E'
giunto alla sua seconda edizione il saggio di Gianluca Solera, dal
titolo Riscatto
mediterraneo. Voci e luoghi di dignità e resistenza
(Nuovadimensione Editrice) mostra e approfondisce come, in quest'area
del mondo, sia in atto un grande cambiamento, con il tentativo di
affermare un nuovo progetto culturale, sociale e politico. Ma per
capire bene di cosa si tratti, abbiamo rivolto alcune domande
all'autore e lo ringraziamo per le sue parole.
Su quali
basi si potrebbe ipotizzare un nuovo percorso politico e sociale nei
Paesi mediterranei delle rivoluzioni?
Credo
che dobbiamo pensarci in termini transmediterranei, per costruire un
percorso politico e sociale comune verso una cittadinanza
mediterranea. Non pensiamoci come «Paesi delle rivoluzioni», da un
lato, e «Paesi della stabilità», d’altro lato; pensiamoci come
«Paesi in transizione», interessati da una crisi di Sistema
diffusa, e che hanno un’opportunità storica di costruire uno
spazio e un destino comuni, rimettendo in discussione le nostre
rispettive perifericità. Più periferie che si guardano negli occhi
e lavorano insieme ridiventano un centro. Parlare oggi di
integrazione mediterranea è
purtroppo ancora politicamente scorretto, per questo abbiamo bisogno
di partire «dal basso», attraverso iniziative cittadine che
lavorano per un Mediterraneo quale spazio di pace, sviluppo,
giustizia sociale e convivenza. Abbiamo bisogno di accordare una
tabella di marcia politica e culturale, nella quale integrare quegli
organismi e quelle iniziative associative che credono nella visione
del Mediterraneo come «casa comune». Il processo è advocacy
- oriented,
mira a coltivare una cultura di pensiero e azione comuni a tutti i
cittadini del Mediterraneo, e persegue l’obiettivo di creare una
rete della società civile trans-mediterranea, con le sue strategie e
i suoi strumenti di azione.
Qual è
il suo concetto di «dialogo»?
Per me
«dialogo» significa relativizzare le nostre identità e cercare ciò
che ci accomuna nel bene (valori comuni, buone pratiche, buone
politiche) e nel male (cause strutturali di instabilità,
ingiustizie, mali sociali atavici). Cosa voglio dire con questo? Che
un dialogo interculturale che pone al centro dell’attenzione le
nostre identità non fa altro che legittimare l’utilizzo
manipolativo delle stesse. Con
la Primavera araba ci siamo resi conto che il problema, la sorgente
delle tensioni e delle divisioni non era il fatto che fossimo
diversi, con identità religiose e culturali diverse; il problema
erano gli squilibri nelle garanzie cittadine, le differenze
nell’accesso ai diritti sociali, economici, politici e ambientali.
Ovvero, la rabbia popolare delle masse arabe e le proteste dei
giovani europei che puntavano il dito sulla crisi di legittimità del
Sistema nei loro Paesi hanno mostrato che lo scontro vero non è tra
cristiani o musulmani, secolari o religiosi, bensì tra ricchi e
poveri, potenti e oppressi. Mentre si brandiva l’arma del dialogo
tra le culture, non ci si accorgeva che la cultura si era già
decomposta. Il sociologo francese Alain Touraine lo spiega bene,
denunciando il fatto che la cultura ha perso la sua qualità di
sistema di interpretazione della realtà perché la globalizzazione
si è appropriata dello spazio tecno-economico, contribuendo a
frammentare il mondo in identità. Le culture non interferiscono più
nei termini della produzione, del consumo e della razionalizzazione
sociale, anzi, questi ultimi sembrano essere diventati la chiave
esclusiva del progresso umano. È tra «culture» che interpretano la
realtà che dobbiamo costruire il dialogo.
In quali
Paesi si riscontra un nuovo accesso ai diritti?
Sicuramente
nella Tunisia attuale, o nella Libia e nell’Egitto pre-scontro
secolari – islamici, in cui si moltiplicò
l’associazionismo e la stampa libera.
Preferirei però parlare di affermazione di una nuova «cultura
diffusa dei diritti», più che di acquisizione di un riconoscimento
giuridico-politico degli stessi, che conosce avanzamenti e
regressioni. L’idea che legalità e giustizia non sempre
coincidano ha alimentato l’affermazione di questa cultura diffusa
dei diritti, che in alcuni alcuni paesi si limita ai diritti politici
e di espressione, in altri coniuga questi con i diritti sociali,
economici e ambientali. Perfino in Siria vi è stato questo salto di
qualità, e nelle zone liberate dal regime di Damasco e non cadute
sotto l’influenza dello Stato Islamico si moltiplicano le
iniziative associative, di solidarietà e di riorganizzazione della
comunità, anche con elezioni amministrative locali. E poi la Grecia,
la Spagna, la Bosnia. Se prendiamo il partito Syriza, ad esempio,
questo è il prodotto di un tessuto di numerosissime pratiche della
solidarietà, della resistenza civile e della partecipazione dal
basso che si è diffuso negli ultimi anni in Grecia, e che ha cercato
di preservare o allargare spazi di diritto sempre più compressi
dagli imperativi dell’austerità finanziaria e della governance
verticale.
Nel suo
libro si occupa anche del tema delle migrazioni: ci può anticipare
la sua opinione ?
Sono per
l’integrazione mediterranea, e dunque per una graduale abolizione
degli ostacoli politico-amministrativi alla mobilità delle persone
nella regione. Oggi, l’Europa ha bisogno degli immigrati per
difendere l’idea originale di integrazione per un futuro di libertà
e solidarietà condiviso. Chiudendo le sue frontiere e confondendo
mezzi con fini (si vogliono distruggere i barconi senza voler
legalizzare i flussi migratori), l’Europa uccide il sogno stesso
che ha portato le sue nazioni a superare le divisioni e ad abbattere
le frontiere. Abbiamo bisogno degli immigrati per dimostrare che il
sogno europeo è capace di vincere paure ed egoismi, che siamo tutti
pronti ad un patto di solidarietà come quello sottoscritto, dopo la
caduta della Repubblica democratica tedesca, da un popolo tedesco che
era stato diviso dal Dopoguerra. E l’Italia, questo patto di
solidarietà, deve proporlo, esigerlo e costruirlo, se vuole
dimostrare di conoscere la sua storia, fatta di migranti e
viaggiatori, e di ambire a guidare una ritrovata centralità
politica, economica e culturale mediterranea, da cui il nostro Paese
non potrà che trarre motivi di riscatto dalla crisi attuale. È
questa la vera risposta da dare all’instabilità libica, alla mafia
dei barconi, alla crisi economica e alla ricerca di una vita migliore
da parte di siriani, nigeriani o subsahariani. Come gli italiani
cercarono fortuna in altri continenti partendo alla ricerca di un
lavoro, così dobbiamo noi non solo offrire corridoi sicuri per chi
fugge dal proprio paese per ragioni politiche, ma anche opportunità
di sperimentarsi nel mondo del lavoro e dell’impresa.
Al
centro del dibattito si pone, per motivi che conosciamo, la Libia:
qual è la situazione, oggi, nel Paese e quali sono le ripercussioni
per l'Europa?
Le
informazioni che ho sulla situazione locale sono spezzettate,
l’ultima volta che sono stato fisicamente in Libia è stato nel
dicembre del 2012, ma gli amici attivisti di Bengasi o Tripoli
chiedono unità e riconciliazione al di là degli interessi politici
delle parti. Sebbene il parlamento di Tobruk sia quello
legittimamente eletto alle elezioni del 25 giugno 2014, e che la
diatriba giuridica seguente attorno alla legittimità delle elezioni
è stata alimentata dalla parte perdente, i partiti di ispirazione
religiosa, non credo che riconoscere e sostenere unilateralmente a
livello internazionale una parte «laica» (l’autorità di Tobruk)
aiuti alla riconciliazione. D’altronde, alle elezioni del giugno
2014 votarono solo il 18% degli aventi diritto, dato che denotava un
generale disgusto per l’incapacità delle forze politiche di
soddisfare le aspirazioni della rivoluzione. Il ruolo di mediazione
giocato attualmente dalle Nazioni unite è essenziale. Ho
l’impressione un certo appoggio incondizionato all’autorità di
Tobruk risponda a vecchie logiche, le stesse che hanno significato in
passato cooperazione rafforzata con i dittatori arabi per proteggere
l’Europa da profughi e terroristi. Islam politico non significa
necessariamente Stato islamico o al-Qāʿeda (il Consiglio nazionale
che ha sede a Tripoli, che include i Fratelli musulmani e non
riconosce l’autorità di Tobruk, combatte contro le postazioni
libiche dello Stato Islamico); dobbiamo saper distinguere e
valorizzare il riavvicinamento tra parti politiche non legate al
regime precedente, se vogliamo assicurare un futuro democratico al
Paese e la stabilità regionale - che vuol dire anche controllo del
traffico delle armi, rispetto dei diritti umani e naturalmente
gestione razionale e condivisa dei flussi migratori. Non possiamo
capire il fenomeno dei profughi senza analizzare la decomposizione
degli Stati del pourtour
mediterraneo a causa dei violenti regimi precedenti, che hanno
lasciato in eredità società svuotate dei suoi corpi intermedi,
l’erosione strisciante della classe media, una povertà spaventosa,
lo sfacelo del sistema educativo e il fanatismo religioso.