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mercoledì 22 luglio 2015

Nave di MSF non autorizzata a sbarcare 700 persone in Sicilia a causa dell’incapacità di accoglienza



La nave di MSF per la ricerca e soccorso Bourbon Argos sta ora navigando a nord della costa siciliana, in direzione Reggio Calabria, con 700 persone a bordo, dove dovrebbe approdare sabato mattina. Nonostante lunghe discussioni con le autorità italiane e gli sforzi compiuti dalla guardia costiera italiana, a causa dell’incapacità del sistema d’accoglienza, la Bourbon Argos non è stata autorizzata a far sbarcare in Sicilia le 700 persone a bordo.

Mercoledì 15 luglio, durante 6 diverse operazioni di salvataggio, la nave di MSF ha tratto in salvo 678 persone. A bordo persone provenienti da Bangladesh, Costa d’Avorio, Eritrea, Gambia, Guinea,Libia, Mali, Nigeria, Senegal e Somalia, tra le principali nazionalità.

L’équipe di MSF è stata impegnata 24 ore al giorno per fornire assistenza a chi aveva bisogno di cure mediche. La nave è sovraffollata e le persone a bordo sono sistemate sul ponte in uno spazio molto limitato” dichiara Alexander Buchmann, coordinatore per MSF della Bourbon Argos. “Nelle ultime 24 ore questa situazione ha provocato tensioni tra la persone e potrebbe causare gravi problemi di sicurezza a bordo della nave”.

Nonostante la buona coordinazione tra la guardia costiera italiana e gli sforzi del Centro di Ricerca e soccorso marittimo (MRCC), le autorità italiane non hanno autorizzato lo sbarco delle persone a bordo della Bourbon Argos in nessuno porto siciliano a causa dell’incapacità del sistema d’accoglienza. Giovedì sera, le autorità italiane hanno autorizzato lo sbarco di 150 persone su 700 nel porto di Trapani. Tuttavia, MSF ha deciso di non procedere con uno sbarco parziale perché una simile operazione, in una situazione di tale sovraffollamento, avrebbe posto seri rischi per la sicurezza. La situazione a bordo era molto tesa e molte delle persone hanno espresso la loro preoccupazione e paura di essere “riportati in Libia”.

Soltanto 7 pazienti che necessitavano di urgenti cure mediche sono stati sbarcati insieme alle loro famiglie. Tra i casi più seri: una donna adulta, trasferita dalla nave della guardia costiera italiana, soffriva di ipotensione e forti dolori addominali, e aveva bisogno di un ricovero urgente; e un bambino di 12 mesi con polmonite, febbre e difficoltà respiratorie a cui MSF ha fornito un trattamento antibiotico, ma che necessitava di un ricovero urgente per ulteriori accertamenti e cure.

Per due giorni, abbiamo cercato di capire dove ci sarebbe stato permesso di sbarcare, attraverso un coordinamento continuo con la Guardia Costiera italiana, cercando di mantenere un livello accettabile di sicurezza a bordo”, aggiunge Alexander Buchmann. “Questo ha causato gravi rischi per la sicurezza a bordo della nave, obbligando 700 persone in difficoltà a trascorrere due notti intere sul ponte della nave in condizioni molto difficili”.


Venerdì mattina, dopo lunghe trattative, la Bourbon Argos è stata diretta a Messina. Tale decisione è stata poi modificata alcune ore dopo e la destinazione finale è ora Reggio Calabria. La nave sta navigando lungo la costa settentrionale della Sicilia - in modo da mantenere un contatto visivo con la terraferma e non alimentare paure tra i migranti a bordo. L’arrivo è previsto sabato mattina presto.

La mancanza di preparazione del sistema di accoglienza italiano sta avendo conseguenze molto concrete che stiamo sperimentando in prima persona”, dichiara Loris de Filippi, Presidente di MSF Italia. “Basta un minimo problema logistico che il sistema collassa. Siamo ancora a luglio, e gli arrivi non si fermeranno molto presto. Il Ministero dell’Interno dovrebbe autorizzare lo sbarco nei porti siciliani più vicini al fine di facilitare le operazioni di sbarco e permettere alle navi di tornare il prima possibile nella zona di ricerca e soccorso

L'Ufficio Stampa di Medici Senza Frontiere



venerdì 8 agosto 2014

I diritti umani...veleggiano!



Derive, tavole a vela, catamarani e cabinati hanno viaggiato nel mare, percorrendo un tratto delimitato da due boe: è successo lo scorso 25 luglio e questa veleggiata è molto speciale.

Si è svolta, infatti, a Lampedusa, Cala Pisana e vi hanno preso parte attiviste e attivisti di Amnesty International Italia per chiedere ai leader dell'Unione Europea più garanzie nel rispetto dei diritti dei migranti, dei rifugiati e dei richiedenti asilo politico. Il motto è stato: “ Prima le persone, poi le frontiere”.

Con questa iniziativa estiva, ma efficace, Amnesty ha voluto lanciare un messaggio chiaro: non si può restare in silenzio di fronte ai continui naufragi in cui perdono la vita centinaia di persone. Nemmeno i membri degli Stati della UE può farlo.

Come abbiamo documentato già più volte con i nostri articoli e con le nostre interviste, le politiche e le prassi dell'UE su immigrazione e asilo politico hanno avuto l'effetto di spingere i migranti ad intraprendere viaggi sempre più pericolosi: L'Europa deve, invece, essere in grado di garantire a queste persone canali sicuri e legali di accesso agli Stati Membri, anche assicurando la protezione internazionale a coloro che sono costretti a fuggire dai Paesi d'origine a causa di guerre e discriminazioni.

Durante la giornata del 25 luglio, sono state raccolte le firme per chiedere tutto questo alle autorità europee, sono state approntate attività educative sul tema dei diritti umani e anche i bambini sono stati coinvolti che – con l'aiuto della scuola di vela della Lega navale italiana – hanno scritto messaggi proprio sulle vele, firmandoli con le impronte delle mani.

Sono oltre 60 gli attivisti di Amnesty che stanno prendendo parte al quarto campo sui diritti umani a Lampedusa per chiedere ai leader dell'Unione europea di fare tutto ciò che è in loro potere affinché siano evitate morti in mare e per chiedere la protezione della vita e dei diritti dei migranti e dei rifugiati alla frontiera europea. Al campo di Lampedusa prendono parte anche Hussain Majid e Said Ismal Yaccub, due rifugiati della Nigeria e del Camerun approdati a Lampedusa nel 2011 dopo un viaggio in mare dalla Libia.


venerdì 23 maggio 2014

Falcone, Borsellino e l'amore della signora Agnese






Era il 23 maggio 1992 quando un bomba fece saltare in aria l'auto su cui viaggiavano il giudice Giovanni Falcone, sua moglie, Francesca Morvillo, e i ragazzi della scorta. Dopo poche setimane, il 19 luglio, il destino era segnato anche per il giudice Paolo Borsellino e altri poliziotti che cercavano di proteggerlo.



Il nostro impegno deve essere costante nel ricordare il sacrificio di tutti coloro che hanno lottato contro la crminialità organizzata – ciascuno a suo modo – perchè queste persone hanno lottato anche per noi. Il loro impegno, quindi, deve essere anche il nostro per ripristinare la cultura della legalità, dell'onestà e della giustizia.



Ecco, quindi, che vogliamo onorare la memoria di Borsellino e di sua moglie, la Signora Agnese Piraino Leto che ci ha lasciati da poco, suggerendo la lettura del libro Ti racconterò tutte le storie che potrò, scritto dal giornalista Salvo Palazzolo con la signora Agnese, edito da Feltrinelli. Un testo importante e intimo che racconta l'etica di un uomo, ma anche l'amore di una coppia e il calore di una famiglia.

 



Abbiamo rivolto alcune domande a Salvo Palazzolo che ringraziamo di cuore per averci concesso l'intervista.


Perchè la signora Leto Borsellino ha deciso di regalare ai lettori una storia così personale?


La signora Agnese sapeva di avere un terribile male, sapeva di non avere più molti giorni da vivere. Eppure, non rinunciava a partecipare alla vita del paese. E si arrabbiava quando sentiva che i magistrati di Palermo e Caltanissetta erano minacciati con delle pesanti lettere anonime. “Non arrivano dalle celle dei mafiosi – mi disse il giorno in cui ci incontrammo, nel febbraio dell’anno scorso – ma da uomini infedeli delle istituzioni”. Ecco perché Agnese aveva deciso di scrivere, per accendere i riflettori su una situazione drammatica: “Quelle minacce puntano a creare un clima di tensione – mi disse ancora - è lo stesso clima che ho vissuto prima della morte di Paolo”. Così, iniziò il suo racconto, “il racconto delle tante vite che ho vissuto” ripeteva lei: “E’ un racconto che dovrà dare forza e speranza, perché non si ripeta più l’incubo delle stragi mafiose”.


Un romanzo, un saggio, una denuncia. Come sono stati gli anni successivi a quel tragico 19 luglio 1992?


Per Agnese Borsellino sono stati anni di grande impegno civile, per chiedere verità sui delitti di mafia rimasti impuniti. Diceva: “La verità appartiene a tutti gli italiani, ecco perché non possono essere solo i magistrati a cercarla”. Dopo quel drammatico 1992, tanto si è fatto per arrivare alla verità, ma tanto è stato ostacolato, proprio sulla morte di Paolo Borsellino e dei suoi agenti di scorta: non sappiamo ancora chi ha messo in atto quel terribile depistaggio del falso pentito Scarantino, di certo un depistaggio istituzionale che nasconde ancora alcuni degli autori della strage di via d’Amelio.


La signora parla apertamente di una telefonata di Francesco Cossiga in cui si fa riferimento ad un colpo di Stato: ci può spiegare meglio quel momento e il senso di quella telefonata?


E’ uno dei misteri che Francesco Cossiga si è portato nella tomba. Se lo chiedeva anche Agnese, e l’ha scritto nel libro: “Cosa volesse dirmi esattamente con quelle parole non lo so”. E ha aggiunto: “Però, la voce di Cossiga non la dimenticherò mai: via d’Amelio è stata da colpo di Stato, così disse. Evidentemente, voleva togliersi un peso. Dunque, qualcuno sa”. Scrive proprio così la signora Borsellino: “Qualcuno ha sempre saputo, e non parla. È un silenzio diventato assordante da quando i magistrati di Caltanissetta e di Palermo hanno scoperto ciò che Paolo aveva capito: in quella terribile estate del 1992 c’era un dialogo fra la mafia e lo Stato. Ma ancora non sappiamo in che termini, e soprattutto non conosciamo tutti i protagonisti”.


Lucia, Manfredi e Fiammetta sono i figli della signora Agnese e di Paolo Borsellino: quale il rapporto con un padre diventato, suo malgrado, un eroe civile?

Loro portano nel cuore e nella mente il ricordo di un papà premuroso, sensibile, un papà giocherellone, che amava raccontare storie sempre divertenti. Nel suo libro, Agnese ha voluto lasciarci il ritratto di una famiglia normale, che ha saputo sempre trovare dentro di sé la forza di reagire ai momenti difficili: all’inizio degli anni Ottanta, Paolo Borsellino aveva iniziato la sua vita blindata, per istruire con Giovanni Falcone e con gli altri colleghi del pool il primo maxiprocesso alle cosche. Erano gli anni in cui Cosa nostra avviava la grande mattanza a Palermo. Paolo Borsellino trovava una grande forza proprio nella sua famiglia.



Qual è l'appello che la signora Leto Borsellino ha voluto lanciare con questo libro?


Agnese ha lasciato a tutti noi un incarico importante: quello di raccontare le storie della nostra terra. Storie, come quella di Paolo Borsellino, che ha fronteggiato l’organizzazione Cosa nostra sforzandosi innanzitutto di capire le ragioni del fenomeno, che è così subdolo per le sue complicità all’interno delle istituzioni e della società civile. Agnese ci invita a raccontare le tante storie di ribellione e riscatto che ci sono nelle nostre città, storie spesso sconosciute o dimenticate. Credo che questo ci abbia voluto dire lasciandoci un grande racconto di speranza.




martedì 4 marzo 2014

Tornare a parlare di Lampedusa, tornare a parlare dei migranti




Lampedusa. Conversazioni su isole, politica, migranti”, edito dal Gruppo Abele è una lunga intervista che Qui Marta Bellingreri, scrittrice e mediatrice culturale palermitana ha fatto al sindaco di Lampedusa e Linosa Giusi Nicolini che ha presentato, ai gruppi di Camera e Senato, una proposta di legge per far nascere la “Giornata della memoria e dell’Accoglienza” dopo il terribile naufragio che ha visto morire nel “Mare nostrum” centinaia di migranti.



Abbiamo posto alcune domande all'autrice, Marta Bellingreri, che ringraziamo molto per la sua disponibilità.


Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa e Marta Bellingreri, scrittrice e viaggiatrice: com'è stato il confronto sul tema dell'accoglienza dei migranti? Quali le differenze e le similitudini tra i vostri punti di vista?


L'isola di Lampedusa è un'isola siciliana, più vicina alle coste africane che a quelle siciliane. Entrambe, io e Giusi, siamo delle isolane, siciliane, lei lampedusana, io palermitana. Quando ho conosciuto Giusi si occupava di Legambiente Lampedusa, era la direttrice della Riserva Naturale. Lei è sempre stata attiva sull'isola e quando ho messo per la prima volta piede sull'isola nella primavera del 2011, anche io ero un'attivista, non lavoravo allora per una ong, ero attivista del Forum Antirazzista di Palermo. Il nostro confronto sul tema dell'accoglienza dei migranti è stato diretto e spontaneo fin dall'inizio. Sapevamo l'una dell'altra di essere in prima fila, lei sull'isola, io nel capoluogo siciliano. C'è stata da parte mia immensa curiosità, quella del resto c'era e continua ad esserci nell'ascoltare il punto di vista privilegiato dei lampedusani tutti e dei lampedusani attivi nell'accoglienza. Forse anche lei era curiosa delle mie esperienze in paesi arabi, e ancora di più lo era nell'ascoltare la continuazione delle storie, ossia le storie delle persone transitate da Lampedusa e poi trasferite ancora, che io avevo continuato a sentire. Lo dice pure nell'intervista: non mi interessa sapere solo che lascino l'isola, mi interessa anche sapere cosa succede dopo. Non credo ci siano differenze, forse io a cause dei miei studi ho più interesse a seguire i dettagli di politica interna a paesi arabi e/o africani ed interesse dunque a suscitare attenzione di chi si occupa di accoglienza in Italia.

Lampedusa: simbolo di un'umanità da sempre in transito. Cosa racconta questa umanità di oggi?

Lampedusa è innanzitutto un'isola che ci parla di una parte d'Italia, come altre, dimenticate e che solo all'occorrenza diventa oggetto di uno show televisivo: che si tratti, tristemente, drammaticamente e consapevolmente, di tragedie; che si tratti di altro. Lampedusa chiede dei servizi e delle agevolazioni economiche per alleviare la sua posizione di confine e marginalità: la sua popolazione è la prima a migrare per motivi di studio,salute, lavoro, burocrazia. L'umanità in transito, quella delle popolazioni migranti, ci parla della povertà, della guerra di altri paesi, della forza straordinaria e del coraggio; ci porta la ricchezza e la gioia delle culture che resistono sotto le bombe o in anni di dittatura. Un'umanità che andrebbe ascoltata e lasciata sì transitare ma liberamente.

L'Italia è un Paese culturalmente aperto, pronto ad una società multietnica?


Non riesco a rispondere a questa domanda. In Italia ci sono esempi eccezionali, storie magnifiche di differenze che si integrano, di danze e musiche che si mescolano, di amori che nascono e crescono, di associazioni, librerie, musei, comuni, palestre, uffici, università, bar... insomma luoghi e case che sono sì per me l'Italia aperta, o se si vuole chiamare "multietnica". Forse siamo lontani e queste sono esperienze minori, ma sono esperienze belle, le uniche che cambieranno, per ragioni più demografiche che politiche o culturali, le leggi e l'Italia.

Cosa si dovrebbe cambiare, nella legislazione attuale, per migliorare le condizioni dei migranti e dei richiedenti asilo?

Innanzitutto le condizioni dell'attuale cosiddetta accoglienza. Anzi, prima di pensare che cosa si deve cambiare nella legislazione attuale, bisognerebbe rispettare la legislazione vigente, nazionale e internazionale, in materia di accoglienza, migrazione e asilo. Ogni giorno, in tutta Italia, e in particolare sulle coste siciliane, vengono violate le norme, privando della libertà personale adulti e minori, operando respingimenti sommari e rimpatri collettivi, non segnalando alle autorità competenti minori stranieri non accompagnati, umiliando e torturando persone che hanno come unica colpa quella di viaggiare, pur fuggendo da guerre. I luoghi di cosiddetta accoglienza sono brutti, inospitali, inadeguati, e quando sono belli e nuovi sono isolati da centri abitati, sono sperzonalizzati e spersonalizzanti, spesso gli operatori e mediatori non sono sufficientemente preparati: non parlano nessuna lingua, non hanno studiato o non si sono formati specificatamente. Anche in questo caso ci sono eccezioni straordinarie, persone di cuore e preparate, che grazie a questi ultimi due anni di "emergenza" hanno messo in discussione le proprie previe conoscenze, hanno imparato il bambarà (lingua del Mali) o il tunisino. Credo che nel sistema legislativo attuale andrebbero alleggerite tutte le norme che regolano l'ingresso e la regolarizzazione per favorire l'ingresso regolare senza rischiare la vita; per inserirsi più facilmente nel precario mondo del lavoro e senza discriminazioni; per avere la cittadinanza, per i congiungimenti familiari ecc... Tutto il sistema andrebbe rivisto in un'ottica di vera accoglienza e arricchimento del nostro paese, che non è solo nostro perché ci siamo nati.


E cosa si dovrebbe fare per "non lasciare sola Lampedusa"?


Credo che negli ultimi anni Lampedusa senta una forte vicinanza di una parte della società civile italiana che per attivismo o turismo solidale si sia recata sull'isola. Quello che è ancora insufficiente è l'intervento dello Stato, che si parli di servizi o che si parli di migrazioni. Lampedusa non è o non è più sola, secondo me, semplicemente ci sono dei momenti in cui si ritrova ad esserlo perché i problemi strutturali che non sono stati risolti, scoppiano nei momenti delle tragedie. Lampedusa non è sola se non vuole sentirsi sola e viceversa. Perché tantissime persone stanno scrivendo, animando, proponendo progetti per avvicinarsi all'isola. Dipende poi come l'isola voglia o possa rispondere.




venerdì 10 gennaio 2014

L'inferno degli stagionali



Grazia Bucca

Un reportage importante, quello di Grazia Bucca, che ritorna sul problema, ancora irrisolto, dell'accoglienza dei migranti, delle loro precarie condizioni di vita e di lavoro, spesso chiamati a prestare le loro braccia e le loro schiene “ a cottimo” , per pochissimi euro e tante ore di fatica, nei nostri terreni agricoli. Le fotografie sono di Grazia Bucca - fotoreporter, redattrice della newsletter ArcireportSicilia, collaboratrice de Il Manifesto e dell'agenzia Studio Camera di Palermo - e, come spesso accade, le sue immagini parlano più di mille parole, colpiscono gli occhi e dovrebbero mettere in moto il pensiero critico, soprattutto di chi si occupa delle politiche migratorie, sempre più contingenti ed emergenziali.



Il reportage, dal titolo L'inferno degli stagionali, è stato trasmesso durante la trasmissione Mediterraneo, in onda su Rai3, nella puntata n.12 del 22 dicembre 2013.   

Grazia Bucca



Abbiamo intervistato la fotografa Grazia Bucca che ringraziamo tantissimo per averci dedicato tempo e per gli scatti che ci ha permesso di pubblicare.



Come si è preparata per entrare nel campo di Campobello di Mazara? E ha incontrato difficoltà burocratiche per poter realizzare il reportage?


L'idea del reportage è nata per documentare le condizioni del campo dei migranti stagionali, impegnati nella raccolta delle olive nel territorio di Campobello di Mazara (TP).

Non conoscevo questa tragica realtà finché non ho avuto la notizia della morte di Diallo Ousmani, ragazzo senegalese di 26 anni, arrivato in Sicilia in cerca di lavoro, e che proprio in quel campo ha trovato la sua tragica fine. Rimasto gravemente ustionato nell'incendio della baracca nella quale alloggiava, è morto all'ospedale civico di Palermo, domenica 20 ottobre 2013 dopo quasi 10 giorni di agonia. 
Grazia Bucca

Per la realizzazione del reportage non ho riscontrato alcuna difficoltà burocratica. Il campo sorgeva alla periferia del centro abitato, ai bordi di una trafficata contrada comunale, quindi un luogo facilmente raggiungibile.


Il titolo del lavoro contiene la parola "inferno": perchè?

Inferno perché, vedere esseri umani vivere in quelle condizioni, senz'acqua corrente, né luce elettrica, né servizi igienici, in ripari di fortuna, costituiti da piccole tende da campeggio, baracche improvvisate, costruite con blocchi di cemento, assi di legno, lastre di eternit, cartoni e teli di plastica messi insieme alla meno peggio, mi ha dato la sensazione di un vero e proprio inferno, di qualcosa di orribile, di disumano.

Cosa ha voluto denunciare precisamente con questo suo lavoro fotografico? E di cosa necessitano i lavoratori migranti?

Ho voluto denunciare, non solo le condizioni di vita alle quali sono costretti molti migranti che approdano in questo paese nella speranza di una vita diversa, ma anche le condizioni di sfruttamento che vivono i lavoratori, stretti nella morsa del caporalato, del lavoro nero, del ricatto, della violenza, della miseria, senza tutela alcuna. I terreni di Campobello ricadono nel territorio controllato dal boss mafioso Matteo Messina Denaro. Non è quindi inverosimile ipotizzare che queste condizioni, passatemi l'espressione anche di schiavitù, vengono determinate dalla mafia, che impone turni massacranti e l'irrisorio pagamento di 3-3,50€, per cassetta di prodotto raccolto.

Qual è stata la reazione degli stagionali davanti all'obiettivo della macchina fotografica ? Le hanno raccontato le loro storie?

Ovviamente non tutti i lavoratori hanno voluto essere ritratti. Non erano felici delle loro condizioni. Molti provavano un forte senso di vergogna ed imbarazzo per come stessero vivendo e grande era la paura che le foto in qualche modo potessero arrivare nei loro paesi di origine, agli occhi dei propri familiari.

Dopo un primo momento di imbarazzo altri invece hanno voluto farsi ritrarre senza alcun problema, ma tutti sono stati disposti a raccontare la loro storia.
 
Grazia Bucca


Grazia Bucca

venerdì 27 dicembre 2013

Quelle bocche cucite

 
Foto Ansa
 
Senza parole. Basta parole, vogliamo i fatti. Forse con queste frasi si può interpretare la scelta di cucirsi, letteralmente, le labbra; una scelta effettuata da dieci immigrati - sei marocchini e quattro tunisini - rinchiusi nel Centro di Identificazione e di Espulsione di Ponte Galeria, nel Lazio, come forma di protesta per le condizioni in cui si trovano e anche per la scomparsa, da parte di uno di loro, dei soldi inviati alla famiglia in Tunisia mentre si trovava in carcere, a Civitavecchia.
Foto Ansa
E' vero: alcuni immigrati sono stati in prigione, ma dopo aver espiato la pena sono stati di nuovo rinchiusi nel CIE. Per questo motivo il Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, ha rilasciato un comunicato in cui chiede il superamento dei CIE e nuove procedure per il rientro nei Paesi d'origine per i migranti detenuti.
Il Garante si riferisce alla possibilità del rimpatrio volontario assistito (RAV) che dovrebbe essere finanziato dal Ministero dell'Interno, un progetto che prevede - per chi sceglie di tornare in patria al termine della pena - di intraprendere un percorso assistito basato su tempi certi e senza passare di nuovo per il CIE dove i migranti vengono identificati. Invece “l'introduzione di un meccanismo di identificazione già in carcere”, sostiene  Marroni, “è la premessa per permettere ai detenuti stranieri di scontare la loro pena nel Paese d'origine”.
Foto Ansa
Il Direttore del Centro, Vincenzo Lutrelli, afferma che la situazione è sotto controllo, anche se uno dei migranti con le labbra cucite si è sentito male e altri 37 stanno facendo lo sciopero della fame.
Un ultimo episodio di disperazione, inoltre, si è verificato lunedì scorso, quando un urlo improvviso è salito dal reparto donne del centro, dove si trovano circa trenta persone. Una giovane tunisina voleva togliersi la vita, impiccandosi con un lenzuolo. Lei e il suo compagno, arrivati a fine novembre a Lampedusa, avevano appena ricevuto il rigetto della loro richiesta di asilo politico. Lutrelli ha parlato con la donna, le ha fatto incontrare il compagno ed è riuscito a farla desistere dal suo intento suicida. Ma per quanti richiedenti asilo la situazione potrebbe degenerare?
Intanto, in questi giorni, un altro gesto, un'altra scelta significativa: quella del deputato Pd, Kalid Chaouki, che si era rinchiuso nel centro di Lampedusa per chiederne la chiusura dopo la vergogna dei migranti “disinfettati” con un getto d'acqua gelata, in pieno inverno, all'aperto e privati degli abiti. Il giorno della vigilia di Natale sono cominciati i trasferimenti degli immigrati verso altre strutture.
Il ministro per l'integrazione, Cècile Kyenge, ha così commentato le notizie  che arrivano dai CIE: “Gli ultimi fatti confermano la necessita’ di modificare un sistema che ha portato tensioni e difficolta’ all’interno dei centri”, impegnandosi a ripensare e migliorare, 'di concerto con il Governo', le misure di accoglienza”, mentre i migranti di Ponte Galeria scrivono a Papa Francesco, appellandosi al suo senso di giustizia.
 
 
 

giovedì 26 dicembre 2013

Parlare di mafia e sorridere: si può


Parlare di mafia, sorridere e commuoversi: è possibile. E' riuscito a farlo Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif - ex del trio de Le Iene, celebre trasmissione televisiva di Italia 1, ma anche aiuto regista di Marco Tullio Giordana in quel capolavoro de I 100 passi (sulla vicenda di Peppino Impastato) di cui La mafia uccide solo d'estate è come un fratello cinematografico.
Diliberto è cresciuto professionalmente e ha deciso di mettersi dietro la cinepresa per raccontare la mafia attraverso gli occhi di un bambino, Arturo, e con il registro della commedia che, spesso, durante la narrazione, porta al sorriso.
Nato a Palermo, Arturo è stato concepito lo stesso giorno in cui venne ucciso Michele Cavataio per mano di Riina, Provenzano, Bagarella e da due affiliati della famiglia Badalamenti, tutti travestiti da militari della Guardia di Finanza. 

Sono gli anni in cui la mafia abbatte quegli eroi contemporanei che hanno lottato fino all'ultimo per sconfiggerla, in una città omertosa, impaurita o rassegnata. E il piccolo Arturo, che cresce in questo ambiente complesso e contraddittorio dove alcuni sono gentili e altri spietati, vuole incontrare chi sta dalla parte giusta come il commissario Boris Giuliano o il Generale Dalla Chiesa. L'unico che non riesce ad incontrare è il Presidente del Consiglio, che in quegli anni era Giulio Andreotti, ma che dallo schermo televisivo gli impartisce una lezione sentimentale. Sì, perchè il nostro giovane protagonista è da sempre innamorato di Flora che vede come una principessa fin dai tempi delle elementari.
Passano gli anni, i bambini crescono e Arturo coltiva la passione per il giornalismo; non riesce ad essere molto diverso da quella comunità che non vuole ribellarsi al malaffare. Ma, nel '93, qualcosa cambia. Cambia per Arturo e Flora, cambia per Palermo, cambia per l'Italia intera: l'uccisione dei giudici Falcone e Borsellino squarcia le coscienze e riconsegna la voglia di dire “no” alla violenza e all'ingiustizia. E dal sorriso si passa alla riflessione. 
Un viaggio lucido, a tratti anche divertente, in un Paese-bambino che, forse, un po' negli anni è cresciuto: come il protagonista, infatti, anche gli italiani hanno acquisito lucidità e fermezza nell'affrancarsi dalla cultura della prevaricazione e delle minacce per desiderare riaffermare i valori dell'onestà e dell'amore, quello autentico e pulito. Pif, anche lui palermitano, guarda con disincanto la propria terra, ma le attribuisce la capacità di riscattarsi grazie al ricordo e all' esempio di tante persone cadute per lasciare a tutti noi un futuro limpido e rassicurante. Arturo legge le targhe con i nomi di quelle persone, uomini e donne, giovani e meno giovani, che hanno perso la vita in nome della libertà, della giustizia, del rispetto e della legalità. Quelle targhe che devono essere un monito quotidiano per il nostro impegno a fare altrettanto.

Il film lLa mafia uccide solo d'estate è ancora proiettato nelle sale cinematografiche italiane e presto uscirà in DVD.


  

lunedì 2 dicembre 2013

Beni confiscati alle mafie: un viaggio per il diritto alla vita e per la tutela della legalità




La villa di Tano Badalamenti a Cinisi.la reggia di "Sandokan" Schiavone a Casal di Principe, l'enclave dei Casamonica nella periferia romana, perfino una residenza principesca a Beverly Hills, proprietà di Michele Zaza, 'o Pazzo, re del contrabbando. E poi cascine di 'ndrangheta in Piemonte, tenute in Toscana, castelli, alberghi, discoteche, campi di calcio, maneggi: uscito da qualche mese per Chiarelettere, “Per il nostro bene. La nuova guerra di liberazione. Viaggio nell'Italia dei beni confiscati” - un saggio scritto da Alessandra Coppola e Ilaria Ramoni - è un reportage tra le fortezze espugnate a quella mafia che ha fatto la storia, e che ancora soffoca il Paese. Questo libro racconta cos'erano e cosa sono diventate.
Tra ostacoli di ogni tipo, terreni occupati, edifici distrutti, una legislazione carente, amministratori pavidi, funzionari di banca che concedono mutui ai clan per aiutarli a "salvare" il patrimonio: un terzo delle case sottratte ai mafiosi e non assegnate è gravato da ipoteche, inutilizzabile. Per non parlare delle aziende, quasi tutte, che nel passaggio dalla criminalità organizzata allo Stato falliscono. C'è un'Agenzia nazionale che gestisce e destina i beni sequestrati e confiscati: trenta dipendenti in tutto, zero risorse, rischia lo stallo. Ma questo libro racconta anche le vicende di tante persone che, con intelligenza, determinazione e onestà, hanno tentato di far rinascere la vita sulle macerie di morte, ricatti e minacce.


Abbiamo rivolto alcune domande ad una delle autrici, l'avvocato Ilaria Ramoni, che ringraziamo di cuore per questo importante racconto che ci anticipa l'inchiesta riportata nel saggio.


Quando è partita la vostra inchiesta? E perchè avete sentito l'urgenza di raccontare questo viaggio nell'architettura che ha segnato la presenza mafiosa su tutto il territorio italiano (e non solo)?

Il lavoro sul campo è durato circa un anno e mezzo. Io da molti anni mi occupavo di beni confiscati a diverso titolo, sia come avvocato che come referente di Libera, e sentivo forte l’esigenza di raccontare cosa funziona e cosa non funziona nel procedimento di confisca e di riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie. Strumento potentissimo di contrasto alla criminalità organizzata ma non sfruttato appieno. L’incontro con Alessandra, giornalista del Corriere della Sera, ha segnato però la svolta perché ha voluto raccogliere quella che ritengo essere una vera e propria sfida, ovvero quella di scrivere di tematiche particolarmente complicate in modo narrativo ma scientificamente corretto. L’aspetto maggiormente innovativo di questo libro è infatti proprio questo, la narrazione, il racconto del nostro viaggio. E questo è decisamente merito di Alessandra.


Potete fare alcuni esempi di edifici che hanno, finalmente, subìto una trasformazione: da edifici della criminalità a spazi pubblici, utili per il bene comune? E chi sono le persone che hanno reso possibile questo “miracolo”?

Di esempi ce ne sono diversi. Il primo però è sicuramente quello relativo all’esperienza di Libera Terra con riferimento ai terreni confiscati. Qui i ragazzi delle cooperative sono stati veramente capaci di trasformare il bene confiscato in una opportunità di lavoro e di riscatto per tutto il territorio. Ed ora, vino e pasta prodotti in Sicilia, Calabria, Puglia e non solo vengono addirittura esportati all’estero e quindi possiamo trovarli sulle tavole di tutto il mondo. Quello che per Pio La Torre era forse solo un sogno ora è realtà concreta.
Poi ci sono gli esempi di Cascina Caccia in Piemonte, bene confiscato alla ‘ndrangheta dei Belfiore e dedicato al magistrato che uccisero, dove ora si produce miele e torrone ed è diventato un vero e proprio spazio aperto alla collettività dove si coltiva la prossimità e la vicinanza tra le persone. Anche a Milano un appartamento confiscato all’ndrangheta ora è sede di un centro residenziale per anziani indigenti gestito direttamente dal Comune di Milano. Sono solo alcune delle esperienze magnifiche che il nostro Paese ha saputo mettere in campo cogliendo al massimo le opportunità offerte dalla legge Rognoni-La Torre e dalla legge 109 del 96 che permette il riutilizzo sociale dei beni confiscati. Ma c’è ancora tantissimo da fare perché purtroppo le esperienze fallite o in qualche modo bloccate sono veramente ancora troppe.


Nel libro parlate della villa di Tano Badalamenti, a Cinisi, il paese di Peppino Impastato: Impastato, i giudici Falcone e Borsellino, il giornalista Giancarlo Siani, il generale Dalla Chiesa, Don Puglisi e, purtroppo, molti altri sono stati uccisi perchè volevano riaffermare la giustizia e la legalità, ma anche perchè sono stati lasciati soli: c'è il rischio che questo accada ancora?

Purtroppo il rischio c’è sempre così come c’è ancora il rischio che siano proprio gli amici che dovrebbero sostenerti a lasciarti solo per primi. Spesso i personalismi e le invidie fanno molto in questo processo di graduale isolamento e abbandono su cui poi le mafie trovano terreno fertile.
Credo però che rispetto a quegli anni qualcosa sia cambiato in meglio. C’è una società civile maggiormente attenta che ha meno paura di schierarsi a tutela di chi la criminalità la combatte tutti i giorni. E questo anche grazie ad antecedenti storici come quello dei lenzuoli bianchi a Palermo, dell’associazionismo anticamorra a Napoli, di studenti ed insegnanti da sempre in prima linea.

Le istituizoni che soluzioni propongono, oggi, in tema di lotta alla mafia e di confisca dei beni?

Le soluzioni proposte sono ancora di carattere troppo emergenziale e troppo poco strutturale. Abbiamo una buona legislazione antimafia a cui però dobbiamo dare gambe e risorse per essere veramente efficiente ed efficace. La cartina torna sola di tutto questo è proprio l’Agenzia nazionale per i beni confiscati. Organismo unico fortemente voluto da tutti gli operatori del settore e istituito nel marzo del 2010 ma che dopo una forte spinta politica iniziale ad oggi rischia la paralisi. Nonostante tutti sono convinti che sia una ottima esperienza da mantenere e potenziare perché potrebbe segnare la svolta nella lotta alla criminalità organizzata nel nostro Paese, ad oggi si avverte una preoccupante e perdurante mancanza di risorse e, forse, al di là delle parole, anche una scarsa volontà politica di farla funzionare.

lunedì 11 novembre 2013

Dove accogliere i migranti




All'inizio del mese di ottobre erano 52 i migranti di origine somala, eritrea e nigeriana arrivati in Sicilia, in Italia per chiedere asilo politico e in cerca di salvezza a causa delle guerre civili e della violenza che regnano nei loro Paesi di provenienza.
Oggi sono più di 180. E sono stati “parcheggiati” all'interno del Pala Nebiolo dell'Annunziata, a Messina. Non si esclude che, nei prossimi giorni o nelle prossime ore, arrivino altri immigrati per cui le autorità stanno valutando l'ipotesi di preparare una tendopoli nel campo da baseball accanto alla palestra.

Questa decisione ha fatto scattare la protesta di molte associazioni, oltre che di una buona parte della società civile. Durante lo scorso week end è stato, quindi, organizzato un sit-in davanti alla Prefettura ed è stata scritta una lettera aperta indirizzata al sindaco, Renato Accorinti, nella quale si legge: “ Una prima valutazione sul Pala Nebiolo attiene alla sua natura giuridica. E' stato creato un centro di accoglienza per richiedenti protezione internazionale, senza decreto ministeriale e senza i requisiti minimi di legge. Il prefetto Stefano Trotta, ha inoltre, emanato il 30 ottobre un avviso pubblico per nominare l'ente gestore del Pala Nebiolo o di altra struttura, che scadrà il 12 novembre, e il 1 novembre ha diramato un comunicato per evidenziare la ricerca di aree pubbliche, dove allocare una tendopoli. Le caratteristiche di non-luogo permangono anche nella scelta di non definire la natura giuridica del centro nell'avviso pubblico: non è chiaro se verrà istituito un CRA (Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo) o un Centro ai sensi della legge Puglia che dovrebbe, invece, avere carattere di temporaneità e provvisorietà”.
Il 15 ottobre scorso il governo, con il decreto legge n.120, ha garantito 210 milioni di euro da destinare alle esigenze straordinarie connesse ai flussi migratori: le associazioni e l'amministrazione comunale di Messina hanno proposto che queste risorse vengano impegnate nell'inclusione sociale dei migranti e nel welfare; i richiedenti asilo potrebbero, così, anche accedere allo SPRAR, il sistema di accoglienza e protezione gestito dai Comuni italiani.
Intanto l'Arci afferma che, attraverso il suo sportello SOS, gli operatori hanno riscontrato: “ la mancanza di consapevolezza tra le persone incontrate sul proprio status giuridico e la presenza di minorenni per i quali abbiamo chiesto l'accertamento dell'età alla questura”. L'Arci ha denunciato, inoltre, la presenza “di malattie infettive come la scabbia, persone con abbigliamento inadeguato al clima autunnale, brandine senza materassi, insufficienti impianti igienici e livelli di pulizia”.


Per concludere, le associazioni hanno chiesto di “fermare l'istituzionalizzazione di un centro dove sono stati trasferiti, negli ultimi giorni, migranti che, intercettati in mare da “Mare Nostrum”, sembrerebbero essere arrivati direttamente dallo sbarco. Un luogo, quindi, dove attendere anche un probabile rimpatrio coatto”: bisogna, invece, continuare a cercare un luogo di accoglienza idoneo, dal punto di vista della sicurezza e in cui si seguano tutti i princìpi legati all'ospitalità e al rispetto della dignità umana.

lunedì 14 ottobre 2013

Ancora migranti morti: ancora appelli, parole e polemiche




250 migranti, decine di morti: ancora bambini, donne e ragazzi.
Un barcone si è capovolto nel canale di Sicilia, tra la Libia e Malta: un aereo militare dell'isola, in ricognizione,avrebbe avvistato l'imbarcazione, i migranti avrebbero iniziato a muoversi, ad agitarsi, a gridare per attirare l'attenzione del pilota e la ressa avrebbe, così, causato il capovolgimento della carretta e il naufragio.
L'area in cui è avvenuto il fatto è di competenza maltese e il premier, Joseph Muscat, ha affermato: “Questa tragedia non può essere solo un altro (ennesimo) allarme per l'Europa. Ora è tempo di agire. Questo è un problema europeo, non è solo un problema dell'Italia e di Malta”.
Dall'inizio di gennaio abbiamo ricevuto 33mila persone, di cui solo 13mila a Lampedusa, la maggior parte nel periodo estivo. Considerate le cifre e la forte concentrazione temporale stiamo cercando di gestire il fenomeno in maniera strutturale e non solo emergenziale”, ha dichiarato il viceministro italiano dell'Interno, Filippo Bubbico, sottolineando: “I passi avanti fatti dall'Italia sia sotto il profilo del diritto d'asilo con una legge europea (entrata in vigore il 4 settembre scorso) che ha potenziato del 60% gli organismi per il riconoscimento dello status di rifugiato (ora sono 16 in tutto), sia sotto il profilo dell'accoglienza, raddoppiando - anche con finanziamenti aggiuntivi - la capacità di accoglienza del sistema Sprar, passando da 8.000 a 16.000 posti”.
Il sindaco di Lampedusa, Giusi Nicolini, al TG La7 ha ripetuto, ancora una volta che l'Europa non può essere una diga nel Mediterraneo e che Lampedusa non può essere la frontiera dell'Europa stessa perchè è un'isola troppo piccola e, soprattutto, ha ricordato che “queste persone non vanno lasciate morire. Tutto questo è una gran farsa per cui si pagano prezzi altissimi, vite umane e sacrifici di luoghi di confine come Lampedusa”.
Il Ministro per l'Integrazione, Cecile Kyenge, sul reato di clandestinità - di cui si è ricominciato a dicutere dopo il naufragio dell'isola dei Conigli - ha affermato: “ E' un percorso lungo e abbiamo fatto i primi passi. Un primo approccio c'è stato, ora però serve un progetto condiviso più che dal punto di vista giuridico dal punto di vista culturale: sono cambiamenti da fare insieme, nella condivisione, nel confronto, nella partecipazione”: Risponde a queste parole, Gasparri, della Lega e vicepresidente del Senato: “ Non è la legge Bossi-Fini che causa morti. Sono anche frutto della demagogia di chi fa facili annunci, frutto delle guerre sbagliate in Libia, di chi vuole smantellare norme per favorire i mercanti di morte. Giù le mani dal reato di clandestinità”.
Parole, annunci, promesse e polemiche...sulla pelle di chi è costretto a fuggire dal proprio Paese d'origine per cercare un luogo in cui vivere pacificamente e in cui potrebbe veder tutelati i propri diritti di base. Ma molti non fanno nemmeno in tempo a verificare l'opportunità di questa speranza.

giovedì 23 maggio 2013

XXI Anniversario delle stragi di Capaci e via D'Amelio: le Navi della legalità e un libro



Più di 20.000 studenti, di 800 scuole, di 13 Paesi europei sono saliti, ieri, sulle Navi della legalità, dai porti di Civitavecchia e di Napoli: sono giunti a Pelrmo per commemorare il XXI anniversario delle stragi di Capaci e via D'Amelio, che cade il 23 maggio, in cui morirono i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Francesca Morvillo, le donne e gli uomini delle loro scorte.
Le navi della legalità” è il progetto di educazione alla Legalità promosso dal Miur e dalla Fondazione “Giovanni e Francesca Falcone”: Le nuove rotte dell'impegno. Geografia e legalità, questo il titolo scelto per il tema di quest'anno. I ragazzi hanno partecipato ad un concorso nazionale e, oggi, partecipano alla cerimonia istituzionale che si svolgerà, come di consueto, nell'Aula Bunker del carcere Ucciardone di Palermo.
Durante il viaggio sulle navi gli studenti, e i docenti accompagnatori, hanno potuto confrontarsi con importanti figure delle associazioni antimafia e dello Stato. La nave salpata da Civitavecchia ha ospitato il Presidente del Senato, Piero Grasso, il Ministro dell'Istruzione, Maria Chiara Carrozza, il presidente Rai, Anna Maria Tarantola e il Prof. Nando Dalla Chiesa. Sulla nave salpata da Napoli sono intervenuti: il sottosegretario all'Istruzione, Marco Rossi Doria, il Presidente di Libera, don Luigi Ciotti, il Commissario Straordinario Antiracket, Giancarlo Trevisone e l'imprenditore - e testimone di giustizia - Pino Masciari.
Al termine della giornata di commemorazione, tutti i partecipanti si raduneranno di fronte all'Albero Falcone, simbolo universale di Legalità, diventato bene culturale tutelato dalla Regione Sicilia e dallo Stato italiano.


Giovanni Falcone: un eroe solo. Il tuo lavoro, il nostro presente. I tuoi sogni, il nostro futuro.
Di Maria Falcone e Francesca Barra. Rizzoli


Sono nato nello stesso quartiere di olti di loro. Conosco a fondo l'anima siciliana. Da un'inflessione di voce, da una strizzatina d'occhi capisco molto di più che da lunghi discorsi”. Queste sono le parole di Giovanni Falcone, riferendosi agli uomini d'onore, che la sorella, Maria Falcone, riporta nei suoi ricordi del fratello. Del grande magistrato ricorda anche la sua passione per piccole papere che collezionava e comprava in giro per il mondo.
Un ritratto inedito e rigoroso di Falcone, quello che emerge nel libro “Giovanni Falcone: un eroe solo. Il tuo lavoro, il nostro presente. I tuoi sogni, il nostro futuro”, scritto a quattro mani da Maria Falcone e dalla giornalista Francesca Barra, edito da Rizzoli.
Perchè un eroe solo? Perchè il magistrato, durante la sua carriera, è stato attaccato da tanti per la sua coerenza; perchè molti detrattori hanno criticato il suo metodo investigativo e le tecniche di coordinamento da lui approntate per portare avanti la lotta alla criminalità organizzata; perchè la verità è scomoda, ancora oggi. Dopo il mancato tettanato nei suoi confronti all'Addaura, lo stesso Falcone disse: “ Questo è il Paese felice in cui, se ti si pone una bomba sotto casa, e la bomba per fortuna non esplode, la colpa è tua che non l'hai fatta esplodere”.
Ecco perchè Maria Falcone e Francesca Barra hanno ritenuto importante ricordare i momenti salienti della vita del magistrato, la sua avventura umana e professionale: per lasciare alle nuove generazioni l'eredità vera e profonda di un Uomo che, nonostante tutto, ha sempre avuto un amore profondo per lo Stato, un forte senso della Patria, un grande rispetto per la giustizia e per l'autorità. Ed è fondamentale che le genrazioni future (ma non solo) si confrontino ancora con modelli positivi, divenuti “eroi” loro malgrado.
Il volume è arricchito dagli interventi di Leonardo Guarnotta, che ha scritto la premessa, di Loris D'ambrosio e da Sergio Lari, autore della postfazione.