Pubblichiamo la seguente
lettera aperta, come suggeritoci, gentilmente, da Raffaele Taddeo,
dell'associazione “La tenda” e da Stanisic Bozidar.
Quando
non puoi cambiare la situazione lancia un sasso in mare e osserva la
moltiplicazione dei cerchi sull’acqua, forse quel movimento porterà
il tuo sussurro fino agli oceani.
“Lo
vedevo spesso nei vicoli del centro storico di Trento e in via Roma,
nella biblioteca centrale della città. La mattina andava lì, lavava
la sua faccia nel bagno, cercava un po' di calore nel profumo del
caffè e delle brioche del bar.
Gli
chiedevo: “Come stai?”. Diceva: “Dalla mattina fino alla sera
cerco lavoro senza trovare nulla, passo le notti in strada vicino
alla stazione sopra i tombini dell’areazione per non congelarmi.
Pranzo alla Caritas se arrivo in tempo”.
Poi
si è perso. Chiedevamo a chiunque, ma nessuno sapeva nulla di lui.
Un giorno abbiamo saputo che aveva richiesto asilo politico alla
Svezia. Ancora mesi di silenzio, fino a quando ci dissero che
volevano rimandarlo a Trento e che lui, per rimanere là, aveva
tentato per tre volte il suicidio nel campo rifugiati. Alla fine
l’ufficio competente svedese aveva accettato di prendere in
considerazione il suo caso”.
Scriviamo
questa lettera affinché il grido di sofferenza di un uomo sia di
invito per i nostri concittadini a pensare alla situazione di decine
di migliaia di altri esseri umani e più in generale alla condizione
del rapporto fra gli uomini del nostro tempo. Come rifugiati
politici che vivono in Italia da oltre cinque anni, siamo giunti alla
conclusione di dover impugnare la penna e raccontare di quell’uomo
indefinito: “Chi
è il rifugiato politico? Cos’è l’asilo politico? Cosa significa
chiedere quest’asilo all’Italia? Che significa per l’Italia
dare questo asilo?”. Il
rifugiato politico è l’emblema di tutte delle contraddizioni del
mondo globale. Prigioniero di due stati, quello da cui è fuggito e
quello che lo ha accolto, e di nessuna cittadinanza.
Un
uomo costretto a vivere senza volto. Un fantasma che nel migliore dei
casi trova di fronte a sé tre grandi porte chiuse. Infatti, ammesso
che il suo corpo riesca a non diventare mangime per i pesci, o a non
venir schiacciato dai camion cui si aggrappa per superare la
frontiera, o che riesca ad affrontare tutti i confini visibili e
invisibili fino ad arrivare in questa terra, una volta ottenuto
l'asilo politico trova comunque di fronte a sé tre grandi porte
chiuse.
La
prima porta. Questa porta riguarda l'impossibilità in Italia di
poter dare continuità a quell’attività politica e sociale per la
quale il rifugiato ha rischiato la propria vita e per la quale è
stato costretto ad abbandonare la terra d’origine, gli affetti e le
sue proprietà. Chi entra a far parte della categoria di rifugiato
politico non ha infatti la possibilità di continuare un’attività
che mantenga le reti create precedentemente o che gli permetta di
attivarne di nuove nel paese ospitante. Questo è il caso di
giornalisti, attivisti, avvocati, registi e studenti che non hanno
abbandonato il proprio paese alla ricerca di un miglioramento
economico, ma con l’obiettivo di perseverare nelle loro attività
politiche, sociali e culturali. Non potendo fare ciò, il loro
sacrificio, e quello degli ex colleghi, dei familiari e degli amici
rimasti nel paese d’origine, perde qualsiasi senso.
In
un paese come l’Italia, privo di una legge organica in materia,
nei migliori dei casi il rifugiato si vede costretto a vivere di
piccoli sussidi che ne permettono la sopravvivenza ma non ne
favoriscono la realizzazione personale. Si permette al corpo di
sopravvivere mentre l'anima avvizzisce. Stiamo parlando di uomini e
donne che hanno elevati titoli di studio, specializzazioni, spirito
imprenditoriale, desiderio di restituire il favore dell’accoglienza
arricchendo la società che li ospita. Persone dotate del carisma
necessario per contrapporsi a regimi dittatoriali e sanguinari e che
spesso hanno una tale forza d'animo da poter dare certamente un
prezioso contributo a qualsiasi società. Eppure ogni loro
intenzione, ogni loro energia propositiva e vitale è spenta dalla
totale insensatezza del meccanismo burocratico che “gestisce” la
loro nuova vita di non-cittadini. Un meccanismo che preferisce
elargire sussidi, trovare lavori poco decorasi ma “controllati”,
rinchiudere in alloggi “protetti” o superaffollati al permettere
un’attiva realizzazione delle proprie aspirazioni.
La seconda porta.
Questa porta è sbarrata dalla “Convenzione di Dublino” cui
aderiscono 24 paesi europei e in cui si obbliga il primo paese
ricevente a registrare le impronte digitali del richiedente e
limitarne entro i propri confini la residenza, la circolazione e il
lavoro: questo rende la condizione di asilo politico un esilio di
fatto. Un regolamento criticato fortemente sia dal Consiglio Europeo
per i rifugiati e gli esuli che dall'UNHCR in quanto incapace di
tutelare i diritti fondamentali dei rifugiati. Ed
è paradossale che in una società globale in cui tutto sembra
potersi muovere liberamente (merci, notizie, stili di vita, contenuti
culturali e mediali) le persone non abbiamo gli stessi “diritti di
movimento”. Si sente spesso dire che in questo tempo le persone
sono trattate come merci. Ma nel caso dei rifugiati politici lo
status di “persona” sembra addirittura inferiore a quello di
qualsiasi prodotto commerciale.La terza porta.
Questa porta è chiusa dall’impossibilità del ritorno in patria. I
rifugiati si trovano costretti, così, ad ondeggiare in un limbo. Un
limbo che più che una questione sociale o di dignità personale sta
sempre più diventando un metro di civiltà. Secondo recenti dati
Istat negli ultimi due anni, sul solco della crisi economica che ha
colpito l'Italia, già 800.000 immigrati hanno deciso di lasciare il
Paese per rientrare nei loro stati d’origine. E’ bene ricordare,
anche se può sembrare tautologico, che il rifugiato politico a
differenza degli immigrati non ha la possibilità di tornare nel
proprio paese di origine nemmeno quando il paese “ospitante”,
come nel caso di un'Italia in profonda crisi, versa in situazioni
economiche e sociali che non ne permettono una vita dignitosa. Ed è
soprattutto utile ribadire che sul limbo in cui fluttuano i
rifugianti politici pende una duplice condanna sancita dalle mancanze
dei governi dell’Unione Europea (Premio Nobel per la Pace 2012).
Perché duplice condanna? In primis perché fuggono da conflitti o
regimi dittatoriali direttamente o indirettamente sostenuti dagli
stessi governi europei che, in secondo luogo, non hanno attuato
politiche condivise ed efficaci per la loro accoglienza, inserimento
e valorizzazione e per il rispetto della loro dignità. Fatto
drammaticamente rilevante per l’Italia che, ad oggi, non ha ancora
espresso una benché minima legge in materia. Attualmente l’Italia
sta ospitando solo 58.000 rifugiati politici a fronte dei 570.000
ospitati dalla Germania. Eppure sembra solo quello italiano ad essere
un caso emergenziale, sebbene i numeri ne smentiscano l’intensità.
Queste
tre porte, serrate con l’efficacia del ferro e del cemento, sono
tuttavia invisibili e non servono né pugni né baionette per
aprirle. Solo poche parole d’ordine ne possono permettere
magicamente l’apertura. Parole che però possono sciogliere questo
incantesimo inumano solo se pronunciate a gran voce da tutta la
società.
Queste
parole d’ordine, che vorremmo sentire urlate a gran voce dalla
società civile e dai mezzi di informazione, altro non sono che tre
semplici provvedimenti: una legge organica per i rifugiati politici,
l’abolizione della Convenzione di Dublino e l’accelerazione dei
tempi burocratici per il diritto di cittadinanza. Senza queste tre
parole d’ordine il rifugiato politico non potrà mai trovare un
posto all’interno della società, non potrà mai conoscere i propri
diritti doveri, non potrà mai essere un attore sociale attivo, non
potrà contribuire ad arricchire la società che lo ha accolto e di
cui fa parte.
Ma rimarrà un cittadino del nulla. Senza cittadinanza altro non è
che un “fantasma burocratico” in balia del semplice e puro
assistenzialismo. Come un bambino intelligente e dotato costretto a
rimanere tutta la vita in una culla. Sempre accudito, mai adulto.
Non
potendo varcare le tre porte il rifugiato politico cade nel vuoto dei
“tombini” lasciati aperti nelle strade. Viene risucchiato dai
loro gorghi e scompare fra i rifiuti senza nemmeno passare per la
raccolta differenziata.
La
caduta passa attraverso quattro diversi gironi danteschi in cui il
rifugiato si trova ad essere risucchiato in un movimento lento,
graduale e inesorabile.
Il
primo girone è rappresentato dagli enti locali - nel caso del
Trentino dal Cinformi. Senza una legge organica il rifugiato politico
percepisce subito gli enti locali come strutture imbalsamate e inermi
di cui non è chiaro il ruolo né le direttive. Passata la fase
emergenziale dell’accoglienza immediata (fase che può durare anche
alcuni anni), il rifugiato politico viene poi spinto dagli enti
locali nella bocca del secondo girone: quello delle agenzie per il
lavoro.
In
questo girone – quello in cui i condannati sono costretti a cercare
un lavoro che non avranno mai – l’assenza della cittadinanza e
l’impossibilità di potersi muovere liberamente nei diversi stati
alla ricerca di un lavoro che corrisponda alle proprie inclinazioni
crea il più grande dei circoli viziosi: la mancanza di offerte di
lavoro dovuta alla crisi economica, infatti, obbliga
all’assistenzialismo continuo, ultima via verso il margine della
società.
Il
terzo girone passa per le infinite vie degli assistenti sociali e dei
loro tentativi di trovare alloggi protetti, case famiglia e lavori
scartati dagli italiani.
L’ultimo
girone, esaurite tutte le possibilità di inserimento, passa per il
semplice meccanismo di soddisfare i bisogni primari di sopravvivenza
presso enti legati alla Chiesa, come ad esempio Caritas.
Il
rifugiato entra così in una serie di circoli viziosi in cui ogni
emergenza ne produce un’altra peggiore. Intendiamoci, nessuno dei
livelli ha delle colpe o semplicemente delle mancanze specifiche. E'
l'intera impalcatura che non regge e che fa si che tutti navighino a
vista e nessuno sappia realmente cosa fare. Sembra infatti sempre più
evidente che nessuno dei livelli istituzionali (i gironi) sia
realmente preparato ad intervenire nella gestione di questo fenomeno
con strumenti adeguati e specificatamente studiati per i rifugiati
politici. L'intervento generico e approssimativo in realtà ne
facilita la caduta o crea nei migliori dei casi un sistema
assistenzialistico a ciclo continuo che attraverso fondi europei, o
quelli stanziati ad hoc per i casi emergenziali, arricchisce i gironi
ma non redime le anime dannate.
Alla
fine e nel fondo dei quattro gironi c’è la pace dei sensi (per le
istituzioni) e l’inferno (per i rifugiati), ovvero: l’assenza di
qualsiasi responsabilità.
Al
di là della precarietà economica, la vera caduta nel vuoto è la
fragilità mentale che consegue a tale trattamento e che, se non
conduce necessariamente alla morte fisica, ne comporta di certo una
psicologica: il rifugiato diventa un’anima morta in un corpo mobile
e la società subisce il progressivo ingrandimento di un cimitero di
corpi senza nome che camminano nella città, mangiano in chiesa e
dormono per strada. Morti viventi cui è tolta la possibilità di
creare rete e lavoro e che diventano così un pericolo per la
società, oltre che per sé stessi. Il tombino va dunque chiuso
dipingendo aperture sulle pareti. Solo attraverso una legge organica,
e quindi istituzioni adeguate, si possono rompere questi circoli
viziosi e creare uno spazio in cui l’asilo politico sia ponte tra i
beni culturali e sociali di due paesi differenti.
Per
quanto riguarda il nostro caso specifico di rifugiati politici, dopo
più di cinque anni vissuti in Trentino abbiamo iniziato ad amare
questa terra e a tessere con essa dei legami profondi. Una terra in
cui abbiamo cresciuto nostro figlio che parla e si sente in tutto e
per tutto italiano. Per lui il Trentino è il suo pianeta, la sua
famiglia allargata e la sua infanzia. E' una parte inseparabile del
suo Sé sulla quale sta costruendo l'uomo che sarà un domani.
Una
terra che inoltre abbiamo provato a vivere intensamente a livello
sociale e culturale attraverso molteplici progetti: innanzitutto il
“Progetto Afghanistan 2014” realizzato con la collaborazione del
Forum per la Pace del Trentino, di Filmwork Trento e delle Fondazioni
Fontana e Mehregan. Un progetto dai molti risvolti politici, sociali
ed economici che coinvolge importanti attori esteri e locali e che si
propone di fare del Trentino il centro internazionale di un profondo
dialogo interculturale sul futuro dell'Afghanistan ma soprattutto su
un futuro comune basato sulla cultura della pace. Altri progetti
hanno invece riguardato più strettamente la nostra attività di
registi. In questi anni abbiamo infatti prodotto e realizzato in
Trentino diversi film e portato con orgoglio il nome della Provincia
Autonoma di Trento alle oltre cinquanta proiezioni presentate
all’estero e in altre regioni d’Italia anche in occasione di
importanti kermesse
e festival internazionali. Infine, da tre anni a questa parte abbiamo
dato vita all'Associazione Sociocinema, nata in collaborazione con
alcuni studenti della facoltà di sociologia dell'Università di
Trento. Un'associazione che attraverso un workshop di cinematografia
digitale, da noi tenuto, promuove l'uso di strumenti digitali per
raccontare la realtà sociale.
Nonostante
tutto ciò, nonostante i nostri sforzi per integrarci ed essere parte
attiva del tessuto sociale che ci ha accolti, ci troviamo però nella
situazione di dover continuamente scontrarci con gli innumerevoli
ostacoli e le difficoltà che, come sopra descritto, ogni rifugiato
si trova a dover affrontare in questo paese. Difficoltà che limitano
la nostra capacità di agire in modo indipendente e di fronte alle
quali tutte le istituzioni sembrano essere impotenti. Ed è proprio
vista la mancanza di responsabilità manifestata a qualsiasi livello
dalle istituzioni e data la situazione paradossale in cui ci
troviamo, ad esempio quella di disporre di finanziamenti in Paesi
esteri cui non possiamo accedere per il semplice motivo di non
possedere una cittadinanza (finanziamenti che se sbloccati ci
permetterebbero di generare progetti e ricchezza anche per la terra
che ci sta ospitando) chiediamo la cittadinanza immediata. Una
richiesta che non deve essere intesa nell'ottica dello scontro, ma
come forma di resistenza non violenta e come strumento per poter
diventare autonomi e indipendenti rinunciando a qualsiasi forma di
assistenza. Chiediamo la cittadinanza immediata come atto d’amore
totale verso il territorio e le persone che ci hanno accolto e in cui
abbiamo investito molto, affettivamente e professionalmente. Vogliamo
continuare a farlo, con ancora maggior trasporto e sentimento, ma da
cittadini italiani.
Razi
Mohebi
Soheila
Mohebi
11 aprile 2013