mercoledì 13 marzo 2013

5 broken cameras: un documentario,un premio Oscar mancato



Un uomo di 65 anni si arrampica su un blindato israeliano per impedirgli di portare via il figlio; tre donne che impediscono l'ingresso in un edificio ai soldati urlando “Non ci sono bambini qui!”; proprio un bambino di tre anni che fatica a respirare a causa dei gas lacrimogeni; uliveti inceneriti dalle fiamme: queste sono solo alcune immagini riportate nel film 5 broken cameras, vincitore al Sundance Festival di Robert Redford, al Festival del Cinema di Gerusalemme e, soprattutto, primo film palestinese candidato all'Oscar come Miglior documentario. In questo caso, niente premio. Peccato.
5 broken cameras ha una storia particolare: è stato girato nel piccolo e povero villaggio di Bili'n, in Cisgiordania, reso ancora più angusto dalla costruzione del muro voluta, nel 2005, dall'ex premier israeliano Ariel Sharon. Gli autori del film sono Guy Davidi - un filmaker attivista israeliano che si era trasferito nel villaggio proprio per documentare gli effetti dell'occupazione - e Emad Burnat, un uomo del posto, un contadino, diventato regista per necessità.
Burnat, infatti, aveva acquistato una telecamera per riprendere la nascita del suo ultimo figlio, ma questa gli era stata distrutta dai soldati israeliani e il fatto si è ripetuto per ben cinque volte (da qui il titolo del film): telecamere sfondate, crivellate di colpi o rese inservibili dopo il contatto con i gas. In seguito all'uccisione di un amico - colpito al petto da un lacrimogeno - il contadino/regista decide di comprare l'ennesima videocamera e di usarla per documentare tutto quello che accade nel suo villaggio sotto l'occupazione dei militari: i terreni confiscati, le manifestazioni dei palestinesi che si tengono, ogni venerdì, sotto la linea di demarcazione del territorio e che, quasi sempre, finiscono in tragedia per la reazione dei soldati, posti di blocco ovunque. E questi sono solo alcuni esempi.
L'originalità del documentario consiste nella prospettiva del racconto: viene meno la ricostruzione politica della “questione palestinese”, per concentrasi sulla vita quotidiana, sulla dimensione familiare, intima per, poi, collegare le conseguenze di tutto ciò sui civili (uomini, donne, bambini, giovani, anziani) alla Storia. Burnat, ad esempio, presenta i suoi figli a seconda del periodo in cui sono nati: il primo è nato durante il periodo di tregua garantito dagli accordi di Oslo; il secondo durante la Seconda Intifada; l'ultimo, Jibril, mentre si cominciava a costruire il muro. Il materiale filmico risulta sgranato, le riprese traballanti perchè si tratta di un lavoro amatoriale, ma mai un film documentario è così genuino come questo del contadino palestinese e dell'attivista israeliano che denunciano, con chiarezza, una situazione sempre più difficile.
Da sottolineare, infine che, all'arrivo di Emad Burnat all'aeroporto di Los Angeles, in occasione della manifestazione per gli Oscar, gli agenti non hanno creduto alla motivazione della sua visita e lo hanno rinchiuso, insieme alla moglie e al figlio maggiore, nella camera di sicurezza: è dovuto intervenire il regista americano Michael Moore che ha chiesto ai legali dell'Accademia di risolvere la situazione e che, in seguito, ha inviato un twitter con scritto “Benvenuti in America!”.
Con la speranza che qualcosa cominci a cambiare davvero dopo l'inaspettato voto all'assemblea generale dell'ONU che ha dichiarato la Palestina “Stato osservatore”.