Qualche
giorno fa abbiamo segnalato una mostra fotografica sui bambini di
strada indiani, organizzata dalla Fondazione Fratelli dimenticati ONLUS,
e allestita presso la sala Livio Paladin di Palazzo Moroni, a Padova
.Grazie
al supporto di molte persone, la fondazione aiuta oltre 10.000
bambini in India e 2.000 tra Nepal, Nicaragua, Guatemala e Nord
Messico attraverso il Sostegno a Distanza.
Il
fotografo, Marc De Tollenaere - nato a Tripoli in Libia, nel 1969, da
padre Belga e madre esule giuliana - ha studiato fotografia con
Gianni Berengo Gardin, David Alan Harvey (Magnum), Kent Kobersteen
(ex direttore della fotografia di National Geographic, Antonin
Kratochvil (VII) e Bob Sacha (Life, Fortune e National Geographic).
Abbiamo
rivolto alcune domande a Marc De Tollenaere
Se
ha avuto l'opportunità di conoscere le storie di alcuni dei bambini
indiani ritratti nella sua mostra a Padova. ce ne può raccontare
qualcuna?
Certo,
ricordo una bambina di circa 2 o 3 anni, era rimasta orfana di madre
e il padre si era risposato, la matrigna però non la accettava in
quanto figlia di un’altra donna e le aveva fatto bere qualche
sostanza nociva, forse dell’acido. Era stata accolta nella
struttura per bambini in attesa delle decisioni del giudice. Ricordo
che era dolcissima e che mi veniva sempre in braccio mentre
fotografavo, (a volte la tenevo in braccio con la destra e
fotografavo con la sinistra) e molto socievole con gli altri bambini.
Un altro ricordo è per un ragazzo di circa 10 anni, incontrato ad
Ashalayam, una delle scuole salesiane di Calcutta. Prima di essere
“sponsorizzato”, cioè adottato a distanza abitava con altri
bambini nella stazione di Calcutta. Quando ho chiesto di fotografare
i bambini della stazione di Calcutta lui mi ha fatto da guida e per
la prima volta dopo due anni è tornato nei posti dove abitava. Mi
ricordo che mentre ci avvicinavamo alla stazione tra me e me mi
chiedevo come sarebbe stato per lui ritrovarsi a contatto con la
realtà molto difficile in cui viveva fino a qualche anno prima. E’
stato incredibile vedere la sua faccia seria e quasi stupita che si
aggirava nei vari ambienti dell’immensa stazione che, ovviamente,
conosceva come le sue tasche. L’incontro con gli altri bambini è
stato caloroso, ma si vedeva che lui era in un’altra dimensione,
quella vita non gli apparteneva più.
Le
è rimasta nel cuore, in particolare, una bambina-ragazza-donna che
ha fotografato? Anche di un altro continente?
Le
donne di solito fanno una vita molto riservata, per cui è difficile
incontrarle e parlarci, ricordo però Lucy, una donna che viveva in
una bidonville di Calcutta e dedicava tutta la sua vita a prendersi
cura dei poveri. La sua vita era stata raccontata da Dominique
Lapierre nel best seller “La città della Gioia” sotto lo
pseudonimo di “Bandona”, solo che per vendere meglio il libro
Lapierre si era inventato una storia falsa di lei con un uomo (un
prete, tra l’altro) e questo in India per una donna che non si è
mai sposata costituisce un gravissimo insulto. Ha continuato a fare
il suo lavoro nella bidonville e non ha mai più voluto incontrare
Dominique Lapierre. Una scena invece che mi ha colpito riguarda una
bambina appena arrivata in un orfanotrofio dove ho vissuto e
fotografato per una settimana, avrà avuto 7 o 8 anni ed era a dir
poco splendida, con un’aria indifesa e un po’ impaurita, ma uno
sguardo fiero e deciso che lasciava trasparire una grande forza
interiore. Parlava pochissimo e la sera del suo arrivo si è seduta a
guardare la strada fuori dalla finestra del secondo piano. Lentamente
le scendevano le lacrime ma in silenzio. Sapeva benissimo che
strillare e battere i piedi non sarebbe servito a nulla.
Quali
sono le aspettative dei ragazzi fotografati in India?
Quelli
che hanno accesso all’istruzione e che ho avuto modo di incontrare
nelle varie visite alle scuole sono perfettamente consapevoli della
fortuna che hanno. L’impressione che ne ho avuto è che credano
veramente in un futuro, del resto la loro economia è senza dubbio
più in crescita della nostra; sanno che se daranno il meglio a
scuola potranno avere accesso al mondo del lavoro. La loro
aspettativa più grande è quella di potersi costruire qualcosa di
proprio.
Ha
ripreso altre realtà nel mondo: in che modo si avvicina alle
persone? E loro come reagiscono davanti a un obiettivo fotografico?
Tutto
sta nel fare in modo che le persone dimentichino che c’è una
macchina fotografica e per far questo di solito passo del tempo con
loro, per vedere cosa succede, come si muovono, come reagiscono alle
mie domande o ai miei movimenti. Cerco di non stressarli, prima
guardo e poi eventualmente fotografo. Troppe volte vedo persone
invadenti che stanno con la macchina puntata per lunghi interminabili
secondi davanti ad un soggetto. Se stanno lavorando mi informo su
quello che stanno facendo, in modo da essere pronto nell’attimo che
interessa a me, e di solito poco dopo, quando hanno avuto tutte le
informazioni e hanno saziato la loro curiosità nel sapere chi sono,
da dove vengo e perché sono lì, riprendono a lavorare. A quel punto
sono talmente lì che sono diventato un pezzo di arredamento e posso
dedicarmi a guardare e a cogliere ciò che più mi aggrada, in modo
semplice, diretto e conciso. E’ una questione di psicologia,
bisogna sempre ricordarsi che chi fotografa è parte della foto,
dalle sue azioni dipenderà il buono o cattivo risultato.
Secondo
lei, c'è un filo conduttore che lega le persone che abitano nel sud
del mondo?
Direi
che il filo conduttore è la vita sociale, che mi ha colpito molto
probabilmente perché da noi è quasi dimenticata. Le persone si
incontrano, si conoscono tutti anche in quartieri immensi e non ho
mai avuto l’impressione che qualcuno si sentisse solo. Giocano
insieme: a dama, a carte, a backgammon, per strada o davanti alla
porta delle abitazioni, ed è una cosa bellissima, se si pensa che il
tutto si svolge in città da milioni di persone. Ogni quartiere o
porzione di quartiere sembra un villaggio. L’ho visto in tantissimi
posti, per esempio in Cina: ho visto i pensionati si portano dietro
le gabbiette con dentro gli uccellini e vanno a chiaccherare in
piazza, o che in gruppetti fanno Tai Chi nei parchi, in Vietnam i
vecchi che giocano a carte con i giovani sulla riva del fiume.
Durante i workshop di fotografia che tengo in giro per il mondo sono
stato invitato varie volte con i miei studenti a dei matrimoni (in
Nepal e in Cambogia ad esempio, straordinari per i riti, i colori e
l’ospitalità della gente) o a delle feste di compleanno, come
nell’antico villaggio di Ghandruk, sull’Himalaya, dove ci hanno
invitati a mangiare bere e ballare semplicemente perché si passava
lì davanti!