Ponendo
particolare attenzione al dibattito intorno alle vecchie e nuove
forme con cui il razzismo si è manifestato all’interno delle
società occidentali, il volume intitolato “Antisemitismo,
islamofobia e razzismo. Rappresentazioni, immaginari e pratiche
nella società italiana”, edito da Ediesse, ne discute i caratteri
sociali e storici, affrontando temi salienti quali l’antisemitismo
e l’islamofobia. Gli autori sono: Alfredo Alietti, Claudio
Vercelli e Dario Padovan.
L'Associazione per i Diritti Umani ha intervistato per voi i Professori Alfredo Alietti e Claudio Vercelli che ringrazia molto per la disponibilità.
Quali
sono le vecchie e nuove forme di razzismo e quali le loro matrici?
C.
Vercelli: Non è agevole distinguere tra vecchie e nuove forme di
razzismo, trattandosi di un fenomeno per più aspetti polimorfo,
ossia in grado di assumere connotazioni in base alle circostanze del
momento e alle esigenze di chi ne fa ricorso, non importa però
quanto consapevolmente. Piuttosto, ed è questo l’elemento dal
quale partire, il razzismo comprende una vasta gamma di atteggiamenti
basati sul pregiudizio che, dall’ indifferenza possono arrivare
anche alla violenza fisica fino, in ultimo, alle politiche di Stato
per l’eliminazione delle diversità attraverso la distruzione
fisica dei “diversi”. L’elemento peculiare ai razzismi, ovvero
condiviso comunemente, è il convincimento che un individuo non possa
né debba essere considerato in base alla sua personalità e alla sua
soggettività bensì come parte di una serie precostituita – la
cosiddetta “razza” – che assommerebbe in sé dei tratti
immutabili, Come tali questi influenzerebbero l’individuo medesimo
nelle sue condotte, nel suo modo di porsi dinanzi ai fatti del mondo,
nelle relazioni che intrattiene con il resto della comunità umana.
Tale attribuzione di caratteri fissi, ovvero intesi come immutabili,
ha una natura ascrittiva ed inchioda la persona ad una sorta di
“destino” immodificabile. Non a caso, il razzismo intende la
diversità come un dato di natura e non come una costruzione sociale.
Il qual fatto induce, chi fa propria tale visione delle cose, a
ritenere che sia impossibile trasformare gli altri (ma anche se
stessi) e che da tale riscontro non possa che derivare un conflitto
tra le diversità oppure l’obbligo ad adottare politiche di
separazione tra gli appartenenti a gruppi razziali diversi se non, in
ultimo, l’eliminazione di quanti sono ritenuti una minaccia per la
propria sopravvivenza. Sta, all’interno del dispositivo razzista,
una concezione del mondo che cancella la cultura, intesa come insieme
di pratiche umane evolutive, fondate sullo scambio, alla quale si
sostituisce l’idea che le differenze non compongono il quadro della
varietà umana ma una sorta di confine insormontabile e come tale
perennemente a rischio da parte di chi, invece, pratica i meticciati.
Un elemento fondamentale per relazionare i razzismi contemporanei da
un punto di vista storico è verificare, tra gli altri, due elementi
indice: le migrazioni e la struttura del mercato del lavoro. Il
razzismo, da tale punto di vista, riordina i rapporti di forza e di
dominio, stabilendo scale gerarchiche, vincolando le scelte degli
uni, allocando risorse a favore di altri e così via.
A.
Alietti: Nella prospettiva sociologica e psicosociologica la
questione delle forme mediante le quali si manifesta l’atteggiamento
razzista risulta assai ampia. A partire dalla metà degli anni ’70
alcuni studi rivelarono come l’attore sociale tendesse ad esprimere
opinioni e atteggiamenti avversi alle minoranze etniche in maniera
indiretta, occultando il più possibile quelle forme linguisticamente
aperte e dirette, in contrasto con le norme sociali di condanna del
razzismo. Da tale analisi, vi è stato un fiorire di termini con cui
indicare questa inedita forma: razzismo moderno, simbolico, nascosto,
debole. Indubbiamente, il clima culturale europeo e nordamericano,
pur con dei profondi distinguo legati alla specificità storica dei
rapporti interetnici, sorto alla fine della guerra mondiale con il
portato del genocidio nazista ha contribuito a combattere l’ideologia
razzista fondata sulla dimensione biologica che legittimava la
gerarchia tra le supposte diverse razze.
Ciò
non ha significato il venire meno del razzismo quale fenomeno di
esclusione di determinati gruppi nel dopo guerra fino ad oggi.
Infatti, alla parola razza che ha accompagnato il discorso scientista
a cavallo del XIX e XX secolo si è sostituito il concetto di etnia,
ovvero un approccio culturalista alle differenze il quale appare meno
escludente in termini generali e più democratico nel trovare “buone
ragioni” all’atteggiamento razzista. Tuttavia, questa alchimia
sociale che nasconde l’atteggiamento di rifiuto della diversità
etnica non ha mutato nel profondo il senso del razzismo tradizionale.
Alla cristallizzazione di caratteri biologici si è venuta a
costruire una retorica sociale che cristallizza ed essenzializza i
tratti culturali, in una sorta di “biologizzazione molle”. Su
questo piano di analisi si avverte come vi sia una forte continuità
tra il cosiddetto “vecchio” e “nuovo razzismo”, al di là
delle definizioni adottate dagli studiosi negli ultimi trent’anni.
L’orizzonte comune è un discorso sull’immutabilità (di razza
e/o di etnica) dei destini dei soggetti sui quali si riversa la
logica razzizzante dentro un disegno gerarchico delle diversità
umane sostenute e rafforzate da politiche istituzionali tese a
riprodurre tale ordine sociale ed etnico. Inoltre, alla luce delle
dinamiche sociali, politiche, economiche e culturali occorse in
Europa, dall’avvento della globalizzazione e del trionfo del
neoliberalismo, vi è da valutare seriamente gli effetti della crisi
del multiculturalismo e di crescenti conflitti interni ai paesi
europei generati dalla perdurante crisi e dalle retoriche
neo-nazionaliste, populiste e, specificatamente, anti-islamiche.
Appare evidente che nella nostra contemporaneità il razzismo sia
divenuto un potente fattore di legame sociale in negativo,
soprattutto a fronte della crescente insicurezza e instabilità delle
traiettorie dei gruppi autoctoni più vulnerabili e più prossimi
socialmente agli immigrati. Basta osservare con un minimo di
attenzione alle reazioni nello spazio neutro del web, ad esempio ai
commenti delle notizie dei giornali nazionali on-line, per verificare
che dichiararsi razzisti non più argini, non ha più quel velo, per
quanto ipocrita, di possibile condanna collettiva.
Il
razzismo oggi è sociologicamente e socialmente ancora forte e in
grado di minare le basi degli assetti democratici e della convivenza.
Qual
è il legame tra religione, politica ed economia, soprattutto in
relazione all'Islam di cui si è parlato da poco, anche alla luce dei
fatti di Parigi?
C.
Vercelli: Impossibile dare una risposta esaustiva a questa domanda.
Non in poche righe, almeno. Ciò a cui stiamo assistendo non è il
ritorno della religione ma il suo spregiudicato uso politico. Dinanzi
a società che mutano, anche drasticamente e repentinamente, e
davanti alla marginalità di un grande numero di persone, escluse dal
mercato del lavoro così come dalla partecipazione politica, il
razzismo cavalca disagi e timori, traducendosi in condotte xenofobe.
Più che ad uno scontro tra civiltà, come certuni prediligono
affermare, ci troviamo di fronte alla crisi interna alle stesse
“civiltà”, e soprattutto alle società che hanno prodotto,
laddove queste non riescono a dare risposte adeguate al bisogno di
integrazione degli individui. Parlerei quindi di una crisi della
politica, nel momento in cui questa dovrebbe essere il mezzo più
importante per creare le condizioni della convivenza e, invece, non
riesce a svolgere tale funzione. Non di meno il razzismo, che non è
solo un problema del mondo cosiddetto occidentale ma attraversa un
po’ tutte le comunità umane, si inserisce all’interno dei grandi
disagi collettivi scavando solchi incolmabili. Se la politica è in
crisi, e se invece certe ideologie hanno spazio oltre misura, ciò è
dovuto anche al fatto che l’idea che l’economia sia il punto di
partenza e di arrivo dell’uomo – in buona sostanza alla pari
quasi di una religione – oggi più che integrare tende a
disintegrare le persone, corrodendone i legami con la comunità di
riferimento e consegnandoli ad una solitudine senza consolazione.
A.
Alietti: Il tema di questa complessa relazione richiederebbe
un’analisi approfondita in grado di ricomprendere passati processi
sociali e storici con quelli attuali. Il fondamentalismo islamico non
è l’esito impazzito e irrazionale di eventi caotici che hanno
favorito il suo emergere quale realtà diffusa nel mondo islamico. Vi
di fatto nella comprensione dell’Islam e delle sue derive uno
spirito etnocentrico che ne confonde la sua articolata espressione
politica, economica e religiosa.
L’aspirazione
alla democrazia di una parte dei paesi rientranti nella denominazione
“islamici” è stata per molto tempo frustrata da una volontà di
potenza dell’occidente priva di un progetto serio e di lungo
periodo. La guerra civile in corso nel mondo islamico e la
globalizzazione del terrorismo di matrice jihadista risultano diversi
nella loro natura. Da un lato, le vecchie dittature sconfitte
dall’occidente (Iraq e Libia, ad esempio) hanno lasciato uno spazio
di potere alla crescita delle nuove oligarchie islamiste radicali
sostenute dalle potenze petrolifere della regione. Dall’altro, una
parte di cittadini europei figli dell’immigrazione hanno trovato
un’identità forte capace di arginare i processi di segregazione e
di povertà subiti nelle estese periferie metropolitane europee,
promuovendo un’istanza di ribellione a questa condizione di
subalternità. Non si pretende di giustificare l’atto, o gli atti,
di violenza perpetrati da cittadini europei in nome di un confuso
anti-occidentalismo, nondimeno parte di questi giovani sperimentano
quotidianamente la debolezza della democrazia e della sua incapacità
di combattere le disuguaglianze.
Come
qualcuno recentemente ha ricordato l’Isis, il califfato islamico,
promuove non solo terrore, guerra ma anche un esteso sistema di
welfare nelle zone occupate che accentua il consenso delle
popolazioni deprivate. In questo caso il legame tra la religione, la
società e l’economia si salda allontanando l’ipotesi di una
emancipazione democratica delle masse arabe-musulmane. A ciò si
aggiunge la cecità dell’occidente sui tradizionali alleati dei
paesi del Golfo con i quali si parla la stessa lingua del potere
economico e finanziario. Le speranze disattese delle “primavere
arabe”, tranne (forse) nel caso della Tunisia, nel dare una forma
democratica reale alle società islamiche è l’esempio lampante di
un diseguale ordine geopolitico che non vuole cambiare lo status quo
funzionale all’immagine reiterata di una inconciliabilità tra la
democrazia e l’Islam. Parafrasando una citazione, spesso evocata,
dal famoso libro di Samir Kassir “L’infelicità araba”, si può
affermare che nelle società islamiche vi sia una ineluttabile e
diffusa sensazione che il futuro e, aggiungiamo noi la democrazia,
sia una strada ostruita.
Quanto
è importante il linguaggio per veicolare pregiudizi e stereotipi?
C. Vercelli: Tralasciando i deboli e
fallaci convincimenti del “politicamente corretto”, dove si
ritiene invece che non nominando una cosa, o facendolo secondo un
lessico improntato a obblighi di espressione (quindi anche a censure
e autocensure) il linguaggio rimane un vettore fondamentale nel
generare stereotipi così come nel liberare energie e risorse. Non è
un caso se quei regimi politici che storicamente hanno fatto massimo
ricorso al razzismo come politica di Stato, abbiamo sempre aspirato a
contrarre il pluralismo lessicale e la grande ricchezza linguistica.
Poiché nella semplificazione della terminologia, nell’impoverimento
della lingua, nella riduzione dei significati si manifesta quel
fenomeno di banalizzazione che sta all’origine dell’indifferenza
verso l’altrui esistenza. Non di meno il linguaggio, per la sua
natura di veicolo di relazione, di scambio, di comunicazione è uno
degli snodi fondamentali dai quali si deve ripartire per dare
sostanza ad una politica di inclusione. Non è solo una questione di
“galateo”, e neanche di pedagogia civile ma di capacità di
costruire relazioni attive, basate non sulla sottomissione o sul
narcisismo, bensì sulla recirprocità.
A.
Alietti: Il linguaggio è fondamentale, senza di esso non è
possibile rappresentare il mondo sociale e raccontarlo. Di
conseguenze il vettore linguistico in riferimento alla riproduzione
ideologica del razzismo assume un valore decisivo. Nel quotidiano si
utilizzano termini e parole che rappresentano l’alterità etnica in
una ottica stereotipata la quale sedimenta immagini negative.
In
diversi studi sul linguaggio nei mass-media, nell’ambito della
socialità si evidenziano i meccanismi cognitivi che amplificano
l’omogeneità del proprio gruppo di appartenenza e, al contempo, la
distanza sociale da chi è diverso. Lo svelamento del linguaggio
razzista è un passo fondamentale per contrastare l’egemonia di un
diffuso e potente regime discorsivo che solidifica le pseudo ragioni
dell’avversione a determinati gruppi etnici. L’esempio classico
della frase “Io non sono razzista, ma….” segnala con chiarezza
la forza del linguaggio quotidiano a rappresentarsi quali portatori
di una verità indiscutibile ed auto-evidente. Il lessico razzista,
come affermato in precedenza, diventa sempre meno condannabile, da
cui ne consegue che lo sforzo di denunciare quantomeno le sue forme
pubbliche sia un impegno costante. Il problema non è di abbracciare
un fantomatico “political correct”, spesso grottesco nei suoi
risultati, ma di avviare una propedeutica del linguaggio del rispetto
e del riconoscimento dell’alterità nelle sue mutevoli declinazioni
(non solo etniche).
Perché,
come scrivete nel testo, nel razzismo si identifica una forma di
"falsa razionalità"?
C.
Vercelli: Il razzismo solo in parte nasce dall’ignoranza, come
comunemente si vorrebbe invece credere. Semmai, tanto più in una età
come quella che stiamo vivendo, è rimesso in circolazione dai
processi di globalizzazione. I quali, per la loro natura “liquida”,
dal momento stesso che mettono in discussione confini e sovranità,
come anche diritti e opportunità, alimentano paure e angosce da
sconfinamento. Tutto si fa più fragile e, a tratti, incomprensibile
nella percezione dei molti, che subiscono passivamente quanto
avviene. Il razzismo, non necessariamente inteso come una dottrina
precostituita bensì nella sua natura di interpretazione banalizzante
dei processi sociali e storici, dà invece un senso di
comprensibilità a ciò che altrimenti rischia di rimanere
incomprensibile. Per il fatto stesso di dividere l’umanità, di
rifiutarne la varietà, di stabilire delle gerarchie, di legittimare
rapporti di potere spesso ingiusti, si configura agli occhi di quanti
sono spiazzati e, nel medesimo tempo, disincantati rispetto al
mutamento in atto, come uno strumento attivo per “governare” le
difficoltà che incontrano. Si tratta di una falsa razionalità
perché dietro la plausibilità dei discorsi e delle condotte
razziste non c’è il mondo ma una immagine di esso, basata perlopi,
se non esclusivamente, sulla paura. Cosa che serve a fare da
propellente a condotte fondate sul pregiudizio, nella convinzione che
da ciò si possa trarre un beneficio personale. Non di meno, quando
tutto ciò si incontra e si traduce in politiche di Stato, come è
avvenuto ben più di una volta nel Novecento, il disastro collettivo
è dietro l’angolo.
A.
Alietti: La risposta a questa domanda si palesa nell’idea, più
volte richiamata, che il razzismo prefigura nella sua logica un
ordine sociale fondato su una razionalità auto-evidente,
indiscutibile, in grado di giustificare il suo affermarsi e il suo
riprodursi. La falsa razionalità, inoltre, si manifesta nel momento
in cui crea le condizioni per legami sociali fittizi, il più delle
volte, basati sul risentimento, dunque su emozioni che poco o nulla
hanno a che fare con la riflessione razionale.
In
altre parole, la vulgata razzista agisce come collettore di
insicurezze, frustrazioni collettive alle quali si fornisce una
spiegazione semplice delle cause attraverso l’individuazione dello
straniero quale responsabile tout court.
Ponendo
particolare attenzione al dibattito intorno alle vecchie e nuove
forme con cui il razzismo si è manifestato all’interno delle
società occidentali, il volume intitolato “Antisemitismo,
islamofobia e razzismo. Rappresentazioni, immaginari e pratiche
nella società italiana”, edito da Ediesse, ne discute i caratteri
sociali e storici, affrontando temi salienti quali l’antisemitismo
e l’islamofobia. Gli autori sono: Alfredo Alietti, Claudio
Vercelli e Dario Padovan.
L'Associazione
per i Diritti Umani ha intervistato per voi i Professori Alfredo
Alietti e Claudio Vercelli che ringrazia molto per la disponibilità.
Quali
sono le vecchie e nuove forme di razzismo e quali le loro matrici?
C.
Vercelli: Non è agevole distinguere tra vecchie e nuove forme di
razzismo, trattandosi di un fenomeno per più aspetti polimorfo,
ossia in grado di assumere connotazioni in base alle circostanze del
momento e alle esigenze di chi ne fa ricorso, non importa però
quanto consapevolmente. Piuttosto, ed è questo l’elemento dal
quale partire, il razzismo comprende una vasta gamma di atteggiamenti
basati sul pregiudizio che, dall’ indifferenza possono arrivare
anche alla violenza fisica fino, in ultimo, alle politiche di Stato
per l’eliminazione delle diversità attraverso la distruzione
fisica dei “diversi”. L’elemento peculiare ai razzismi, ovvero
condiviso comunemente, è il convincimento che un individuo non possa
né debba essere considerato in base alla sua personalità e alla sua
soggettività bensì come parte di una serie precostituita – la
cosiddetta “razza” – che assommerebbe in sé dei tratti
immutabili, Come tali questi influenzerebbero l’individuo medesimo
nelle sue condotte, nel suo modo di porsi dinanzi ai fatti del mondo,
nelle relazioni che intrattiene con il resto della comunità umana.
Tale attribuzione di caratteri fissi, ovvero intesi come immutabili,
ha una natura ascrittiva ed inchioda la persona ad una sorta di
“destino” immodificabile. Non a caso, il razzismo intende la
diversità come un dato di natura e non come una costruzione sociale.
Il qual fatto induce, chi fa propria tale visione delle cose, a
ritenere che sia impossibile trasformare gli altri (ma anche se
stessi) e che da tale riscontro non possa che derivare un conflitto
tra le diversità oppure l’obbligo ad adottare politiche di
separazione tra gli appartenenti a gruppi razziali diversi se non, in
ultimo, l’eliminazione di quanti sono ritenuti una minaccia per la
propria sopravvivenza. Sta, all’interno del dispositivo razzista,
una concezione del mondo che cancella la cultura, intesa come insieme
di pratiche umane evolutive, fondate sullo scambio, alla quale si
sostituisce l’idea che le differenze non compongono il quadro della
varietà umana ma una sorta di confine insormontabile e come tale
perennemente a rischio da parte di chi, invece, pratica i meticciati.
Un elemento fondamentale per relazionare i razzismi contemporanei da
un punto di vista storico è verificare, tra gli altri, due elementi
indice: le migrazioni e la struttura del mercato del lavoro. Il
razzismo, da tale punto di vista, riordina i rapporti di forza e di
dominio, stabilendo scale gerarchiche, vincolando le scelte degli
uni, allocando risorse a favore di altri e così via.
A.
Alietti: Nella prospettiva sociologica e psicosociologica la
questione delle forme mediante le quali si manifesta l’atteggiamento
razzista risulta assai ampia. A partire dalla metà degli anni ’70
alcuni studi rivelarono come l’attore sociale tendesse ad esprimere
opinioni e atteggiamenti avversi alle minoranze etniche in maniera
indiretta, occultando il più possibile quelle forme linguisticamente
aperte e dirette, in contrasto con le norme sociali di condanna del
razzismo. Da tale analisi, vi è stato un fiorire di termini con cui
indicare questa inedita forma: razzismo moderno, simbolico, nascosto,
debole. Indubbiamente, il clima culturale europeo e nordamericano,
pur con dei profondi distinguo legati alla specificità storica dei
rapporti interetnici, sorto alla fine della guerra mondiale con il
portato del genocidio nazista ha contribuito a combattere l’ideologia
razzista fondata sulla dimensione biologica che legittimava la
gerarchia tra le supposte diverse razze.
Ciò
non ha significato il venire meno del razzismo quale fenomeno di
esclusione di determinati gruppi nel dopo guerra fino ad oggi.
Infatti, alla parola razza che ha accompagnato il discorso scientista
a cavallo del XIX e XX secolo si è sostituito il concetto di etnia,
ovvero un approccio culturalista alle differenze il quale appare meno
escludente in termini generali e più democratico nel trovare “buone
ragioni” all’atteggiamento razzista. Tuttavia, questa alchimia
sociale che nasconde l’atteggiamento di rifiuto della diversità
etnica non ha mutato nel profondo il senso del razzismo tradizionale.
Alla cristallizzazione di caratteri biologici si è venuta a
costruire una retorica sociale che cristallizza ed essenzializza i
tratti culturali, in una sorta di “biologizzazione molle”. Su
questo piano di analisi si avverte come vi sia una forte continuità
tra il cosiddetto “vecchio” e “nuovo razzismo”, al di là
delle definizioni adottate dagli studiosi negli ultimi trent’anni.
L’orizzonte comune è un discorso sull’immutabilità (di razza
e/o di etnica) dei destini dei soggetti sui quali si riversa la
logica razzizzante dentro un disegno gerarchico delle diversità
umane sostenute e rafforzate da politiche istituzionali tese a
riprodurre tale ordine sociale ed etnico. Inoltre, alla luce delle
dinamiche sociali, politiche, economiche e culturali occorse in
Europa, dall’avvento della globalizzazione e del trionfo del
neoliberalismo, vi è da valutare seriamente gli effetti della crisi
del multiculturalismo e di crescenti conflitti interni ai paesi
europei generati dalla perdurante crisi e dalle retoriche
neo-nazionaliste, populiste e, specificatamente, anti-islamiche.
Appare evidente che nella nostra contemporaneità il razzismo sia
divenuto un potente fattore di legame sociale in negativo,
soprattutto a fronte della crescente insicurezza e instabilità delle
traiettorie dei gruppi autoctoni più vulnerabili e più prossimi
socialmente agli immigrati. Basta osservare con un minimo di
attenzione alle reazioni nello spazio neutro del web, ad esempio ai
commenti delle notizie dei giornali nazionali on-line, per verificare
che dichiararsi razzisti non più argini, non ha più quel velo, per
quanto ipocrita, di possibile condanna collettiva.
Il
razzismo oggi è sociologicamente e socialmente ancora forte e in
grado di minare le basi degli assetti democratici e della convivenza.
Qual
è il legame tra religione, politica ed economia, soprattutto in
relazione all'Islam di cui si è parlato da poco, anche alla luce dei
fatti di Parigi?
C.
Vercelli: Impossibile dare una risposta esaustiva a questa domanda.
Non in poche righe, almeno. Ciò a cui stiamo assistendo non è il
ritorno della religione ma il suo spregiudicato uso politico. Dinanzi
a società che mutano, anche drasticamente e repentinamente, e
davanti alla marginalità di un grande numero di persone, escluse dal
mercato del lavoro così come dalla partecipazione politica, il
razzismo cavalca disagi e timori, traducendosi in condotte xenofobe.
Più che ad uno scontro tra civiltà, come certuni prediligono
affermare, ci troviamo di fronte alla crisi interna alle stesse
“civiltà”, e soprattutto alle società che hanno prodotto,
laddove queste non riescono a dare risposte adeguate al bisogno di
integrazione degli individui. Parlerei quindi di una crisi della
politica, nel momento in cui questa dovrebbe essere il mezzo più
importante per creare le condizioni della convivenza e, invece, non
riesce a svolgere tale funzione. Non di meno il razzismo, che non è
solo un problema del mondo cosiddetto occidentale ma attraversa un
po’ tutte le comunità umane, si inserisce all’interno dei grandi
disagi collettivi scavando solchi incolmabili. Se la politica è in
crisi, e se invece certe ideologie hanno spazio oltre misura, ciò è
dovuto anche al fatto che l’idea che l’economia sia il punto di
partenza e di arrivo dell’uomo – in buona sostanza alla pari
quasi di una religione – oggi più che integrare tende a
disintegrare le persone, corrodendone i legami con la comunità di
riferimento e consegnandoli ad una solitudine senza consolazione.
A.
Alietti: Il tema di questa complessa relazione richiederebbe
un’analisi approfondita in grado di ricomprendere passati processi
sociali e storici con quelli attuali. Il fondamentalismo islamico non
è l’esito impazzito e irrazionale di eventi caotici che hanno
favorito il suo emergere quale realtà diffusa nel mondo islamico. Vi
di fatto nella comprensione dell’Islam e delle sue derive uno
spirito etnocentrico che ne confonde la sua articolata espressione
politica, economica e religiosa.
L’aspirazione
alla democrazia di una parte dei paesi rientranti nella denominazione
“islamici” è stata per molto tempo frustrata da una volontà di
potenza dell’occidente priva di un progetto serio e di lungo
periodo. La guerra civile in corso nel mondo islamico e la
globalizzazione del terrorismo di matrice jihadista risultano diversi
nella loro natura. Da un lato, le vecchie dittature sconfitte
dall’occidente (Iraq e Libia, ad esempio) hanno lasciato uno spazio
di potere alla crescita delle nuove oligarchie islamiste radicali
sostenute dalle potenze petrolifere della regione. Dall’altro, una
parte di cittadini europei figli dell’immigrazione hanno trovato
un’identità forte capace di arginare i processi di segregazione e
di povertà subiti nelle estese periferie metropolitane europee,
promuovendo un’istanza di ribellione a questa condizione di
subalternità. Non si pretende di giustificare l’atto, o gli atti,
di violenza perpetrati da cittadini europei in nome di un confuso
anti-occidentalismo, nondimeno parte di questi giovani sperimentano
quotidianamente la debolezza della democrazia e della sua incapacità
di combattere le disuguaglianze.
Come
qualcuno recentemente ha ricordato l’Isis, il califfato islamico,
promuove non solo terrore, guerra ma anche un esteso sistema di
welfare nelle zone occupate che accentua il consenso delle
popolazioni deprivate. In questo caso il legame tra la religione, la
società e l’economia si salda allontanando l’ipotesi di una
emancipazione democratica delle masse arabe-musulmane. A ciò si
aggiunge la cecità dell’occidente sui tradizionali alleati dei
paesi del Golfo con i quali si parla la stessa lingua del potere
economico e finanziario. Le speranze disattese delle “primavere
arabe”, tranne (forse) nel caso della Tunisia, nel dare una forma
democratica reale alle società islamiche è l’esempio lampante di
un diseguale ordine geopolitico che non vuole cambiare lo status quo
funzionale all’immagine reiterata di una inconciliabilità tra la
democrazia e l’Islam. Parafrasando una citazione, spesso evocata,
dal famoso libro di Samir Kassir “L’infelicità araba”, si può
affermare che nelle società islamiche vi sia una ineluttabile e
diffusa sensazione che il futuro e, aggiungiamo noi la democrazia,
sia una strada ostruita.
Quanto
è importante il linguaggio per veicolare pregiudizi e stereotipi?
C. Vercelli: Tralasciando i deboli e
fallaci convincimenti del “politicamente corretto”, dove si
ritiene invece che non nominando una cosa, o facendolo secondo un
lessico improntato a obblighi di espressione (quindi anche a censure
e autocensure) il linguaggio rimane un vettore fondamentale nel
generare stereotipi così come nel liberare energie e risorse. Non è
un caso se quei regimi politici che storicamente hanno fatto massimo
ricorso al razzismo come politica di Stato, abbiamo sempre aspirato a
contrarre il pluralismo lessicale e la grande ricchezza linguistica.
Poiché nella semplificazione della terminologia, nell’impoverimento
della lingua, nella riduzione dei significati si manifesta quel
fenomeno di banalizzazione che sta all’origine dell’indifferenza
verso l’altrui esistenza. Non di meno il linguaggio, per la sua
natura di veicolo di relazione, di scambio, di comunicazione è uno
degli snodi fondamentali dai quali si deve ripartire per dare
sostanza ad una politica di inclusione. Non è solo una questione di
“galateo”, e neanche di pedagogia civile ma di capacità di
costruire relazioni attive, basate non sulla sottomissione o sul
narcisismo, bensì sulla reciprocità.
A.
Alietti: Il linguaggio è fondamentale, senza di esso non è
possibile rappresentare il mondo sociale e raccontarlo. Di
conseguenze il vettore linguistico in riferimento alla riproduzione
ideologica del razzismo assume un valore decisivo. Nel quotidiano si
utilizzano termini e parole che rappresentano l’alterità etnica in
una ottica stereotipata la quale sedimenta immagini negative.
In
diversi studi sul linguaggio nei mass-media, nell’ambito della
socialità si evidenziano i meccanismi cognitivi che amplificano
l’omogeneità del proprio gruppo di appartenenza e, al contempo, la
distanza sociale da chi è diverso. Lo svelamento del linguaggio
razzista è un passo fondamentale per contrastare l’egemonia di un
diffuso e potente regime discorsivo che solidifica le pseudo ragioni
dell’avversione a determinati gruppi etnici. L’esempio classico
della frase “Io non sono razzista, ma….” segnala con chiarezza
la forza del linguaggio quotidiano a rappresentarsi quali portatori
di una verità indiscutibile ed auto-evidente. Il lessico razzista,
come affermato in precedenza, diventa sempre meno condannabile, da
cui ne consegue che lo sforzo di denunciare quantomeno le sue forme
pubbliche sia un impegno costante. Il problema non è di abbracciare
un fantomatico “political correct”, spesso grottesco nei suoi
risultati, ma di avviare una propedeutica del linguaggio del rispetto
e del riconoscimento dell’alterità nelle sue mutevoli declinazioni
(non solo etniche).
Perché,
come scrivete nel testo, nel razzismo si identifica una forma di
"falsa razionalità"?
C.
Vercelli: Il razzismo solo in parte nasce dall’ignoranza, come
comunemente si vorrebbe invece credere. Semmai, tanto più in una età
come quella che stiamo vivendo, è rimesso in circolazione dai
processi di globalizzazione. I quali, per la loro natura “liquida”,
dal momento stesso che mettono in discussione confini e sovranità,
come anche diritti e opportunità, alimentano paure e angosce da
sconfinamento. Tutto si fa più fragile e, a tratti, incomprensibile
nella percezione dei molti, che subiscono passivamente quanto
avviene. Il razzismo, non necessariamente inteso come una dottrina
precostituita bensì nella sua natura di interpretazione banalizzante
dei processi sociali e storici, dà invece un senso di
comprensibilità a ciò che altrimenti rischia di rimanere
incomprensibile. Per il fatto stesso di dividere l’umanità, di
rifiutarne la varietà, di stabilire delle gerarchie, di legittimare
rapporti di potere spesso ingiusti, si configura agli occhi di quanti
sono spiazzati e, nel medesimo tempo, disincantati rispetto al
mutamento in atto, come uno strumento attivo per “governare” le
difficoltà che incontrano. Si tratta di una falsa razionalità
perché dietro la plausibilità dei discorsi e delle condotte
razziste non c’è il mondo ma una immagine di esso, basata perlopi,
se non esclusivamente, sulla paura. Cosa che serve a fare da
propellente a condotte fondate sul pregiudizio, nella convinzione che
da ciò si possa trarre un beneficio personale. Non di meno, quando
tutto ciò si incontra e si traduce in politiche di Stato, come è
avvenuto ben più di una volta nel Novecento, il disastro collettivo
è dietro l’angolo.
A.
Alietti: La risposta a questa domanda si palesa nell’idea, più
volte richiamata, che il razzismo prefigura nella sua logica un
ordine sociale fondato su una razionalità auto-evidente,
indiscutibile, in grado di giustificare il suo affermarsi e il suo
riprodursi. La falsa razionalità, inoltre, si manifesta nel momento
in cui crea le condizioni per legami sociali fittizi, il più delle
volte, basati sul risentimento, dunque su emozioni che poco o nulla
hanno a che fare con la riflessione razionale.
In
altre parole, la vulgata razzista agisce come collettore di
insicurezze, frustrazioni collettive alle quali si fornisce una
spiegazione semplice delle cause attraverso l’individuazione dello
straniero quale responsabile tout court.