?” “Ciao Jessica,
porto il velo per motivi religiosi e non sono disposta a toglierlo.
Eventualmente potrei abbinarlo alla divisa”. “Ciao Sara,
immaginavo. Purtroppo i clienti non saranno mai così flessibili,
Grazie comunque”.
A
questo punto la ragazza si è, come detto, rivolta al Tribunale di
Lodi e i suoi legali, Alberto Guariso e Livio Neri, depositeranno un
ricorso chiedendo: “ di accertare e dichiarare il carattere
discriminatorio dei comportamenti tenuti dalla società che ha negato
il lavoro alla giovane per il velo che indossa. Anche la Corte
europea ha sempre sancito che le limitazioni che incidono sulla
libertà religiosa possono essere introdotte solo a tutela dei
diritti personali altrettanto importanti, come la sicurezza o
l'incolumità personale, non certo per inseguire un presunto
gradimento della clientela”.