di
Enrico Calamai, Portavoce del Comitato Verità e Giustizia per i
nuovi desaparecidos
L’inizio
del 2014 è stato segnato, anche a livello mediatico,
dall’operazione Mare Nostrum, avviata dalla Marina Militare
italiana dopo la strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013 (366 morti e
20 dispersi, numero, quest’ultimo, per necessità di cose
approssimativo) e interrotta il 1 novembre 2014, con un saldo
ufficiale di 167mila vite salvate, cui sono da aggiungere, per
completezza di informazione, i 3600 morti di cui si è avuta notizia
e che hanno attribuito al Mediterraneo il poco invidiabile primato di
area di confine a più alto tasso di mortalità nel mondo.
Alla
luce dell’entità di tali cifre, appare ipotizzabile che la stima
di ventimila morti nei vent’anni antecedenti i Mare Nostrum, di cui
si è parlato finora, possa costituire una approssimazione
eccessivamente per difetto. Tanto più che ad essa andrebbero sommate
le morti avvenute nei Paesi di transito fino alle sponde africane
del Mediterraneo, di cui poco o nulla si sa.
Il
2014 è stato anche l’anno in cui ci siamo costituiti in Comitato
“Verità e Giustizia per i Nuovi Desaparecidos”, una piccola
realtà associativa aperta a familiari delle vittime, giuristi,
giornalisti ed esponenti della società civile, che si propone come
obiettivo primario di porre al più presto fine alle stragi di
migranti e richiedenti asilo.
Arrivati
a fine anno, appare opportuno tentare di tracciare un primo quadro
sia della problematica in generale, che della nostra neonata
attività.
Breve
introduzione
Negli
ultimi settant’anni la comunità degli Stati ha elaborato un
corpus giuridico in materia di promozione e tutela dei diritti
umani, che è andato acquistando peso sempre maggiore nell’ambito
del diritto internazionale. Gli stessi Stati continuano tuttavia a
calpestarli, sia a livello di politica interna, nel loro elefantiaco
funzionamento quotidiano, che nel loro operare a livello di politica
estera, con criteri ancora riconducibili alla realpolitik.
Ciò
vale anche per le cosiddette democrazie avanzate del mondo
occidentale e, in particolare, per l’Italia. E’ quanto accade,
da troppo ormai, nei confronti di richiedenti asilo e migranti che,
non dimentichiamolo, hanno anch’essi pieno titolo al rispetto dei
loro diritti fondamentali e, soprattutto, del diritto alla vita.
Furono
gli albanesi, che continuavano a sbarcare a ondate in un’Italia che
ritenevano ospitale perché democratica e ricca, i primi a subire
increduli quel mix di astuzia, pregiudizio e violenza, anche
mediatica, che sarebbe culminato nell’affondamento di un loro
barcone, con tutto il carico di umanità dolente, ad opera di una
nave della nostra Marina Militare.
Ma
sarebbe cominciata ad arrivare dal sud del mondo, a partire dalla
sponda africana del Mediterraneo, mentre Bush senior vagheggiava di
un nuovo ordine mondiale, la spinta che continuamente si rinnova e
ancora spaventa l’Europa opulenta del nuovo millennio e l’Occidente
in
generale.
Si
tratta di un portato strutturale del neoliberismo, ormai imposto a
scala mondiale e caratterizzato dall’asimmetria,
scientifico\tecnologica in primo luogo, ma di conseguenza anche
militare, economica e culturale, in cui la guerra è tornata a essere
strumento praticabile e praticato, anche da parte di Stati la cui
costituzione la ripudia.
Si
tratta dei danni collaterali di un contesto mondiale in cui le
risorse dei paesi che non si dimostrano in grado di difendere la
propria sovranità, specie il petrolio, ma domani, chissà, forse
anche l’acqua, vengono accaparrate da una parte di gran lunga
minoritaria della popolazione mondiale, per mantenere livelli di
vita, inquinamento e spreco, cui si accompagnano nel resto del mondo
miseria estrema, disastri ecologici, guerre, proliferazione nucleare
e degli armamenti in genere, migrazioni di massa e terrorismo.
Gli
interventi in Afghanistan e Iraq, in Libia, Mali e anche quello
attraverso l’opposizione in Siria, senza il quale forse l’ISIS
non sarebbe esistito, sono tasselli da mettere insieme. Ne sono
conseguenza diretta i
disperati che da mille rotte diverse puntano verso il Mediterraneo.
I
macrosoggetti
La
NATO, al punto 24 del Concetto Strategico del 1999, constatava che
” I
movimenti incontrollati di un gran numero di persone, in particolare
come conseguenza di conflitti armati, possono anche porre problemi
per la sicurezza e la stabilità, che colpiscano l’Alleanza.”
Detto
diversamente, per la più potente alleanza militare al mondo, il
fenomeno va considerato in sé e per sé, senza risalire alle sue
cause. Inutile aggiungere che, in termini militari, qualunque
fenomeno comportante problemi di sicurezza vada eliminato.
Analogo
il modo di ragionare dell’Unione europea, quando include la
cosiddetta immigrazione irregolare nell’elencazione dei pericoli
cui
l’Unione Europea ritiene di dover far fronte con la Politica di
Sicurezza e Difesa Comune, mettendola alla pari con terrorismo,
proliferazione delle armi di distruzione di massa, cyber war, etc.
Eppure,
checché sostengano questi giganti della scena mondiale, la costanza
della ragione ci evidenzia che non
siamo in presenza di un’invasione di forze ostili, bensì di un
afflusso di gruppi vulnerabili e bisognosi di protezione,
assolutamente normale nella storia e addirittura codificato dal
diritto internazionale consuetudinario, con norme che adesso si vuole
nei fatti cancellare. Un afflusso che, va aggiunto, può dimostrarsi
destabilizzante soltanto nel contesto neoliberista di una spesa
pubblica in materia sociale, che continua a venir implacabilmente
decurtata malgrado l’arrivo di nuovi possibili fruitori.
Il
modus operandi
Non
ci può sorprendere che dalle due premesse sopra riportate derivi una
trattazione sicuritaria se non manu
militari
del problema, nell’ambito del sistema difensivo integrato che i
singoli Stati appartenenti all’Ue e/o alla NATO sono chiamati a
realizzare.
Né
può meravigliarci che ognuno degli Stati membri vi si sia adeguato,
specie in una congiuntura caratterizzata da venti di guerra in Medio
Oriente e ai confini dell’ex Unione Sovietica, mediante norme in
materia di immigrazione, di difesa delle frontiere e delle acque
territoriali, di accordi bilaterali con gli Stati della sponda
africana del Mediterraneo per l’esternalizzazione delle attività
di pattugliamento e controllo, di operazioni affidate alle forze
armate e di sicurezza.
Il
problema sta nelle ricadute che l’insieme di tali attività,
commissive, omissive o permissive, comporta per i non cittadini
dell’Unione, quando a realizzarle di concerto è la totalità dei
soggetti presenti a livello regionale. Stiamo parlando dell’
operato degli Stati europei, della stessa Unione Europea e della
stessa NATO, da una parte, degli Stati africani di attraversamento e
mediterranei, dall’altra. E, per contro, della difficoltà a
comprendere la portata del problema complessivo, da parte di
un’opinione pubblica europea, frammentata dalle paratie derivanti
da media tuttora nazionali.
Stiamo
parlando di un combinato disposto che ha fatto del Mediterraneo e
dello stesso deserto che ormai possiamo considerare come gravitante
intorno, un immenso vallo, non dissimile nella sostanza alla terra
di nessuno che divideva le opposte trincee del fronte durante la I
guerra mondiale, protetto da filo spinato, mine e spuntoni di ferro,
per massimizzare il numero dei morti ad ogni tentativo di
attraversamento.
O,
se si preferisce, un tritacarne giuridico, dato che é lo sbarramento
di ogni via d’uscita legale a mettere questi disperati alla mercé
dei predoni che in Sudan danno la caccia agli eritrei in fuga da una
delle dittature più feroci al mondo, per estorcere riscatti di ogni
tipo, compreso l’espianto degli organi, o delle milizie che in
Libia utilizzano i corpi di richiedenti asilo e migranti per lo
sminamento, è tutto questo a ridurli a res
nullius,
non diversamente dagli ebrei nell’Europa occupata dai nazifascisti,
mettendoli infine in mano agli scafisti, se e quando riescono ad
arrivare al Mediterraneo. Anzi è tutto questo a produrre il lavoro
sporco di predoni, milizie e scafisti, certi, a differenza dei pirati
somali, di agire in sintonia con la volontà politica occidentale e
di poter quindi contare sull’impunità.
Ma
non basta. E’ estremamente improbabile che un barcone possa
sfuggire ai controlli incrociati continuamente in atto da parte di
aerei, droni, satelliti, elicotteri, sofisticate apparecchiature
radar , ecc. e che lo stesso accada per i gruppi che si avventurano
nella traversata del deserto nella speranza di raggiungere il
Mediterraneo. Non mancano testimonianze ad avvalorare l’ipotesi
che i medesimi vengano inquadrati, seguiti fin dall’inizio e
lasciati a percorrere fino in fondo il loro calvario, nell’ambito
di una strategia di deterrenza finalizzata a minimizzarne il numero,
nell’impossibilità di sradicare del tutto il fenomeno. Non mancano
testimonianze su gravissime omissioni di soccorso che di certo
costituiscono un illecito internazionale.
La
strategia
Il
problema
è che
per ognuno che muore, ma forse sarebbe meglio dire che facciamo
morire, tantissimi altri continuano a tentare di arrivare, costretti
alla
fuga
come sono da bombardamenti, dittature, terrorismo, catastrofi
ecologiche e miseria estrema e crisi troppo spesso da noi stessi
provocate. E allora, ecco che la frontiera viene sempre più
esternalizzata e il fronte spinto sempre più in là, ecco che
aumentano le possibilità di lucro da parte della criminalità
organizzata, in una terra di nessuno sempre più estesa e
perfezionata, fino a renderli impercettibili nella tragedia del loro
respingimento, dispersi nell’ambiente, impensabili e inesistenti
perché quod
non est in actis, non est in mundo.
Sono,
in una parola, i nuovi desaparecidos, e il riferimento non è
retorico e nemmeno polemico, è tecnico e fattuale perché la
desaparición è una modalità di sterminio di massa, gestita nel
cono d’ombra di un sistema mediatico ormai prevalentemente
iconografico, in cui si dà per scontato che tutto ciò che esiste
viene rappresentato e ciò che non viene rappresentato non esiste, in
maniera che l’opinione pubblica non riesca a prenderne coscienza,
o possa almeno dire di non sapere.
Per
la segretezza con cui era stata programmata e avviata, la Soluzione
Finale ne è stata l’antesignana, mentre la strategia dei militari
argentini ne rappresenta il più recente esempio di successo
nell’eliminazione fisica di un gruppo politico d’intralcio al
neoliberismo. Scaturisce direttamente dal cuore di tenebra del mondo
occidentale l’attuale inconfessabile ecatombe di coloro che, per
chi ci governa, altro non sono che Untermensch,.
Mare
Nostrum
Vale
la pena soffermarsi un momento sul rapporto visibità/invisibilità.
La strage di Lampedusa dell’ottobre 2013, non fu la prima né sarà
presumibilmente l’ultima di tale portata.
Essa
tuttavia riuscì a bucare lo schermo dell’indifferenza mediatica e
con lo scalpore sollevato costrinse le autorità italiane e quelle di
Bruxelles a recarsi sul posto, a vedere di persona la mostruosità
implicita in un simile spiegamento di bare, a farsi vedere mentre
vedevano e a non poter più pretendere di ignorare. La
deresponsabilizzazione poteva a quel punto essere assicurata soltanto
mediante un altrettanto percettibile agire in senso opposto. Ne
conseguì l’avviamento di Mare Nostrum, che pur con tutti limiti
inerenti un’operazione che agisce a valle delle scelte politiche
che causano il problema, ha ridato dignità alla Marina Militare
italiana, permettendole di salvare ben 167 mila vite umane in un
anno.
Questa
almeno è la cifra ufficiale, ed è da capogiro. Soprattutto pone
l’ineludibile problema di quante saranno le morti che dobbiamo
aspettarci a partire dalla fine di Mare Nostrum. Come noto, infatti,
a un anno dalla tragedia di Lampedusa il Governo italiano lo ha
cancellato, con decisione imposta malgrado il contrario avviso a più
riprese espresso dalla nostra Marina Militare e motivata con asserite
esigenze di bilancio, come se fosse lecito porre un prezzo alle vite
umane.
La
decisione sembra rispondere a preoccupazioni elettorali del
Ministro Alfano, oltre a venire incontro alle ragioni cinicamente
espresse alla Camera dei Lords dal Sottosegretario UK Mrs Joyce
Anelay, secondo la quale i salvataggi vanno bloccati perché
sortiscono l’effetto di incoraggiare altre partenze. Ma
soprattutto, a un anno delle morti di Lampedusa, tale decisione
sembra fare affidamento sul prevalere dell’indifferenza
nell’opinione pubblica, assuefatta alla sinusoide delle stragi da
un’informazione emozionale quanto ondivaga, e sulla conseguente
possibilità di lasciar ormai silenziosamente rientrare il problema
nell’invisibilità.
Ben
altra cosa sarà l’operato di Frontex e Tryton, che rappresentano
il ritorno a misure di polizia, non di salvataggio, mentre gli
interventi della nostra Marina Militare potranno aver luogo soltanto
dopo esser stata ricevuta la segnalazione di natante in avaria,
anziché con la tempestività resa finora possibile dalle
perlustrazioni sistematicamente effettuate anche fuori dalle nostra
acque territoriali.
Un’ultima
considerazione va fatta circa l’aspetto finanziario del problema,
anche se il problema non è finanziario bensì politico e prima
ancora etico.
Il
costo di Mare Nostrum ha oscillato tra i 9 e i 10 milioni di euro al
mese, per un totale annuo quindi non superiore ai 120 milioni,
presumibilmente sostenuti peraltro dalla Marina Militare con fondi
fatti gravare sul proprio bilancio, mentre l’Italia ha ricevuto
dall’Ue la cifra di 286 milioni circa per il 2014, come contributo
per le spese sostenute per l’assistenza ai profughi.
Tutt’altro
discorso andrebbe fatto per la modalità con cui questa cifra è
stata spesa, alla luce anche del recente scandalo sui rapporti tra
criminalità organizzata e politica per la gestione di questi fondi.
La
diplomazia italiana
L’Italia
appare adoperarsi a un disegno politico finalizzato a ridurre il
numero non delle morti di migranti e richiedenti asilo in generale,
ma di quelle che, avendo luogo nel Mediterraneo, possono costituire
una turbativa per l’opinione pubblica.
Nel
novembre scorso, mentre Mare Nostrum chiudeva e quando era ormai
chiaro che la Libia da noi liberata non era più in grado di svolgere
il lavoro sporco di bloccare un esodo che ha assunto proporzioni
bibliche, aveva luogo a Roma un incontro a livello ministeriale del
cosiddetto Processo di Khartoum, promosso dall’Italia in quanto
presidente Ue, con governi disparati come quello dell’Etiopia,
lacerata da movimenti indipendentisti, come quello somalo, che a mala
pena riesce a controllare il palazzo presidenziale, come il regime
eritreo, notoriamente uno dei più feroci al mondo, o il Sudan, il
cui presidente Bashir ha il dubbio onore di un mandato di cattura
dalla Corte Penale Internazionale.
Obiettivo
dichiarato di questo processo è la gestione di quelli che vengono
definiti flussi migratori , e che tali non sono, visto che di
rifugiati e richiedenti asilo prevalentemente si tratta. D’altronde,
l’unico vero motivo di convergenza può consistere nel
puntellamento di questi regimi in funzione di baluardo contro il
fondamentalismo islamico (obiettivo perseguibile anche in altri
modi), aiutandoli a porre definitivamente fine alle ondate di
disperati in fuga, che hanno raggiunto un’entità tale da mettere
a rischio la loro stabilità interna e, secondo la valutazione delle
nostre autorità, anche quella dei Paesi verso cui si dirigono per
chiedere l’asilo politico: Italia ed Ue. Evitare che partano,
evitare che arrivino, evitare che si veda e sappia ciò che accade in
scenari sempre più lontani dalle nostre oasi di benessere, renderli
sempre più impercettibili per la nostra opinione pubblica, sempre
più inesistenti nel sistema mediatico mondiale.
E,
con ciò, chiudere in una manovra a tenaglia il disegno già avviato
con il Processo di Rabat, cui fanno capo gli Stati della costa
atlantica dell’Africa, neanche essi particolarmente democratici:
non lasciare più a predoni, milizie o criminalità organizzata in
generale il lavoro sporco di bloccare i disperati alla ricerca di vie
di fuga verso libertà, democrazia e dignità, affidandolo
direttamente a governi che si suppone vi provvedano con maggior
efficienza, anche perché potranno contare sulla nostra complicità
e sul nostro supporto.
Si
tratta di un progetto politico che presenta inquietanti analogie con
il Piano Condor, attuato in America Latina, negli anni ’70 del
secolo scorso, nei confronti dei cosiddetti sovversivi che, in
sostanza, vi ostacolavano l’imposizione del neoliberismo.
Il
Comitato Verità e Giustizia per i nuovi desaparecidos
Noi
ci opponiamo a quelli che non possono che essere definiti crimini di
lesa umanità.
Sentiamo
l’urgenza di porre fine al susseguirsi di morti, presumibilmente
destinato a subire una brusca impennata con la soppressione di Mare
Nostrum e con il convergente strutturarsi dei Processi di Khartoum e
di Rabat.
Ci
siamo costituiti in associazione con la finalità di svolgere ogni
iniziativa opportuna diretta a impedire le morti nel Mar Mediterraneo
e nei percorsi verso gli Stati dell’Unione Europea dei migranti e
delle persone in cerca di asilo, ottenere il riconoscimento
dell’identità delle vittime e ricercare la verità sulla loro
scomparsa anche attraverso l’istituzione di un Tribunale
Internazionale di opinione, nonché chiedere l’individuazione e la
condanna dei responsabili ed il risarcimento nei confronti dei
familiari delle vittime nelle sedi giurisdizionali nazionali,
comunitarie, europee e internazionali.
Chiediamo
al nostro Governo e alle forze politiche presenti a livello
parlamentare sia italiano che europeo, di intraprendere i passi
necessari a smantellare la situazione di fatto e di diritto che è
causa di tali crimini e di provvedere all’apertura di canali
umanitari che permettano l’afflusso di richiedenti asilo e migranti
in pericolo di vita, facilitando il loro arrivo in Italia e/o nei
Paesi di destinazione, nella prospettiva che si arrivi al più presto
a costituire un sistema di accoglienza europeo unico, condiviso e
applicato da tutti gli stati membri dell’Unione. Chiediamo l’aiuto
della stampa più qualificata per abbattere il muro di gomma
dell’inconsapevolezza dell’opinione pubblica e avviare fin da
subito un percorso di verità e giustizia. Chiediamo a quanti si
sentano in sintonia con quanto finora espresso di contattarci al fine
di studiare qualunque forma di possibile collaborazione.
Dobbiamo
interrompere questa catena infame, porre al più presto fine a un
meccanismo che costantemente rimescola vittime e benessere,
trasformandoci in collettività subalterna e silenziosa di una
democrazia, che non può essere altro che forma vuota ove non
accompagnata da autentico rispetto dei diritti umani.