“Arrivarono
di nuovo nel marzo e, a più riprese, nell'aprile del 1948, e la loro
collera crebbe per l'incredulità e l'indignazione di vedere che un
piccolo paesino di contadini e apicoltori poteva fronteggiare la
forza di fuoco delle ben addestrate Haganagh, con le loro armi
automatiche e gli aerei da combattimento contrabbandati dalla
Cecoslovacchia sotto il naso dei britannici per prepararsi alla
conquista. Durante l'ultimo attacco di aprile, cinquanta donne e
bambini di Beit Daras furono trucidati in un giorno, e subito dopo
gli uomini oridinarono alle loro famiglie di fuggire a Gaza mentre
loro rimanevano a combattere”: questo è un brano tratto dal nuovo
romanzo di Susan Abulawa, dopo il grande successo di Ogni
mattina a Jenin. Il
nuovo lavoro si intitola Nel
blu tra il cielo e il mare
(edito da Feltrinelli) e l'autrice traccia la storia della Palestina
dal '48, anno della Nakba, al 1967 fino ad arrivare ai giorni nostri,
attraverso le vicende della famiglia Baraka. In realtà, come sempre
accade nella buona letteratura, l'individuale si fa universale e le
storie dei personaggi diventano mosaico e metafora di un intero
popolo da decenni sottoposto a guerra, ingiustizia storica, realtà
economica disastrosa, situazione geopolitica svantaggiata, soprusi di
vario genere.
In
particolare il romanzo dà voce alle donne: Umm Mamduh, la matriarca
considerata folle perchè in grado di comunicare con i jiin (entità
che collegano il mondo terreno con il mondo degli spiriti), la
giovane e bella Nazmieh, assetata di vita e di libertà, la piccola e
sensibile Mariam e poi Nur. Nur è la nipote di Nazmieh: dopo aver
trascorso molti anni negli Stati Uniti, passando da una famiglia
affidataria all'altra, da grande decide di fare ritorno nella sua
terra d'origine, a Gaza. Un percorso al contrario, un nostos
che
anche noi lettori facciamo insieme a Nur, per entrare nella polifonia
di voci, parole, ricordi, avvenimenti che hanno segnato tutti:
giovani, vecchi, uomini, donne e bambini. Sì perchè la voce
narrante è quella di un bambino di dieci anni, Khaled, che sta per
entrare nel blu, in quel colore che qui rappresenta la morte perchè
lui è affetto dalla sindrome “locked in” che non gli permette di
comunicare con l'esterno. Ma restano i suoi pensieri. “Loro tre
erano le donne della mia vita, il canto della mia anima. Chi in un
modo chi in un altro, avevano tutte perso gli uomini che amavano,
tranne me. Io rimasi più a lungo che potei”, queste le parole di
apertura del testo che ci introducono nel racconto corale, un omaggio
evidente al femminino e al materno, a quella capacità di accogliere
e di prendersi cura degli altri, di tutti, incondizionatamente, a
quella forza che riconsegna alla vita. Ma non vengono trascurati gli
uomini, nella narrazione della Abulawa: vengono descritti con il loro
coraggio e la loro fierezza, nonostante le umiliazioni, il terrore,
la devastazione. E, infine, quei bambini, che se non perdono la vita,
passano attraverso i tunnel a prendere la merce di contrabbando,
trascorrono le giornate a costruire aquiloni, attendono...nella
speranza di un futuro migliore, perchè la speranza “non è un
soggetto, non è una teoria, è una dote”.
Ricordiamo
che Susan Abulawa ha preso parte alla campagna of Boycotts,
divestment and sanctions (BDS).
In una intervista ha dichiarato: “Il boicottaggio economico e
culturale è un metodo collaudato di resistenza che permette alle
persone di coscienza in tutto il mondo di impegnarsi in una lotta
morale contro le profonde ingiustizie che i leader mondiali non
riescono a correggere. Si tratta di uno spazio vitale in cui si
formano e si rafforzano forme di mutua solidarietà e in cui si
forgia una formidabile potenza dei cittadini. La Palestina non è
l'unica crisi del mondo, né la peggiore. Ma è il fulcro della
cultura e dell'egemonia imperialista, ed è l'unico caso in cui
nativi terrorizzati e brutalizzati vengono rappresentati come
terroristi sulla scena internazionale. Per questo, come ha detto
Edward Said, la Palestina è una delle grandi cause morali del nostro
tempo”.