Un uomo
di 65 anni si arrampica su un blindato israeliano per impedirgli di
portare via il figlio; tre donne che impediscono l'ingresso in un
edificio ai soldati urlando “Non ci sono bambini qui!”; proprio
un bambino di tre anni che fatica a respirare a causa dei gas
lacrimogeni; uliveti inceneriti dalle fiamme: queste sono solo alcune
immagini riportate nel film 5
broken cameras, vincitore
al Sundance Festival di Robert Redford, al Festival del Cinema di
Gerusalemme e, soprattutto, primo film palestinese candidato
all'Oscar come Miglior documentario. In questo caso, niente premio.
Peccato.
5
broken cameras ha
una storia particolare: è stato girato nel piccolo e povero
villaggio di Bili'n, in Cisgiordania, reso ancora più angusto dalla
costruzione del muro voluta, nel 2005, dall'ex premier israeliano
Ariel Sharon. Gli autori del film sono Guy Davidi - un filmaker
attivista israeliano che si era trasferito nel villaggio proprio per
documentare gli effetti dell'occupazione - e Emad Burnat, un uomo del
posto, un contadino, diventato regista per necessità.
Burnat,
infatti, aveva acquistato una telecamera per riprendere la nascita
del suo ultimo figlio, ma questa gli era stata distrutta dai soldati
israeliani e il fatto si è ripetuto per ben cinque volte (da qui il
titolo del film): telecamere sfondate, crivellate di colpi o rese
inservibili dopo il contatto con i gas. In seguito all'uccisione di
un amico - colpito al petto da un lacrimogeno - il contadino/regista
decide di comprare l'ennesima videocamera e di usarla per documentare
tutto quello che accade nel suo villaggio sotto l'occupazione dei
militari: i terreni confiscati, le manifestazioni dei palestinesi che
si tengono, ogni venerdì, sotto la linea di demarcazione del
territorio e che, quasi sempre, finiscono in tragedia per la reazione
dei soldati, posti di blocco ovunque. E questi sono solo alcuni
esempi.
L'originalità
del documentario consiste nella prospettiva del racconto: viene meno
la ricostruzione politica della “questione palestinese”, per
concentrasi sulla vita quotidiana, sulla dimensione familiare, intima
per, poi, collegare le conseguenze di tutto ciò sui civili (uomini,
donne, bambini, giovani, anziani) alla Storia. Burnat, ad esempio,
presenta i suoi figli a seconda del periodo in cui sono nati: il
primo è nato durante il periodo di tregua garantito dagli accordi di
Oslo; il secondo durante la Seconda Intifada; l'ultimo, Jibril,
mentre si cominciava a costruire il muro. Il materiale filmico
risulta sgranato, le riprese traballanti perchè si tratta di un
lavoro amatoriale, ma mai un film documentario è così genuino come
questo del contadino palestinese e dell'attivista israeliano che
denunciano, con chiarezza, una situazione sempre più difficile.
Da
sottolineare, infine che, all'arrivo di Emad Burnat all'aeroporto di
Los Angeles, in occasione della manifestazione per gli Oscar, gli
agenti non hanno creduto alla motivazione della sua visita e lo hanno
rinchiuso, insieme alla moglie e al figlio maggiore, nella camera di
sicurezza: è dovuto intervenire il regista americano Michael Moore
che ha chiesto ai legali dell'Accademia di risolvere la situazione e
che, in seguito, ha inviato un twitter con scritto “Benvenuti in
America!”.
Con
la speranza che qualcosa cominci a cambiare davvero dopo
l'inaspettato voto all'assemblea generale dell'ONU che ha dichiarato
la Palestina “Stato osservatore”.