Pubblicato grazie ad un'operazione
riuscita di crowfunding, I
muri di Tunisi. Segni di rivolta (per
Exòrma Edizioni con la prefazione di Laura Guazzone) rappresenta una
lettura originale del complesso periodo di “transizione” della
Tunisia tra la rivoluzione del 2011 e le elezioni del
2014.
L’autrice, Luce Lacquaniti, traduce e commenta le scritte e le immagini nelle piazze e nelle strade della città di Tunisi i cui contenuti sono gli stessi che vengono discussi nelle case, a scuola, nell’assemblea costituente, sui giornali, nei negozi e nei caffè.
L'Associazione per i Diritti Umani ha intervistato Luce Lacquaniti e la ringrazia molto per la sua disponibilità.
L’autrice, Luce Lacquaniti, traduce e commenta le scritte e le immagini nelle piazze e nelle strade della città di Tunisi i cui contenuti sono gli stessi che vengono discussi nelle case, a scuola, nell’assemblea costituente, sui giornali, nei negozi e nei caffè.
L'Associazione per i Diritti Umani ha intervistato Luce Lacquaniti e la ringrazia molto per la sua disponibilità.
Perché
la scelta di parlare della Tunisia di oggi attraverso le scritte e le
immagini sui muri?
La
scelta deriva in parte dalla mia formazione e in parte dalla
straordinarietà del materiale stesso in questione. Mi spiego. Sono
laureata in Lingue e civiltà orientali e sto per prendere una
seconda laurea in Interpretariato e traduzione. Quindi, di base, sono
un'arabista, con un percorso di studi soprattutto linguistico. Però
sono anche appassionata di fumetto, illustrazione e arti visive in
generale (sono diplomata alla Scuola romana dei fumetti) e, da
diversi anni, ho il pallino di leggere e fotografare le scritte sui
muri di qualsiasi città, a partire dalla mia, Roma. Infine, mi
interessa la politica in quanto cittadina del mondo, e mi interessa
la politica del mondo arabo in quanto l'ho studiato e ci ho vissuto.
In
Tunisia, in particolare, ho vissuto stabilmente nel 2012-2013 per
approfondire lo studio dell'arabo. Ma ci ero già stata nel 2010,
prima della rivoluzione (che è avvenuta tra dicembre 2010 e gennaio
2011), e ci sono tornata un'infinità di volte dal 2013 a oggi. È
stato
un periodo di particolare fermento, che si è esplicato anche sui
muri – prima della rivoluzione, essenzialmente bianchi. Il nuovo
mezzo d'espressione, quindi, ha attirato la mia attenzione sotto più
punti di vista: linguistico, artistico, politico. In particolare, una
volta tornata in Italia, riesaminando il materiale fotografato a
Tunisi, mi sono resa conto di come vi si rintracciassero tutte le
tappe della travagliata vita politica tunisina di questi ultimi anni.
Eventi, fazioni, problemi sollevati, contraddizioni. Sono convinta
che il periodo 2011-2014 in Tunisia interessi il mondo intero, perché
si tratta della cosiddetta “transizione” dopo una rivoluzione che
ha scatenato trasformazioni in un'intera area del mondo e perché,
allo stesso tempo, vi sono istanze, rappresentate in quei segni, che
sono universali. Per di più, quella che avevo tra le mani era una
documentazione dal basso, anti-istituzionale e anti-mediatica, cosa
che la rendeva, a mio parere, ancora più preziosa. Specie in un
periodo in cui sul mondo arabo-islamico si chiacchiera tanto, senza
preoccuparsi di ascoltare la voce dei diretti interessati. Tantomeno
nella loro lingua. È
così che ho pensato di corredare le foto di traduzioni e commenti e
di raccogliere tutto in un libro.
Ci
può illustrare i temi principali che vengono espressi da quei muri?
E cosa indicano le scritte a proposito delle aspettative della
società civile?
Il
libro si struttura proprio secondo i diversi temi discussi sui muri.
Il primo capitolo, ad esempio, affronta il concetto di rivoluzione e
la sua evoluzione nel discorso pubblico dei tunisini: dall'esultanza,
agli scontri ideologici, alla disillusione, alla chiamata a una nuova
rivoluzione. Una foto del 2012 che cattura scritte di diverse mani,
ad esempio, è particolarmente emblematica: a qualcuno che esclama
“Viva la Tunisia libera e democratica”, qualcun altro risponde “I
rivoluzionari dicono: non potete prenderci in giro”, mentre un
terzo chiosa “Non c'è altro dio all'infuori di Dio e Maometto è
il suo profeta”. In una sola immagine troviamo l'entusiasta, lo
scettico-antagonista e l'islamista, che inizia ad affermare la
propria presenza sulla scena politica. Altri capitoli passano in
rassegna i principali slogan del periodo e le dichiarazioni di
affiliazione politica. Un capitolo è dedicato alla questione
femminile e un altro all'islamismo, con i suoi fautori e i suoi
oppositori – e qui va ricordato che la maggior parte del periodo di
transizione del paese ha visto la guida del partito islamista
moderato Ennahdha. Altri capitoli ancora trattano i rapporti tra la
Tunisia e il resto del mondo arabo (e non arabo), e i diversi volti
della repressione: dall'odiata polizia, alla censura, al
cyberattivismo, al ruolo degli ultras nelle rivolte, alla
legge-paravento che criminalizza il consumo di marijuana per colpire
i dissidenti. Infine, i capitoli finali presentano alcuni collettivi
di writer che hanno segnato i muri di Tunisi, ciascuno dandosi uno
scopo e uno statuto ben preciso. C'è perfino chi ha scritto un
manifesto artistico, come il gruppo Ahl al-Kahf. La nascita di questi
movimenti mi sembrava qualcosa da indagare in maniera specifica.
Da
tutto questo emerge, nel complesso, una grande vitalità culturale e
la voglia di dire la propria, da parte di tutte le componenti della
società civile, nessuna esclusa. I tunisini chiedono a gran voce la
fine dell'odiosa repressione – si va dalla scritta che denuncia il
tale episodio di violenza durante una manifestazione, a quella che
chiede la verità sugli omicidi politici di Chokri Belaid e Mohamed
Brahmi del 2013; denunciano la mancanza di trasparenza delle
istituzioni – e qui si apre il discorso sulla scrittura della nuova
costituzione, nonché sulla cosiddetta “giustizia di transizione”,
legata ai processi dei martiri e feriti della rivoluzione e tema
ricorrente del gruppo di writer Molotov; infine, i tunisini chiedono
anche e soprattutto giustizia sociale, lavoro e lotta alla povertà:
il gruppo che si firma Zwewla (“i poveri, i miserabili”), ha
fatto di quest'ultimo punto la sua bandiera. Il quadro che ne esce è
quello di una rivoluzione incompiuta, ben sintetizzato dal tormentone
degli stessi Zwewla “Il povero è arrivato alla fonte ma non ha
potuto bere”. Un quadro che, in parte, si discosta dal mito a cui
ci hanno abituato, quello per cui la Tunisia sarebbe “l'unico paese
in cui la primavera araba è riuscita”.
Quali
sono i segni e le parole ricorrenti e quali sono quelle che l'hanno
colpita di più?
Tra
le parole più frequenti c'è sicuramente “il popolo”: “il
popolo vuole questo, il popolo vuole quest'altro”. Il famoso slogan
“Il popolo vuole...”, poi rimbalzato negli altri paesi arabi,
richiama un verso del poeta nazionale tunisino Aboul Qacem Echebbi.
Ma la cosa magnifica è che, sui muri di Tunisi, chiunque può
scrivere “Il popolo vuole” seguito da qualsiasi cosa e il suo
contrario. Sintomo di sano confronto: l'importante è che il popolo
continui a volere qualcosa, e soprattutto che lo dica.
A
colpire a prima vista è l'uso ricorrente di sofisticati giochi di
parole, ironia tagliente, metafore, citazioni poetiche e veri e
propri punti di riferimento estetici e filosofici, a volte
esplicitati, a volte no. Spesso scritte e disegni sono tutt'altro che
improvvisati e stupiscono per ricerca stilistica e concettuale. Tra
le frasi che mi hanno più colpito ce n'è una, scritta evidentemente
da un cittadino elettore e rivolta ai parlamentari scalatori di
poltrone: “Noi non siamo ponti da attraversare”. Indimenticabile
anche la domanda “Ci avete visti?” posta, attraverso un fumetto,
da una sagoma di manifestante in rivolta con la benda sull'occhio,
proprio sulla sede del sindacato. Si riferisce al giorno
in cui la polizia sparò
sulle teste dei manifestanti inermi della città di Siliana con
munizioni da caccia, togliendo la vista per sempre a decine di
persone. Ma, in una metafora che ribalta il concetto di cecità, qui
i veri ciechi, messi sotto accusa, sono i vertici dello Stato. E poi
uno
stencil del gruppo Ahl al-Kahf riferito all'attuale, ottantottenne,
presidente della Repubblica tunisino, Béji
Caïd
Essebsi, seppure realizzato profeticamente nel 2011: “Non posso
sognare con mio nonno”.
Cosa
è cambiato nel Paese tra il 2011 e il 2014?
Come
viene anche riflesso sui muri, la Tunisia nel 2011 e nel 2012 è
stata un'esplosione di voci, un luogo di dibattiti tra fazioni
opposte, spesso trasformatisi in accesi scontri, una fucina di
associazioni, progetti autogestiti, gruppi artistici, iniziative
culturali. Un inno alla libertà d'espressione che sarebbe stato
impensabile prima della rivoluzione, quando vigevano il partito unico
e il controllo statale su qualsiasi spazio d'azione, fisico o
virtuale. Da fine 2012 – inizio 2013 ho visto farsi strada la
frustrazione e la disillusione. Il 2013 è stato l'anno della crisi,
l'anno che ha visto, tra le altre cose, l'ascesa del terrorismo
islamico, due omicidi politici con le conseguenti crisi di governo, e
la crescente stanchezza dei tunisini nei confronti di un governo
sempre più incapace di far
fronte ai problemi socioeconomici del paese – che, nel frattempo,
aveva contratto un debito miliardario col
FMI. Il 2014 è proseguito su una scia di depressione generale e
progressiva stagnazione del dibattito pubblico. Alla paura del
fanatismo religioso e dei gruppi armati a esso connessi si è
affiancata la paura che lo stato rispondesse con la logica della
sicurezza o addirittura con una nuova svolta autoritaria. Le elezioni
del dicembre 2014 sono state boicottate dai giovani, e hanno visto
confrontarsi gli islamisti di Ennahdha con il “nuovo” partito
Nidaa Tounes, che raggruppa anche membri dell'ex-regime, e che è
attualmente al governo. Il fermento culturale degli inizi è andato
scemando. Perfino i muri stanno tornando bianchi. Come se non
bastasse, l'attentato del Bardo del marzo
2015
ha inferto un duro colpo all'economia tunisina, che tentava
timidamente di riprendersi, contando sul ritorno della stabilità
politica. I problemi che avevano scatenato la rivoluzione, ovvero la
povertà, la disparità di trattamento delle regioni interne della
Tunisia (ricche di risorse ma escluse dagli investimenti dello Stato,
e non a caso teatro della rivoluzione), la disoccupazione e la
corruzione generalizzata, non sono stati superati, anzi si sono, se
possibile, aggravati, complice la crisi finanziaria globale. In
compenso, si è acquisito un grado di libertà d'espressione mai
visto prima (pur con tutte le riserve del caso). La mia speranza è
che di questo periodo di apertura e di fermento possano fare tesoro i
tunisini, per portare avanti un cambiamento all'interno della società
dal basso, a lungo termine, e forse al di fuori delle istituzioni.