martedì 30 giugno 2015

I muri di Tunisi: quando anche le pietre parlano di cambiamento





Pubblicato grazie ad un'operazione riuscita di crowfunding, I muri di Tunisi. Segni di rivolta (per Exòrma Edizioni con la prefazione di Laura Guazzone) rappresenta una lettura originale del complesso periodo di “transizione” della Tunisia tra la rivoluzione del 2011 e le elezioni del 2014.
L’autrice, Luce Lacquaniti, traduce e commenta le scritte e le immagini nelle piazze e nelle strade della città di Tunisi i cui contenuti sono gli stessi che vengono discussi nelle case, a scuola, nell’assemblea costituente, sui giornali, nei negozi e nei caffè.



L'Associazione per i Diritti Umani ha intervistato Luce Lacquaniti e la ringrazia molto per la sua disponibilità.




Perché la scelta di parlare della Tunisia di oggi attraverso le scritte e le immagini sui muri?



La scelta deriva in parte dalla mia formazione e in parte dalla straordinarietà del materiale stesso in questione. Mi spiego. Sono laureata in Lingue e civiltà orientali e sto per prendere una seconda laurea in Interpretariato e traduzione. Quindi, di base, sono un'arabista, con un percorso di studi soprattutto linguistico. Però sono anche appassionata di fumetto, illustrazione e arti visive in generale (sono diplomata alla Scuola romana dei fumetti) e, da diversi anni, ho il pallino di leggere e fotografare le scritte sui muri di qualsiasi città, a partire dalla mia, Roma. Infine, mi interessa la politica in quanto cittadina del mondo, e mi interessa la politica del mondo arabo in quanto l'ho studiato e ci ho vissuto.

In Tunisia, in particolare, ho vissuto stabilmente nel 2012-2013 per approfondire lo studio dell'arabo. Ma ci ero già stata nel 2010, prima della rivoluzione (che è avvenuta tra dicembre 2010 e gennaio 2011), e ci sono tornata un'infinità di volte dal 2013 a oggi. È stato un periodo di particolare fermento, che si è esplicato anche sui muri – prima della rivoluzione, essenzialmente bianchi. Il nuovo mezzo d'espressione, quindi, ha attirato la mia attenzione sotto più punti di vista: linguistico, artistico, politico. In particolare, una volta tornata in Italia, riesaminando il materiale fotografato a Tunisi, mi sono resa conto di come vi si rintracciassero tutte le tappe della travagliata vita politica tunisina di questi ultimi anni. Eventi, fazioni, problemi sollevati, contraddizioni. Sono convinta che il periodo 2011-2014 in Tunisia interessi il mondo intero, perché si tratta della cosiddetta “transizione” dopo una rivoluzione che ha scatenato trasformazioni in un'intera area del mondo e perché, allo stesso tempo, vi sono istanze, rappresentate in quei segni, che sono universali. Per di più, quella che avevo tra le mani era una documentazione dal basso, anti-istituzionale e anti-mediatica, cosa che la rendeva, a mio parere, ancora più preziosa. Specie in un periodo in cui sul mondo arabo-islamico si chiacchiera tanto, senza preoccuparsi di ascoltare la voce dei diretti interessati. Tantomeno nella loro lingua. È così che ho pensato di corredare le foto di traduzioni e commenti e di raccogliere tutto in un libro.  
 





Ci può illustrare i temi principali che vengono espressi da quei muri? E cosa indicano le scritte a proposito delle aspettative della società civile?



Il libro si struttura proprio secondo i diversi temi discussi sui muri. Il primo capitolo, ad esempio, affronta il concetto di rivoluzione e la sua evoluzione nel discorso pubblico dei tunisini: dall'esultanza, agli scontri ideologici, alla disillusione, alla chiamata a una nuova rivoluzione. Una foto del 2012 che cattura scritte di diverse mani, ad esempio, è particolarmente emblematica: a qualcuno che esclama “Viva la Tunisia libera e democratica”, qualcun altro risponde “I rivoluzionari dicono: non potete prenderci in giro”, mentre un terzo chiosa “Non c'è altro dio all'infuori di Dio e Maometto è il suo profeta”. In una sola immagine troviamo l'entusiasta, lo scettico-antagonista e l'islamista, che inizia ad affermare la propria presenza sulla scena politica. Altri capitoli passano in rassegna i principali slogan del periodo e le dichiarazioni di affiliazione politica. Un capitolo è dedicato alla questione femminile e un altro all'islamismo, con i suoi fautori e i suoi oppositori – e qui va ricordato che la maggior parte del periodo di transizione del paese ha visto la guida del partito islamista moderato Ennahdha. Altri capitoli ancora trattano i rapporti tra la Tunisia e il resto del mondo arabo (e non arabo), e i diversi volti della repressione: dall'odiata polizia, alla censura, al cyberattivismo, al ruolo degli ultras nelle rivolte, alla legge-paravento che criminalizza il consumo di marijuana per colpire i dissidenti. Infine, i capitoli finali presentano alcuni collettivi di writer che hanno segnato i muri di Tunisi, ciascuno dandosi uno scopo e uno statuto ben preciso. C'è perfino chi ha scritto un manifesto artistico, come il gruppo Ahl al-Kahf. La nascita di questi movimenti mi sembrava qualcosa da indagare in maniera specifica.  


Da tutto questo emerge, nel complesso, una grande vitalità culturale e la voglia di dire la propria, da parte di tutte le componenti della società civile, nessuna esclusa. I tunisini chiedono a gran voce la fine dell'odiosa repressione – si va dalla scritta che denuncia il tale episodio di violenza durante una manifestazione, a quella che chiede la verità sugli omicidi politici di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi del 2013; denunciano la mancanza di trasparenza delle istituzioni – e qui si apre il discorso sulla scrittura della nuova costituzione, nonché sulla cosiddetta “giustizia di transizione”, legata ai processi dei martiri e feriti della rivoluzione e tema ricorrente del gruppo di writer Molotov; infine, i tunisini chiedono anche e soprattutto giustizia sociale, lavoro e lotta alla povertà: il gruppo che si firma Zwewla (“i poveri, i miserabili”), ha fatto di quest'ultimo punto la sua bandiera. Il quadro che ne esce è quello di una rivoluzione incompiuta, ben sintetizzato dal tormentone degli stessi Zwewla “Il povero è arrivato alla fonte ma non ha potuto bere”. Un quadro che, in parte, si discosta dal mito a cui ci hanno abituato, quello per cui la Tunisia sarebbe “l'unico paese in cui la primavera araba è riuscita”.



Quali sono i segni e le parole ricorrenti e quali sono quelle che l'hanno colpita di più?



Tra le parole più frequenti c'è sicuramente “il popolo”: “il popolo vuole questo, il popolo vuole quest'altro”. Il famoso slogan “Il popolo vuole...”, poi rimbalzato negli altri paesi arabi, richiama un verso del poeta nazionale tunisino Aboul Qacem Echebbi. Ma la cosa magnifica è che, sui muri di Tunisi, chiunque può scrivere “Il popolo vuole” seguito da qualsiasi cosa e il suo contrario. Sintomo di sano confronto: l'importante è che il popolo continui a volere qualcosa, e soprattutto che lo dica.

A colpire a prima vista è l'uso ricorrente di sofisticati giochi di parole, ironia tagliente, metafore, citazioni poetiche e veri e propri punti di riferimento estetici e filosofici, a volte esplicitati, a volte no. Spesso scritte e disegni sono tutt'altro che improvvisati e stupiscono per ricerca stilistica e concettuale. Tra le frasi che mi hanno più colpito ce n'è una, scritta evidentemente da un cittadino elettore e rivolta ai parlamentari scalatori di poltrone: “Noi non siamo ponti da attraversare”. Indimenticabile anche la domanda “Ci avete visti?” posta, attraverso un fumetto, da una sagoma di manifestante in rivolta con la benda sull'occhio, proprio sulla sede del sindacato. Si riferisce al giorno in cui la polizia sparò sulle teste dei manifestanti inermi della città di Siliana con munizioni da caccia, togliendo la vista per sempre a decine di persone. Ma, in una metafora che ribalta il concetto di cecità, qui i veri ciechi, messi sotto accusa, sono i vertici dello Stato. E poi uno stencil del gruppo Ahl al-Kahf riferito all'attuale, ottantottenne, presidente della Repubblica tunisino, Béji Caïd Essebsi, seppure realizzato profeticamente nel 2011: “Non posso sognare con mio nonno”.



Cosa è cambiato nel Paese tra il 2011 e il 2014?



Come viene anche riflesso sui muri, la Tunisia nel 2011 e nel 2012 è stata un'esplosione di voci, un luogo di dibattiti tra fazioni opposte, spesso trasformatisi in accesi scontri, una fucina di associazioni, progetti autogestiti, gruppi artistici, iniziative culturali. Un inno alla libertà d'espressione che sarebbe stato impensabile prima della rivoluzione, quando vigevano il partito unico e il controllo statale su qualsiasi spazio d'azione, fisico o virtuale. Da fine 2012 – inizio 2013 ho visto farsi strada la frustrazione e la disillusione. Il 2013 è stato l'anno della crisi, l'anno che ha visto, tra le altre cose, l'ascesa del terrorismo islamico, due omicidi politici con le conseguenti crisi di governo, e la crescente stanchezza dei tunisini nei confronti di un governo sempre più incapace di far fronte ai problemi socioeconomici del paese – che, nel frattempo, aveva contratto un debito miliardario col FMI. Il 2014 è proseguito su una scia di depressione generale e progressiva stagnazione del dibattito pubblico. Alla paura del fanatismo religioso e dei gruppi armati a esso connessi si è affiancata la paura che lo stato rispondesse con la logica della sicurezza o addirittura con una nuova svolta autoritaria. Le elezioni del dicembre 2014 sono state boicottate dai giovani, e hanno visto confrontarsi gli islamisti di Ennahdha con il “nuovo” partito Nidaa Tounes, che raggruppa anche membri dell'ex-regime, e che è attualmente al governo. Il fermento culturale degli inizi è andato scemando. Perfino i muri stanno tornando bianchi. Come se non bastasse, l'attentato del Bardo del marzo 2015 ha inferto un duro colpo all'economia tunisina, che tentava timidamente di riprendersi, contando sul ritorno della stabilità politica. I problemi che avevano scatenato la rivoluzione, ovvero la povertà, la disparità di trattamento delle regioni interne della Tunisia (ricche di risorse ma escluse dagli investimenti dello Stato, e non a caso teatro della rivoluzione), la disoccupazione e la corruzione generalizzata, non sono stati superati, anzi si sono, se possibile, aggravati, complice la crisi finanziaria globale. In compenso, si è acquisito un grado di libertà d'espressione mai visto prima (pur con tutte le riserve del caso). La mia speranza è che di questo periodo di apertura e di fermento possano fare tesoro i tunisini, per portare avanti un cambiamento all'interno della società dal basso, a lungo termine, e forse al di fuori delle istituzioni.

lunedì 29 giugno 2015

Diamante nero: il cinema, l'identità, la protesta







Dopo il grande successo di Tomboy, il film che raccontava di una ragazzina che vuole essere un maschio, esce sul grande schermo l'ultimo lavoro della regista Céline Sciamma, presentato al Festival di Cannes nella sezione “Quinzaine des Realisateurs” e intitolato Bande des filles. Il titolo italiano è Diamante nero e prende spunto dalla colonna sonora, un brano di Rihanna, “Diamonds” che scandisce ritmicamente le pulsazioni del cuore e della vita delle protagoniste.

Si tratta, infatti, di un film ancora al femminile che molti hanno subito definito “di genere”: nella prima sequenza vediamo un gruppo di ragazze nere che, in uno spogliatoio, ridono, scherzano, schiamazzano, unite nella gioia della giovinezza e della spavalderia. Poi ognuna di loro fa ritorno alla realtà, entra nelle case di periferia, alle prese con i problemi di una quotidianità difficile, soprattutto se si è femmine.

Marieme, la protagonista sedicenne, deve fare i conti con un fratello dispotico, con le decisioni prese dagli altri “per il suo bene”, con un lavoro che non le piace e con una società dove prevalgono machismo e prepotenze. Ma Marieme non ci sta e impara a dire NO: Cambia nome e diventa Vic, si stira i capelli, cambia anche look, si arma di coltello e inizia a fare a botte. Non è sola: a lei si uniscono altre tre - Lady, Adiatou e Fily - ed ecco formata la banda che dà il titolo alla pellicola, una banda di ragazze che si comportano come i modelli maschili che hanno intorno: minacciano, rubano, non temono nessuno.

Ma la natura femminile c'è e non si inganna: Marieme è innamorata dell'amico del fratello. Una sera va da lui, si spoglia e gli dice semplicemente “Facciamo l'amore”. Una dichiarazione così diretta, un'offerta di sé così istintiva marchieranno Marieme come sgualdrina. Ma in questo suo atto d'amore c'è tutta la forza della libertà.

Diviso in capitoli, proprio come un romanzo di formazione, Diamante nero è ambientato nelle banlieu parigine, abitate, come sappiamo, da immigrati e dai loro figli, dove le persone vivono in quell'architettura squadrata e squallida che caratterizza tutte le periferie e dove vince la legge del più forte e del più furbo: ma la regista non ha voluto realizzare un film su questo tipo di ambiente. Il suo intento è più politico: attraverso le vicende - particolari e univerali allo stesso tempo - di Marieme e delle sue amiche che si affacciano alla vita e alla maturità con tutte le emozioni, le paure e la confusione tipiche della loro età, viene raccontata una forma di resilienza ai modelli imposti dall'esterno. Le protagoniste dicono NO alla violenza e, in fondo in fondo, rispondono con l'amore; dicono NO alle donne sottomesse al patriarcato; dicono NO a modelli familiari apatici e senza orizzonti, immaginando e lottando per un futuro migliore; dicono NO a regole di lavoro ingiuste.

E' un film ben scritto, studiato nella sceneggiatura e nella regia che non scade nelle scelte comuni proprio per far riflettere sulla grande forza e il grande coraggio di queste piccole donne (donne nei corpi, ma bambine negli occhi), confuse ed eroiche nel loro guardare dentro e fuori da sé per strutturare un'identità e una vita possibilmente consapevole e felice.

domenica 28 giugno 2015

Gender. Il nuovo mostro




di Maria G. Di Rienzo (da comune-info.net)




Il 20 giugno, leggo, si terrà una manifestazione a Roma per difendere i bambini da qualcosa che non esiste: l’ideologia gender (genere) nelle scuole. Il concetto di genere, purtroppo, nelle scuole italiane non c’è ancora entrato e anche per questo si può turlupinare gente dal fioco lume con la stronzata dell’ideologia gender. Il genere non è un’ideologia, è un criterio di analisi che parte dalla differenza sessuale fra uomini e donne e analizza i modi in cui i loro ruoli sono socialmente costruiti. A cosa serve? A trattare donne, uomini, bambine e bambini con meno violenza, a garantire e rispettare i loro diritti umani, ad avere giustizia.
Ora, io posso ripetere la pura e semplice realtà delle cose sino a sgolarmi, ma ho scarsa audience e nessuno mi paga. Le persone che sto per nominare, invece, le pago io – assieme al resto della popolazione italiana, perciò:
se l’onorevole Giovanna Martelli, consigliera del presidente del consiglio dei Ministri in materia di Pari Opportunità, non ha niente da dire al proposito, io voglio ad esempio sapere cosa ci faceva al Forum sul futuro dell’uguaglianza di genere tenutosi a Bruxelles (Belgio) il 20 e 21 aprile scorsi. (Emma Bonino ha inviato un video-messaggio al Forum: se sta un po’ meglio, ha qualcosa da dire?)
Presieduto da Věra Jourová, Commissaria europea per la giustizia, la tutela dei consumatori e l’eguaglianza di genere il Forum partiva con questa premessa:
Le proiezioni stimano che, al tasso attuale di cambiamento, ci vorranno almeno trent’anni per raggiungere l’obiettivo del 75% di donne con un impiego in Europa, oltre 70 per far diventare l’eguaglianza salariale realtà, oltre vent’anni per raggiungere un bilanciamento di Genere nei consigli d’amministrazione delle più grandi compagnie quotate in borsa e almeno 40 anni per assicurare che il lavoro domestico sia equamente diviso fra donne e uomini”.
Sui dieci seminari previsti per la prima giornata, sette contenevano nel titolo la parola Genere. Durante la seconda giornata il lavoro era concentrato sul “Costruire il prossimo livello della politica di Genere europea” eccetera.
Perché, se l’On. Giovanna Martelli non apre bocca per spiegare cos’è il Genere e difendere le istanze relative, io vedo solo due motivazioni possibili: 1) nonostante la partecipazione ad eventi internazionali non ha ancora fatto mente locale sul significato del termine e quindi non lo spiega perché non lo sa; 2) parlare potrebbe essere disagevole, compromissorio, disturbante per il signore che è tenuta a consigliare in materia di pari opportunità.
Forse, allora, potrebbero dire qualcosa al proposito il ministro Paolo Gentiloni e i direttori e vice direttori coinvolti nel Programma di Cooperazione Fao (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura)/Italia tramite la Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo: Giampaolo Cantini, Fabio Cassese e Luca Maestripieri. Perché? Semplicemente perché la Fao dichiara di avere una politica di Genere:
L’eguaglianza di Genere è centrale per il mandato della Fao di raggiungere sicurezza alimentare per tutti innalzando i livelli di nutrizione, migliorando la produttività agricola e il maneggio delle risorse naturali, e migliorando le vite delle popolazioni rurali. L’eguaglianza di Genere non è solo un mezzo essenziale con cui la Fao può eseguire il suo mandato, è anche un fondamentale diritto umano” (2013)
Se nemmeno costoro aprono bocca per spiegare cos’è il Genere e difendere le istanze relative, credo che il motivo, qui, sia uno soltanto: non lo sanno (perché forse non leggono i protocolli che firmano).
Allora, dovrebbero poterci dire qualcosa la ministra della Salute Beatrice Lorenzin e la dottoressa Daniela Rodorigo, a capo della Direzione generale della comunicazione e dei rapporti europei e internazionali, giacché sono in rapporto diretto con l’Organizzazione mondiale della sanità, che ha una politica di Genere:
L’eguaglianza di Genere fa bene alla salute. Nessuno dovrebbe ammalarsi o morire a causa della diseguaglianza di Genere. (…) Gli Stati membri dell’Oms e gli accordi internazionali ribadiscono che le differenze (fra uomini e donne) devono essere riconosciute, analizzate e indirizzate tramite l’analisi di Genere e azioni di Genere. Senza la dovuta attenzione all’eguaglianza di Genere i servizi sanitari, i programmi, le leggi e le politiche avranno effetti limitati”. (2010)
E se anche in questo caso né la ministra né la dottoressa intendono spiegare cos’è il Genere e difendere le istanze relative, io sono incline a pensare che – come sopra – non sappiano di che si tratta e che – come sopra – l’attenzione ai protocolli che firmano sia un tantino superficiale.
Naturalmente, mai quanto gli analfabeti di ritorno che (persino pagati da vari portali) scrivono come “l’ideologia Gender gradualmente e silenziosamente sta diffondendosi nelle scuole (…) nelle scuole si stanno insinuando attività organizzate dalle lobby, volte a educare la mente dei bambini sottoponendoli ad esperienze sessuali delle quali i genitori sono tenuti all’oscuro. Queste attività vengono promosse sotto forma di progetti mirati a combattere i fenomeni delle discriminazioni e del bullismo ma in realtà mirano a realizzare dei programmi di sessualità e di affettività con il fine di consentire ai bambini di vivere esperienze nuove e capaci di mutarne il pensiero fin dall’età evolutiva.” Un’età cui l’autrice deve evidentemente ancora giungere: il suo pensiero è davvero involuto. D’altronde, è molto chiaro che Parlamento Europeo, Fao e Oms sono costituti da un branco di ideologi gender il cui fine è sottoporre i figli della signora confusa ad esperienze sessuali…
Il bollettino meteo, in occasione della manifestazione del 20 contro il Nulla, prevede (citazione letterale) “risentimenti e rallentamenti al traffico”. Viva l’Italia, però io voglio emigrare.


Non solo cibo: l'Arte contemporanea degli artisti romeni a Expo2015




Inaugurazione: 1 luglio 2015, ore 16 00 presso il Padiglione della Romania

     testi a cura di di Tatiana Martyanova - critico d'arte




Per me i colori sono degli esseri viventi, degli individui molto evoluti che si integrano con noi e con tutto il mondo. I colori sono i veri abitanti dello spazio. Yves Klein


Siamo nel Padiglione Romania all’Expo 2015 a Milano, all'interno di un tipico villaggio romeno “nascosto” e “ritrovato” nella capitale italiana dell’arte contemporanea. 

In questo apparente antagonismo ci troviamo di fronte a opere d’arte, in un percorso tra passione, energia e contemplazione, tutte create ad hoc per l’evento unico di Expo 2015.

A rappresentare gli Artisti romeni in mostra per Expo 2015 ci sono Cristina Lefter, Calina Lefter, Lavinia Rotocol, Nelu Pascu, Tudor Andrei Odangiu e Leonard Regazzo, artisti che da anni vivono nel Belpaese trasmettendo la loro cultura nei versi delle proprie “poesie visive”. 

Nel continuo divenire artistico, tre donne e tre uomini rintracciano la propria identità culturale, spesso tramite la commemorazione dei più grandi personaggi del paese d’origine. Così diversi negli stili e nelle tecniche, dalla pittura olio su tela, agli smalti e acrilici in tecnica mista, alla fotografia, gli artisti raccontano le loro verità del visibile. Il colore è l’unico elemento indispensabile a metterli tutti in comunicazione.

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Cristina Lefter, classe 1976, presenta in mostra una nuova visione della propria arte. Con la sua caratteristica tecnica dripping fa gocciolare gli smalti su tela creando così dei mondi misteriosi. A rispecchiare la sua personalità artistica forte e passionale sono i colori sgargianti che plasmano un’evoluzione figurativa dalla tradizione all’astratto action painting di Jackson Pollock, creando così una magia. Il quadro presentato all’Expo 2015 infatti nasconde un enigmatico volto e invita lo spettatore a scoprirlo, velato nelle linee astratte: vi è Maria Tănase, la “Edith Piaf” romena. La cantante dipinta così appare all’Esposizione Mondiale per la seconda volta dopo quella di Parigi 1937 dove rappresentò la Romania.

I colori dei pensieri, invece, costruiscono i quadri di Calina Lefter, classe 1978. Con la tecnica mista su tela l’artista cerca di oltrepassare i confini della realtà creando attraverso i paesaggi romeni, un ricordo, un pensiero, un momento. In occasione dell’Expo 2015 l’artista fa un omaggio al poeta storico romeno Mihai Eminescu, con dei colori teneri ma d’intensità unica, che ci inoltrano nel profondo della poesia pura.

Il lavoro di Lavinia Rotocol (1967) è una ricerca sulla natura di emozione, che l'artista definisce “eternità effimera”. Attraverso i colori di struttura leggera e la pennellata decisa Rotocol fa emergere l’energia, la verità da qualsiasi momento della vita: come se fossero dei frammenti del cinema catturati in un attimo fuggente. Entrando nell’atmosfera delle emozioni, si crea così l' “Energia”.

Tudor Andrei Odangiu, nato nel 1976, è un decoratore e restauratore di opere d’arte, affreschi e mobili. Questo influenza molto il suo stile: lavora spesso con il passato e quindi tutta la sua opera artistica ha un forte legame con la tradizione. Come afferma lui stesso, il particolare interesse verso la pittura fiamminga lo aiuta a portare la luce all’interno del quadro. Sono i colori luminosi a trasmettere il carattere e la passione dell’artista, racchiusi nel tema della lotta, della forza e della passione. Non a caso a lottare sull’arena dei colori sono sovente i tori, ciclicamente protagonisti nella storia delle arti visive, qui studiati con scrupolosa attenzione artistica.

Nelu Pascu, nato nel 1963, è un artista affermato in Romania, lavora nell’ambito dell’astratto concettuale. Spesso però si dedica anche al figurativo dipingendo soprattutto delle città, a volte facendole vedere come le mappe dei percorsi quasi planimetrici, come se fossero viste e vissute dall’alto. La scelta cromatica e quella materica nelle sue opere è sempre dettata da un bisogno interiore, ribadisce Nelu Pascu, non è mai la mente a comandare la sua pennellata. La sua arte non è razionale bensì proveniente dall’animo del pittore con un forte legame con le proprie radici che senza dubbio influenzano tutto il lavoro dell’artista, sia a livello della tecnica sia nei temi elaborati. Il colore nasce dalla luce. Sappiamo che scrivere con la luce è la prerogativa della fotografia, traendo il significato dall’etimologia stessa della parola.

Leonard Regazzo, 1970, dipinge con la luce – lavora con la fotografia, riflettendo sulla realizzazione d’immagini fotografiche senza utilizzo della machina stessa. L’artista elabora quindi la tradizione dei fotogrammi di Moholy-Nagy come anche dei rayogrammi di Man Ray. Il lavoro di Regazzo potrebbe essere definito come creazione enigmatica delle nuove materie (l’artista scansiona le bolle di sapone lanciando una lunga ripresa ad alta risoluzione): fortemente astratte queste figure sullo sfondo nero, portano lo spettatore nell’immenso infinito. Tutti gli artisti romeni in mostra vivono in Italia, sono giovani e ambiziosi nell’acquisizione del ruolo di messaggeri tra i loro due paesi, rapportandosi armoniosamente ai valori del proprio patrimonio culturale. La scoperta del proprio universo artistico nel profondo dell’anima di ognuno di loro racchiude un contributo alla propria cultura, una ragione di vita



sabato 27 giugno 2015

Bambini soldato in Sud Sudan



di Veronica Tedeschi





Bambini drogati e imbottiti di stupefacenti per non farli arrendere durante lo scontro.

I più sfortunati nascono già in una delle fazioni ribelli, come se il loro destino fosse segnato, in altri casi, da giovanissimi vengono sottratti alle loro famiglie per essere cresciuti in contesti di guerra e sofferenza.

Questa è la situazione di molti dei bambini che vengono ingaggiati come soldati senza averne la consapevolezza; in alcune rare situazioni, si pensa che alcuni di questi aderiscano come volontari per motivi legati alla sopravvivenza, alla fame o al bisogno di protezione.

I bambini diventano i soldati migliori per diversi motivi: non concepiscono il livello di gravità della situazione, hanno dimensioni piccole e sono veloci, sono in grado di infilarsi in tombini, fori e quant’altro. Infine, non si schiereranno mai per la fazione concorrente, se gli prometti, o minacci, qualcosa faranno quello che gli dici a prescindere. Le bambine, sebbene impiegate in misura minore, spesso sono usate per scopi sessuali, ma anche per cucinare o piazzare esplosivi, non devono essere pagate e non si ribellano.



Lo scorso 22 febbraio è stata la Giornata internazionale contro l’uso dei bambini soldato, una piaga che sta minando psicologicamente intere future generazioni. Il problema non riguarda solo l’Africa, sono 22 i Paesi in tutto il mondo che utilizzano bambini soldato durante le loro guerre, tra questi troviamo il Sud Sudan (Stato indipendente dal 2011) ripiombato nella guerra civile da più di un anno.

Il 21 febbraio, un giorno prima della Giornata internazionale, uomini armati sono entrati nel paese e hanno rapito 89 ragazzini dal campo profughi di Malaki, nella regione settentrionale dell’Alto Nilo.

Secondo la Bbc, i soldati hanno circondato i campi profughi, cercando tenda per tenda, e prelevando con la forza i ragazzi di età superiore ai 12 anni.

Il 10 febbraio, pochi giorni prima, l’Unicef aveva organizzato a Pibor, nel Sud Sudan orientale, la cerimonia di disarmo nella quale furono liberati circa 300 bambini tra gli 11 e i 17 anni. Questo fu il terzo rilascio di bambini a seguito di un accordo di pace tra la fazione e il governo. L’Unicef, il Government's National Disarmament e il Demobilization and Reintegration Commission (NDDRC), ancora oggi, stanno lavorando insieme per prendersi cura dei bambini e reintegrarli di nuovo nelle loro comunità.
Cobra Faction, la fazione di ribelli che rilasciò questi bambini, nel suo gruppo armato detiene ancora fino a 3.000 bambini soldato.


Il rapimento e lo sfruttamento di bambini nell’atto di conflitti è considerato una violazione del diritto umanitario internazionale, che è quella parte di diritto che definisce le norme da rispettare in tempo di conflitto armato e le regole che proteggono le persone che non prendono, o non prendono più, parte alle ostilità e pongono limiti all'impiego di armamenti, mezzi e metodi di guerra.

Non solo, anche lo Statuto della Corte Penale internazionale (il tribunale per i crimini internazionali), include, fra i crimini di guerra nei conflitti armati, l’arruolamento di ragazzi minori di 18 anni o il fatto di farli partecipare attivamente alle ostilità.

Anche nella storia passata i ragazzi sono stati usati come soldati, ma negli ultimi anni questo fenomeno è in netto aumento perché è cambiata la natura della guerra, diventata oggi prevalentemente etnica, religiosa e nazionalista. Chi combatte non si cura delle Convenzioni di Ginevra e spesso considera anche i bambini come nemici. Secondo uno studio dell’Unicef, all’inizio del secolo le vittime civili rappresentavano il 5% delle vittime di guerra, oggi quasi il 90%.



Le regole di diritto internazionale, sia umanitario che penale, come si è visto, puniscono duramente questi comportamenti ma, nonostante questo, tali pratiche continueranno fino a quando non saranno duramente imposte sanzioni contro gli Stati sostenitori di queste pratiche, come, per esempio, il Sud Sudan.




venerdì 26 giugno 2015

La campagna STOP alla TORTURA







Oggi è la Giornata internazionale per dire STOP alla TORTURA.

Pubblichiamo, per questa occasione, materiali e una riflessione importante (dal sito di Amensty International)


Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamenti o punizioni crudeli, disumani e degradanti” (Dichiarazione universale dei diritti umani, articolo 5)
Il diritto a essere liberi dalla tortura e da altri trattamenti o punizioni crudeli, disumani e degradanti è tra i diritti umani più saldamente protetti dal diritto internazionale. Affermato nella Dichiarazione universale dei diritti umani, ribadito in strumenti internazionali – come il Patto internazionale per i diritti civili e politici – e regionali, il divieto di tortura viene sancito in una Convenzione ad hoc nel 1984: la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani e degradanti (Convenzione).
Il divieto di tortura è assoluto: questo significa che mai un pubblico ufficiale o una persona che agisca a titolo ufficiale può infliggere intenzionalmente dolore o sofferenze gravi a un’altra persona anche in situazioni di emergenza, quali una guerra, una catastrofe naturale o creata dall’uomo.

Nonostante l’obbligo per gli stati parte della Convenzione di considerare reato la tortura, indagare in modo approfondito e imparziale su qualsiasi denuncia e perseguire i responsabili, la tortura è ancora oggi molto diffusa; in alcuni di questi paesi è sistematica, in altri è un fenomeno isolato ed eccezionale.




Perché la campagna "Stop alla tortura"?



A 30 anni dalla storica adozione della Convenzione, i governi hanno tradito l'impegno a porre fine a questa pratica che comporta la perdita definitiva dell'umanità, che è il segnale di una crisi collettiva fatta di barbarie, fallimenti e paura.

In questi tre decenni, i governi spesso hanno vietato la tortura per legge ma l'hanno permessa nella pratica. Hanno pestato, frustato, soffocato, semiannegato, stuprato, privato del sonno nel buio delle carceri e nelle stanze degli interrogatori; hanno colpito presunti criminali comuni, persone sospettate di costituire una minaccia alla sicurezza nazionale, dissidenti, rivali politici per estorcere loro confessioni, per punirli, intimorirli, per privarli della loro dignità.
Tra il 2009 e il 2014, Amnesty International ha registrato torture e altri maltrattamenti in 141 paesi ma, dato il contesto di segretezza nel quale la tortura viene praticata, è probabile che il numero effettivo sia più alto. Nel 2014, 79 paesi hanno praticato la tortura.

Questa campagna porta avanti un lavoro iniziato nel 1972 e che ha contribuito all'adozione, nel 1984, della Convenzione. Quest'anno, 30esimo anniversario della Convenzione, ci concentriamo su tutti i contesti di custodia statale di alcuni paesi in cui pensiamo di poter cambiare significativamente la situazione. In Italia lavoreremo per porre fine alla tortura in
Messico, Uzbekistan e Marocco/Sahara Occidentale; a livello internazionale anche su Filippine e Nigeria.

La nostra campagna si rivolge anche all'
Italia, affinché sia introdotto nel codice penale il reato di tortura e si colmi pertanto il ritardo di oltre 25 anni trascorsi dalla ratifica della Convezione contro la tortura.
Scarica il briefing "La tortura oggi: 30 anni di impegni non mantenuti"
Sostieni la nostra campagna!
Scarica il briefing "Comincia qui, comincia ora"


giovedì 25 giugno 2015

Nessuno potrà dire che non sapeva ! Basta stragi nel Mediterraneo!


 

Per i nuovi desaparecidos, presidio in Piazza Scala a Milano dal 18 giugno tutti i giovedì alle 18.30



I nuovi desaparecidos sono le vittime delle politiche migratorie europee: sono scomparsi fisicamente e sono cancellati dal dibattito politico e dallo spazio del diritto.



Sono i nuovi desaparecidos. E il riferimento non è retorico e nemmeno polemico, è tecnico e fattuale perché la desaparición è una modalità di sterminio di massa, gestita in modo che l’opinione pubblica non riesca a prenderne coscienza, o possa almeno dire di non sapere”.
Enrico Calamai (Comitato Verità e Giustizia per i Nuovi Desaparecidos)



Per questo le associazioni della rete Milano senza Frontiere tutti i giovedì, dal 18 giugno, saranno in piazza, riprendendo la modalità di lotta delle Madres de Plaza de Mayo.

Abbiamo scelto di portare le foto di alcuni dei nuovi desaparecidos per ridare umanità e dignità a queste persone  e alla lotta  che i lori parenti nella sponda sud del Mediterraneo, stanno facendo per avere verità e giustizia.  

 



Le rotte via terra che dall'Africa
e dallʼAsia portano verso l’Europa sono segnate da migliaia
e migliaia
di cadaveri.

E il Mediterraneo è sempre più la fossa comune in cui vengono seppellite le speranze di chi scappa da guerre, persecuzioni e miseria.

L'Europa rinnega i valori che ha dichiarato di voler difendere.

Invece di salvaguardare gli inalienabili diritti di cui ogni essere umano è portatore come sancito dalla Dichiarazione Universale dei diritti dellʼUomo, l’Unione Europea risponde chiudendo le sue frontiere e respingendo le persone senza curarsi della loro sorte.

L'Europa propone di distruggere i barconi dei trafficanti, attraverso operazioni nelle acque libiche o addirittura in terraferma.

L'Europa, per "proteggere" le sue frontiere, si avvale degli Accordi di Vicinato, con i paesi del Nord Africa, che hanno come obiettivo di intercettare i migranti in alto mare per riportarli in Africa e di intrappolarli ancora più a sud del Sahara.

Tutte queste misure non serviranno ad arrestare l'anelito dei migranti a ricercare una speranza di vita migliore.

Finché i Governi continueranno a imporre politiche economiche liberiste che generano devastazioni, sfruttamento e guerre, e continueranno a produrre e contrabbandare armamenti con i regimi totalitari, le persone non avranno altra scelta che lasciare il loro paese.

Vent’anni di politiche razziste di chiusura hanno solo prodotto morte, desaparecidos e dolore.
Oggi, in assenza di meccanismi istituzionali di ingresso regolare, le persone sono costrette a rivolgersi alla criminalità.




2015   Naufragio del19 aprile: 800 vittime

 La fine dell’operazione di salvataggio Mare Nostrum ha causato il moltiplicarsi del numero delle vittime. Nei primi cinque mesi del 2015 i morti sono più di 2.000

        

2014    Quasi 3500 migranti morti



2013   Naufragio del 3 ottobre: 364 vittime

Quasi 3000 vittime in tutto l’anno

 

2012   Più di 600 vittime

 

2011   Più di 2500 vittime

 

Dal 2000 al 2014 sono quasi 23 mila le persone migranti morte nel tentativo di arrivare in Europa (fonte Organizzazione Internazionale per le Migrazioni).

Solo 3.188 sono le salme recuperate e restituite ai familiari.






Milano Senza Frontiere

FB: Milanosenzafrontiere

Comitato Verità e Giustizia per i Nuovi Desaparecidos

mercoledì 24 giugno 2015

Bauman: "Siamo ostaggi del nostro benessere per questo i migranti ci fanno paura"



Il sociologo: "Anche se il prezzo dei sacrifici che pagheremo sarà molto alto, la solidarietà è l'unica strada per arginare futuri disastri"





di WLODEK GOLDKORN (    da www.repstatic.it del 15/6/2015)




ZYGMUNT Bauman, oggi uno dei pensatori più influenti del mondo, è stato più volte esule. La prima volta, quando nel 1939, giovane ebreo, scappò dalla Polonia verso la Russia, in condizioni simili a quelle dei profughi che, scampati alle guerre e alla traversata del Mediterraneo, sono in questo momento oggetto più delle nostre paure che di nostra solidarietà. E la dialettica dell'integrazione ed espulsione dei gruppi sociali ai tempi della modernità è uno dei temi che più ha approfondito nelle sue opere. Con Bauman abbiamo parlato di quello che intorno alla questione profughi succede in questi giorni in Italia; tra una destra razzista e una sinistra che stenta ad affrontare le paure di una parte della popolazione.



Sembra che non siamo in grado di far fronte alla questione immigrati.

"Il volume e la velocità dell'attuale ondata migratoria è una novità e un fenomeno senza precedenti. Non c'è motivo di stupirsi che abbia trovato i politici e i cittadini impreparati: materialmente e spiritualmente. La vista migliaia di persone sradicate accampate alle stazioni provoca uno shock morale e una sensazione di allarme e angoscia, come sempre accade nelle situazioni in cui abbiamo l'impressione che "le cose sfuggono al nostro controllo". Ma a guardare bene i modelli sociali e politici con cui si risponde abitualmente alle situazioni di "crisi", nell'attuale "emergenza immigrati", ci sono poche novità. Fin dall'inizio della modernità fuggiaschi dalla brutalità delle guerre e dei dispotismi, dalla vita senza speranza, hanno bussato alle nostre porte. Per la gente da qua della porta, queste persone sono sempre state "estranei", "altri"".


Quindi ne abbiamo paura. Per quale motivo?

"Perché sembrano spaventosamente imprevedibili nei loro comportamenti, a differenza delle persone con cui abbiamo a che fare nella nostra quotidianità e da cui sappiamo cosa aspettarci. Gli stranieri potrebbero distruggere le cose che ci piacciono e mettere a repentaglio i nostri modi di vita. Degli stranieri sappiamo troppo poco per essere in grado di leggere i loro modi di comportarsi, di indovinare quali sono le loro intenzioni e cosa faranno domani. La nostra ignoranza su che cosa fare in una situazione che non controlliamo è il maggior motivo della nostra paura".


La paura porta a creare capri espiatori? E per questo che si parla degli immigrati come portatori di malattie? E le malattie sono metafore del nostro disagio sociale?

"In tempi di accentuata mancanza di certezze esistenziali, della crescente precarizzazione, in un mondo in preda alla deregulation, i nuovi immigrati sono percepiti come messaggeri di cattive notizie. Ci ricordano quanto avremmo preferito rimuovere: ci rendono presente quanto forze potenti, globali, distanti di cui abbiamo sentito parlare, ma che rimangono per noi ineffabili, quanto queste forze misteriose, siano in grado di determinare le nostre vite, senza curarsi e anzi e ignorando le nostre autonome scelte.

Ora, i nuovi nomadi, gli immigrati, vittime collaterali di queste forze, per una sorta di logica perversa finiscono per essere percepiti invece come le avanguardie di un esercito ostile, truppe al servizio delle forze misteriose appunto, che sta piantando le tende in mezzo a noi. Gli immigrati ci ricordano in un modo irritante, quanto sia fragile il nostro benessere, guadagnato, ci sembra, con un duro lavoro. E per rispondere alla questione del capro espiatorio: è un'abitudine, un uso umano, troppo umano, accusare e punire il messaggero per il duro e odioso messaggio di cui è il portatore. Deviamo la nostra rabbia nei confronti delle elusive e distanti forze di globalizzazione verso soggetti, per così dire "vicari", verso gli immigrati, appunto".


Sta parlando del meccanismo grazie a cui crescono i consensi delle forze politiche razziste e xenofobe?

"Ci sono partiti abituati a trarre il loro capitale di voti opponendosi alla "redistribuzione delle difficoltà" (o dei vantaggi), e cioè rifiutandosi di condividere il benessere dei loro elettori con la parte meno fortunata della nazionale, del paese, del continente (per esempio Lega Nord). Si tratta di una tendenza intravvista o meglio, preannunciata molto tempo fa nel film Napoletani a Milano , del 1953, di Eduardo De Filippo, e manifestata negli ultimi anni con il rifiuto di condividere il benessere dei lombardi con le parti meno fortunate del paese. Alla luce di questa tradizione era del tutto prevedibile l'appello di Matteo Salvini e di Roberto Maroni ai sindaci della Lega di seguire le indicazioni del loro partito e non accettare gli immigrati nelle loro città, come era prevedibile la richiesta di Luca Zaia di espellere i nuovi arrivati dalla regione Veneto".


Una volta, in Europa, era la sinistra a integrare gli immigrati, attraverso le organizzazioni sul territorio, sindacati, lavoro politico...

"Intanto non ci sono più quartieri degli operai, mancano le istituzioni e le forme di aggregazione dei lavoratori. Ma soprattutto, la sinistra, o l'erede ufficiale di quella che era la sinistra, nel suo programma, ammicca alla destra con una promessa: faremo quello che fate voi, ma meglio. Tutte queste reazioni sono lontane dalle cause vere della tragedia cui siamo testimoni. Sto parlando infatti di una retorica che non ci aiuta a evitare di inabissarci sempre più profondamente nelle torbide acque dell'indifferenza e della mancanza dell'umanità. Tutto questo è il contrario all'imperativo kantiano di non fare ad altro ciò che non vogliamo sia fatto a noi".


E allora che fare?
"Siamo chiamati a unire e non dividere. Qualunque sia il prezzo della solidarietà con le vittime collaterali e dirette della forze della globalizzazione che regnano secondo il

principio Divide et Impera, qualunque sia il prezzo dei sacrifici che dovremo pagare nell'immediato, a lungo termine, la solidarietà rimane l'unica via possibile per dare una forma realistica alla speranza di arginare futuri disastri e di non peggiorare la catastrofe in corso".



martedì 23 giugno 2015

Ucraina, la guerra che non c'è







Due giovani giornalisti, 40 giorni tra l’orrore dei due fronti.



Al di là delle questioni geopolitiche e della guerra diplomatica fra Nato e Putin cosa avviene davvero in quella landa alla periferia dell’Europa? Questo libro è un reportage esclusivo, scritto da Andrea Sceresini e Lorenzo Giroffi, per Baldini & Castoldi, che per un mese e mezzo hanno vissuto lungo le due sponde del fronte. Da Donetsk a Lugansk, passando per Kiev, un’odissea fra trincee, battaglie e posti di blocco, miliziani dal volto umano, ufficiali alcolizzati e cocainomani, volontari di mezza Europa ubriachi di ideologia, bombardamenti e bordelli militari. L’obiettivo, osservare il vero volto della guerra: senza pregiudizi né retorica, ma con lo spirito un po’ incosciente di chi cerca la verità.




L'Associazione per i Diritti Umani ha rivolto alcune domande ai due giornalisti. Li ringraziamo molto.



Si tratta della prima guerra civile in Europa del XX secolo: potete raccontarci quali sono state le premesse?


In seguito alle proteste di piazza Maidan e alla caduta del governo Yanukovich, nel febbraio 2014, la situazione in Ucraina orientale ha iniziato a surriscaldarsi. Migliaia di manifestanti filo-russi, intimoriti dalla svolta filo-occidentale che la nuova giunta di Kiev stava imprimendo alla nazione, hanno preso d'assalto i palazzi governativi a Donetsk, Lugansk e in altre città del Donbass. A marzo a Russia ha occupato la Crimea, che con un referendum-lampo si è dichiarata indipendente dall'Ucraina, mentre all'inizio di maggio, nella città di Odessa, una quarantina di manifestanti filo-russi sono stati uccisi dai militanti dell'estrema destra ucraina nella Casa dei Sindacati. Questi due fatti hanno contribuito a esacerbare ulteriormente gli animi, fomentando gli opposti nazionalismi e facendo divampare la guerra civile. Donetsk e Lugansk si sono costituite come repubbliche indipendenti, dotandosi di una propria milizia armata e unendosi nella repubblica di Novarossia che è il nome di una vecchia entità territoriale dell'epoca zarista. Queste, grosso modo, sono le premesse.




L'Ucraina si trova in una posizione geopolitica interesante per molti: quali sono le posizioni delle grandi potenze ?

Dietro gli opposti contendenti ci sono - in modo molto evidente - gli interessi economici e geopolitici delle grandi potenze: Stati Uniti ed Europa da una parte, Russia dall'altra. Il punto del contendere riguarda, in buona sostanza, l'ingresso dell'Ucraina nella Nato e - dunque - nella sfera di influenza occidentale: una prospettiva che Putin non potrebbe mai accettare, perché significherebbe avere il "nemico" alle porte. Perciò sono stati fomentati i nazionalismi locali - che prima di oggi non erano in pratica mai esistiti - e sono stati massicciamente riforniti, con armi e supporto logistico, i due schieramenti in campo. Gli ucraini sono spesso foraggiati con materiale di fabbricazione statunitense, mentre i separatisti possono contare sul supporto di decine di consiglieri militari e centinaia di "volontari" russi. Insomma: la guerra civile ucraina altro non è che la proiezione locale di uno scontro a bassa intensità tra le grandi potenze. Chi ci guadagna – oltre agli strateghi internazionali - sono gli oligarchi e i lobbisti, che a loro volta si sono schierati da una parte o dall'altra.

Chi ci perde sono i cittadini locali, i soldati mandati la macello, i lavoratori e gli idealisti di tutte le risme, massacrati sotto le bombe e nelle trincee.




Voi siete stati sulle due sponde del fronte: cosa potete dirci di diverso rispetto alle notizie che abbiamo letto sulla stampa ufficiale?

Che le guerra si combatte ogni giorno, a dispetto delle varie tregue e dei cessate-il-fuoco. E che è una guerra terribile, combattuta senza pietà. Abbiamo vissuto a Donetsk per diverse settimane. Molte notti le abbiamo trascorse svegli, mentre le artiglierie bombardavano la città. Parliamo di bombardamenti massicci, con una esplosione ogni quattro o cinque secondi. Le fabbriche sono state chiuse e i pensionati hanno smesso di ricevere i sussidi. Questo è ciò che i giornali non dicono: la guerra ci viene spesso descritta come una funambolica partita a dama tra stati maggiori, diplomatici e strateghi militari. E' anche questo, certo, ma soprattutto - e te ne accorgi con sgomento quando ti ci trovi dentro - è un grande mare di merda: uno scontro di morti di fame contro altri morti di fame, il cui inutile sacrificio si trasforma in guadagni per gente che si trova comodamente seduta a una scrivania, a centinaia di chilometri di distanza. Siamo stati all'obitorio di Donetsk, che è uno dei luoghi più educativi che abbiamo visitato: vuoi capire cosa sia la guerra? Ti bastano cinque minuti lì dentro. Chi ci lavora è perennemente ubriaco di vodka. Iniziano a bere la mattina alle sette, perché nessuno, da sobrio, sarebbe tanto pazzo da trascorrere le sue giornate oltre quella soglia.




Perchè il titolo del libro recita: “...La guerra che non c'è”?


Perché la guerra nel Donbass è una guerra dimenticata, di cui si è parlato poco, e solo a sprazzi, in occasione dei grandi meeting internazionali, delle principali battaglie e delle elezioni ucraine. Eppure si combatte alle porte dell'Unione Europea, a poche ore di volo dalle nostre città. La guerra macina ogni settimana decine di morti, il cui dramma sembra non interessare a nessuno. Quando siamo tornati dal nostro viaggio, nel novembre 2014, ricordo che la stampa italiana si stava accapigliando sul caso del cono gelato del ministro Madia. Come degli zombie, ci siamo messi a sfogliare i quotidiani in cerca di un reportage, un articolo, un trafiletto, qualunque straccio di notizia che parlasse di ciò che avevamo appena abbandonato: non abbiamo trovato nulla. Anche per questo abbiamo deciso di cominciare a scrivere...









lunedì 22 giugno 2015

La mobilitazione degli artisti israeliani contro le politiche culturali del governo




di Monica Macchi




L’organo di rappresentanza delle istituzioni culturali israeliane ha chiesto a tutti gli artisti, scrittori, sindacati e istituzioni ed organizzazioni culturali, di riunirsi e decidere come mobilitarsi contro le politiche culturali del nuovo governo israeliano e in particolare contro il ritiro dei finanziamenti e le minacce di sanzioni nei confronti di due storici teatri arabo-israeliani.

Ha iniziato la Ministra della Cultura e dello Sport, Miri Regev, che ha minacciato di togliere i finanziamenti a un teatro di Jafa se il suo direttore arabo-israeliano, continuerà a rifiutarsi di partecipare a produzioni al di là della Green Line, e ha continuato il ministro dell'Istruzione Naftali Bennett che ha ritirato il finanziamento a “Tempo Parallelo”, uno spettacolo teatrale ispirato alla vicenda di Walid Daka. Il 6 agosto 1984, alla vigilia del digiuno di Tisha B'Av, il soldato Moshe Tamam viene rapito vicino a Netanya e ritrovato morto pochi giorni dopo. Per questo omicidio sono condannati all'ergastolo (pena poi ridotta a 37 anni dal presidente Shimon Peres nel 2012) quattro arabi israeliani, affiliati al FPLP (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina) tra cui appunto Daka che nel frattempo, si è laureato in legge, ha pubblicato un libro su “Ridefinire la tortura”, scrive editoriali per diversi giornali e nel 1999, è stato il primo prigioniero palestinese che ha avuto il permesso di sposarsi in carcere e ha fatto una lunga battaglia legale per ottenere il permesso sponsale. E proprio da questo punto (e spunto) parte lo spettacolo teatrale che attraverso i tentativi dei suoi compagni di cella di contrabbandare materiali per costruirgli un oud come regalo di nozze, vuole raccontare la vita quotidiana dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane. Lo spettacolo nasce da esperienze di laboratori teatrali del regista Bashar Murkus che ha raccolto interviste e scritti di vari prigionieri quindi sia il regista che Adnan Tarabash, il direttore del teatro, hanno rivendicato la libertà artistica sottolineando che il pezzo è un adattamento e hanno minacciato azioni legali perché “dire che Walid Daka ha dettato la sceneggiatura è pura diffamazione”. Inoltre il direttore del teatro ha denunciato che la famiglia Tamam, alcune associazioni e politici locali stanno strumentalizzando e fomentando dolore e lutti per mettere a tacere Al-Midan un teatro “scomodo” che attraverso la voce araba solleva questioni fondamentali per la società israeliana. E non solo Adnan ha provocatoriamente chiesto se “Siamo forse in un regime totalitario?” ma anche Zahava Gal, leader del partito di sinistra Meretz, ha sostenuto che “la cultura in Israele è in pericolo perché la volontà di imbavagliare chi non si allinea col regime è un chiaro segno di una deriva fascista dello Stato”. Da parte sua la ministra Regev ha ammonito che “è giunto il momento di porre fine ai filmati sulla Nakba e sul diritto al ritorno, bisogna smettere di finanziare organizzazioni che sostengono il terrorismo e il tradimento, fissando linee guida chiare in materia di istruzione, cultura e sport”.

Ma non è solo il teatro ad essere nel mirino del governo: è di pochi giorni fa la notizia che verrà istituita una commissione per valutare se “Beyond the Fear”, una co-produzione israelo-lettone-russa ha i requisiti per partecipare al Jerusalem Film Festival festival. Il regista è Herz Frank, figura fondamentale del documentario poetico della scuola di Riga che ha costruito questo suo lavoro su Ygal Amir, l’assassino di Itzak Rabin, attraverso interviste con la moglie Larissa Trimbobler.

domenica 21 giugno 2015

Ventimiglia: senza solidarietà l'Europa non esiste




di Barbara Spinelli




Bruxelles, 17 giugno 2015




Schierando la Gendarmerie nationale al confine di Ventimiglia, il governo francese afferma di non aver violato né sospeso il Trattato di Schengen, e in questo non è smentito dalla Commissione europea. Di fatto, tuttavia, sta facendo qualcosa che somiglia molto a un blocco, e - più grave ancora - a un’espulsione collettiva attuata sulla base di una identificazione «prima facie» dei profughi che manifestano l’intenzione di andare in Francia, per restarvi o recarsi in altri paesi dell’Unione. Le autorità francesi hanno attuato un respingimento fisico, sommario, senza notificare alcun provvedimento formale, senza procedere a un esame individuale delle istanze, né dare possibilità di ricorso ai respinti. Le forze dell’ordine hanno, letteralmente, fatto muro, ripristinando la frontiera.

Ma l’Unione europea si è data delle regole – ben più salde e costitutive della gabbia tracciata dal Regolamento di Dublino – ed è a queste regole che occorre richiamarsi, perché senza di esse è il significato dell’Unione ad essere colpito. Il governo francese viola sia l’articolo 19 della Carta dei diritti fondamentali sia la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Protocollo n. 4 art. 4), ignorando il divieto dei respingimenti collettivi.

Chiedete perdono per le istituzioni e le persone che chiudono le loro porte a gente che cerca aiuto e cerca di essere custodita", ha chiesto il Papa, durante l’udienza generale a San Pietro. Non è indifferente che abbia nominato per prime le istituzioni: sono le istituzioni, infatti, le prime a dover rispondere.

Abbiamo visto, in questi giorni, gli innumerevoli gesti di solidarietà di cittadini italiani e francesi, persino bambini, che continuano a portare cibo e vestiti ai profughi accampati alla frontiera o sugli scogli di Ponte San Ludovico. Ma non abbiamo visto la solidarietà degli Stati. Dobbiamo essere consapevoli di quanto questo sia gravido di conseguenze, perché la solidarietà tra Stati membri – anche finanziaria - è inscritta nei trattati: senza solidarietà, l’Europa non esiste.