La
lunga marcia: questo il
titolo del reportage e dello Speciale del Tg1 mandato in onda su Rai
1 lunedì 12 ottobre 2015. Un giornalista, un cameraman e una
studiosa arabista hanno viaggiato insieme ai profughi siriani nel
loro lungo, estenuante e pericoloso viaggio dal Paese in guerra al
continente della presunta salvezza.
L'Associazione
per i Diritti umani ha intervistato per voi Amedeo Ricucci e lo
ringrazia sempre per la sua disponibilità.
Il
giorno successivo alla messa in onda sulla RAI. Come si sente?
Mi sento
stanco perchè è stato un lavoro lungo, faticoso e fatto in tempi
record perchè abbiamo montato in 10 giorni, appena rientrati dal
viaggio. Ma sono anche molto felice perchè gli Speciali del TG1
hanno vinto la seconda serata con quasi un milione di spettatori.
Sono soprattutto contento del fatto che siamo riusciti nell'intento,
credo, di comunicare al pubblico le forti emozioni vissute in questo
viaggio, unico nel suo genere.
Qual è
stato il tragitto de La
lunga marcia e quali le
peculiarità di questa esperienza?
Questo
progetto è nato dal fastidio che provavo nel vedere tutti i giorni -
nei Tg, sui giornali, sui media tradizionali – news e reportage sui
migranti che arrivavano alle frontiere, e causavano problemi ai vari
Stati. L'immagine che a me restava fissa in testa era quella del
giornalista che stava in primo piano e dietro, sullo sfondo, un fiume
di profughi: i profughi erano l'oggetto della narrazione, non il
soggetto. Quindi l'idea è stata: proviamo a vedere se facendoli
diventare il soggetto, cambia il tipo di narrazione giornalistica e
se scopriamo aspetti inediti di questo fenomeno epocale. L'approccio
è stato quello di raccontarlo, per la prima volta in Italia, da
dentro, lungo un percorso iniziato dall'isola di Lesbo, seguendo il
fiume e la rotta dei Balcani, direzione Germania.
Questo
documentario può essere un'”alternativa” alle forme di
informazione tradizionali?
Grazie
alla rete, oggi, c'è una moltiplicazione delle fonti e questo ci
obbliga - come lettori, cittadini, spettatori – a confrontare più
atti di giornalismo. Il nostro è stato una forma di giornalismo
partecipativo, un punto di vista che non esaurisce il problema, ma
offre un aspetto interessante.
In che
modo avete organizzato il viaggio e come vi siete spostati da un
Paese all'altro?
Mi
riferisco proprio a questo quando parlo di giornalismo partecipativo.
Eravamo: io, Simone Bianchi (cameraman) e Silvia Di Cesare
(arabista). Attorno a noi si è mossa una serie di persone che hanno
dato un contributo in tempo reale, parlo dell'UNHCR (nella persona di
Carlotta Zami) che ci ha fornito indirizzi uitli e, in Grecia,
Alessandra Morelli che ci ha seguito con decine di telefonate al
giorno. Oltre agli aiuti istituzionali, c'è stata tutta la rete
della comunità italo-siriana alla quale attingo spesso perchè sono
persone straordinarie e di grane generosità, che mi hanno fornito
contatti e informazioni sui corridoi umanitari da seguire o da non
seguire. Una delle cose più commoventi del viaggio è che i profughi
volevano stare con noi a tutti i costi perchè avere vicino dei
giornalisti dà loro una sorta di garanzia contro i soprusi della
Polizia.
Mi fa
capire, quindi, che i soprusi ci sono?
Ho visto
abusi solo nel campo di Opatovach in Croazia, ma non metterei sotto
accusa le forze dell'ordine.
Il
problema è che il flusso migratorio è molto consistente, si parla
di migliaia e migliaia di persone che tutti i giorni attraversano le
frontiere e gli Stati, per cecità e menefreghismo, non vogliono
attrezzarsi per aiutarli. Gli Stati provano ad arginare il flusso di
profughi, a dirottarlo su strade secondarie, trattandolo come un
problema di ordine pubblico quindi, se in un campo arrivano 6.000
persone da gestire e si è in pochi, la situazione diventa difficile.
A questo si aggiunge un atteggiamento che non sempre è amichevole da
parte delle forze dell'ordine...
Come
commenta l'intervento della Russia in Siria?
Da
giornalista cerco di attenermi ai fatti: tutti coloro che hanno
vissuto il dramma della Siria fin dall'inizio, andando sul posto,
avevano subito detto che la Siria era la madre di tutti i problemi
del Medioriente, che ci fosse un risiko, un “great game” fra le
grandi potenze e che questo avrebbe provocato, in Siria,
sconvolgimenti molto più gravi di quelli che già c'erano. Purtroppo
siamo stati bravi profeti.
Il
problema della Siria poteva essere risolto 4/5 anni fa, all'epoca
delle prime manifestazioni anti-regime; ci siamo ostinati, invece, a
non intervenire, lasciando intervenire l'Iran e gli hezbollah
libanesi e adesso siamo quasi ad una terza guerra mondiale.
L'intervento
della Russia accelera la situazione ed è il segno evidente della
debolezza di Assad che, proprio dal punto di vista militare, non ce
la faceva più, sconfitto sia dai ribelli sia dagli jihadisti.
L'intervento russo dà fiato ad Assad e anche all'Isis perchè stanno
bombardando le formazioni combattenti non legate all'Isis e i
terroristi, così, possono arrivare fino ad Aleppo, come sta
accadendo.
La
lunga marcia è
servito a ribadire che i siriani non stanno scappando solo dall'Isis,
ma principalmente dal regime di Assad.