giovedì 28 marzo 2013

Una conversazione con Clelia Bartoli, autrice del saggio “Razzisti per legge. L'Italia che discrimina”, Editori Laterza




 In Razzisti per legge. L'Italia che discrimina (Editori Laterza) Clelia Bartoli, docente di Diritti umani alla Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Palermo, riesce a dimostrare che - nonostante gli italiani dichiarino di non essere razzisti, la “razza” -  nel Belpaese, non sia un dato naturale, ma un oggetto sociale e che essa prenda corpo perchè collettivamente, attraverso le leggi e il comportamento, la facciamo esistere. E, in particolare,sempre secondo la tesi dell'autrice, i migranti siano diventati una “razza” nuova, contemporanea: quella dei clandestini.



Abbiamo rivolto alcune domande a Clelia Bartoli



Quanto è importante, oggi, monitorare il linguaggio? Le parole, pronunciate e scritte, confermano stereotipi e pregiudizi?

La parola, come eminente espressione umana, è impregnata dalle relazioni di potere. Il linguaggio pone un ordine nel pensiero e nelle emozioni, censurando, enfatizzando, plasmando ciò che crediamo e sentiamo. Ciò significa che le frasi offensive, i discorsi escludenti, gli epiteti pregiudiziali costituiscono una forma di razzismo. Ma la discriminazione si annida perfino nella grammatica, nella sintassi, in espressioni comuni apparentemente neutrali. Ad esempio l’uso del plurale maschile per indicare un gruppo di donne e uomini, significa che il genere (non solo grammaticale) per eccellenza è quella maschile. L’usare la parola “nero” e “scuro” associate a situazioni negative, mentre il “bianco” e il “candore” alla bontà e all’innocenza, sono tutte connotazioni del linguaggio cariche di giudizio, che è bene smascherare e rovesciare. Un percorso di liberazione e affermazione di un gruppo oppresso passa comunque dal linguaggio, il Black power l’aveva ben capito, non a caso diffonde slogan come: “Nero è bello”.
Consiglio di leggere a questo riguardo il bel libro di Federico Faloppa, Razzisti a Parole (per tacer dei fatti), edito da Laterza.

Cosa si intende per “razzismo istituzionale”?

Quando si usa la parola razzismo ci si riferisce generalmente ad atti, parole o atteggiamenti discriminatori posti in essere da una persona contro un individuo o un gruppo. Esiste però un altro tipo di razzismo ancora più pericoloso perché suoi effetti sono più estesi ed è meno visibile, ed è il razzismo istituzionale.
Si tratta della disuguaglianza, della marginalità prodotta da leggi, regole, burocrazia, prassi amministrative, con o senza l’intenzione. Ad esempio sono forme di razzismo istituzionale il fatto che un ragazzo nato o cresciuto in Italia, perché figlio di immigrati, non possa avere la cittadinanza e dunque abbia meno diritti degli altri suoi compagni. È una forma grave di razzismo l’istituzione dei “campi nomadi”, che non hanno nulla a che vedere con la cultura rom, ma sono un modo per ghettizzare, impoverire e avvilire. Altro caso è la detenzione amministrativa nei Cie, che si basa sul principio che un migrante, in quanto tale, può essere privato del più antico e fondamentale dei diritti: quello della libertà, in mancanza di una colpa e di un processo. E potrei continuare a lungo con esempi di razzismo istituzionale.

L'Italia è un Paese razzista?

Evidentemente l’Italia è un paese affetto da razzismo istituzionale. Certamente non è l’unico. Purtroppo il razzismo istituzionale, come quello interpersonale, è un fenomeno diffuso ad ogni latitudine e longitudine. La cosa più saggia da fare e, oserei dire, più patriottica è ammettere questo problema, diagnosticarlo nelle sue diverse forme e correggerlo. C’è chi l’ha fatto, la Gran Bretagna ha saputo intraprendere un esteso processo di ripensamento delle istituzioni in chiave più inclusiva dopo il report MacPherson.
Si badi, ciò andrebbe fatto non solo per una questione di giustizia e bontà verso i poveracci, ma perché l’uguaglianza e un certo benessere sociale sono la condizione per stare bene tutti. Dove le tensioni sociali sono forti, dove esiste una parte della popolazione in grave difficoltà, vi sono importanti ripercussioni anche sul piano della sicurezza e dell’economia dell’intera comunità.

Ci può raccontare un caso, invece, di “buona pratica”?

Fortunatamente ci sono anche delle felici esperienze di istituzioni che intendono essere accoglienti, anche se purtroppo hanno difficoltà a divenire sistema. Nel mio libro racconto il caso del Comune di Riace. Un comune montano calabro, svuotato dall’emigrazione, abbandonato e diroccato che è rifiorito accogliendo i rifugiati. Le case abbandonate sono state rimesse a posto e divenute alloggi per i rifugiati, sono stati recuperati i mestieri tradizionali aprendo botteghe che coniugavano l’abilità dei migranti con quelle degli abitanti del luogo, la scuola e altri servizi sono stati rimessi in funzioni grazie al nuovo popolamento. A Riace sono passati centinaia di migranti e non c’è stato alcun problema di ordine pubblico; il sindaco Domenico Lucanospiega come a Riace, grazie alla politica nuova e vecchia dell’accogliere, ci sia bisogno di artigiani, educatori, mediatori, insegnanti, ben poco di polizia.
Con il Comune di Palermo abbiamo appena intrapreso un’esperienza di accoglienza istituzionale complessa, ma che spero dia buoni frutti. Abbiamo costituito un FoRom, un forum sui rom e soprattutto con i rom, un cantiere di democrazia partecipata, per elaborare delle strategia che possano dare dignità e valore a questa parte di cittadinanza, coinvolgendola attivamente nel processo decisionale e progettuale.

Può aiutarci a riflettere sul significato dei concetti di “contaminazione” e di “democrazia”?

Le mie prime ricerche le ho svolte sugli intoccabili in India, cioè su quelle caste che sono considerate così indegne e impure e il cui contatto risulta altamente contaminante per i membri delle alte caste. La vita degli intoccabili è terribile: sono costantemente evitati, umiliati, usati per i mestieri più sgradevoli e pericolosi, privi del ben che minino diritto.
Si dovrà però convenire che la paura della contaminazione, l’assillo di non perdere il proprio status frequentando persone non ritenute sufficientemente degne, non è una cosa che riguarda solo l’India. La preoccupazione per la salvaguardia del proprio status impedisce l’incontro, la scoperta di altre persone, di possibili amici o addirittura amori. Lo slogan di quest’anno dell’Unar lo dice bene: se chiudi con il razzismo ti si apre un mondo.
Bisogna però dire che gli intoccabili non si sono rassegnati, che l’India non è un continente senza storia e che uno dei più influenti padri costituenti, Ambedkar, era un leader di origine intoccabile che ha introdotto nella costituzione indiana l’abolizione dell’intoccabilità, nonché azioni positive per raggiungere un’uguaglianza sostanziale di classi, caste e tribù svantaggiate. La democrazie è quindi quel dispositivo che prevede la contaminazione, che scardina le differenze di nascita, che crea legami civici in luogo di quelli di sangue.
Ma la democrazia è anche altamente cagionevole, va costantemente accudita, sorvegliata e corretta.


Clelia Bartoli