"...Non si potrà avere un globo pulito se gli uomini sporchi restano impuniti. E' un ideale che agli scettici potrà sembrare utopico, ma è su ideali come questo che la civiltà umana ha finora progredito (per quello che poteva). Morte le ideologie che hanno funestato il Novecento, la realizzazione di una giustizia più giusta distribuita agli abitanti di questa Terra è un sogno al quale vale la pena dedicare il nostro stato di veglia".
mercoledì 30 settembre 2015
L'ultimo arrivato: il romanzo vincitore del premio Campiello
Negli anni Cinquanta a spostarsi dal Meridione al Nord in cerca di lavoro non erano solo uomini e donne pronti all’esperienza e alla vita, ma anche bambini a volte più piccoli di dieci anni che mai si erano allontanati da casa. Il fenomeno dell’emigrazione infantile coinvolge migliaia di ragazzini che dicevano addio ai genitori, ai fratelli, e si trasferivano spesso per sempre nelle lontane metropoli. Questo romanzo è la storia di uno di loro,di un piccolo emigrante, Ninetto detto pelleossa, che abbandona la Sicilia e si reca a Milano. Era la fine del ’59, avevo nove anni e uno a quell’età preferirebbe sempre il suo paese, anche se è un cesso di paese e niente affatto quello dei balocchi». Ninetto parte e fugge, lascia dietro di sé una madre ridotta al silenzio e un padre che preferisce saperlo lontano ma con almeno un cenno di futuro. Quando arriva a destinazione, davanti agli occhi di un bambino che non capisce più se è «picciriddu» o adulto si spalanca il nuovo mondo, la scoperta della vita e di sé.
Queste alcuni brani della descrizione del romanzo L'ultimo arrivato, edito da Sellerio, di Marco Balzano, vincitore del premio Campiello 2015.
L'Associazione per i Diritti Umani ha intervistato l'autore che ci regalato queste sue parole.
Ringraziamo tantissimo Marco Balzano.
Quanto è importante, oggi, ricordare l'emigrazione interna italiana?
Moltissimo. La memoria va tenuta in vita per rapportarsi in maniera più efficace col presente. È utile per non interpretare tutto alla luce di allarmismi e demagogie, ma in maniera politicamente più incisiva per risolvere civilmente le grandi questioni e migliorare la nostra immagine rispetto ad atteggiamenti passati.
Perché la scelta di un bambino come protagonista della storia?
Perché l'emigrazione infantile e minorile in genere è stata una faccia dell'emigrazione di cui, nonostante il tema in genere sia stato molto battuto anche in letteratura per tutto il secolo scorso e l'inizio del nuovo millennio, si è parlato poco, per non dire niente.
Non si tratta di un racconto autobiografico: quali sono state le ricerche che hanno preceduto la stesura del libro?
No, non c'è nulla di autobiografico. Anzi, la difficoltà è stata togliersi completamente, non inciampare in questa storia. Ho prima studiato l'argomento dal punto di vista storico e sociologico, poi ho intervistato quei settantenni che sono emigrati da “picciriddi”. L'ho fatto senza prendere appunti, in modo che le loro parole si potessero liberamente confondere in me e dar vita a un personaggio di fantasia ma che prendesse spunto da vite vere. Volevo scrivere un storia, una narrazione, non un romanzo storico o sociologico: la storia di una vita.
Quali sono le riflessioni che il testo suggerisce ai ragazzi che lo leggeranno?
Il mondo dei giovani, ancor più di quello degli adulti, corre velocissimo. Tutto cambia in fretta, non si fa in tempo a desiderare qualcosa che subito ne esiste una versione più aggiornata. In questa rapidità le vite diverse dalle nostre sembrano sempre trapassato remoto. Non è così, invece: e la letteratura in genere ci connette con tempi, spazi ed esistenze in cui non eravamo presenti. Compie un'operazione di avvicinamento del diverso e dell'ignoto e permette di conoscerlo. Nel mio piccolo, penso che anche la storia di Ninetto, il mio protagonista, possa innescare questo processo di scoperta.
A chi dedica questo premio?
A mia figlia Caterina e a mia moglie Anna, un editor straordinario che ha vagliato e setacciato tutte le mie parole rendendole migliori. E poi, si sa, non è mai semplice convivere con uno scrittore!
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martedì 29 settembre 2015
L' arresto del politico kurdo Abdullah Demirbas aumenta le tensioni nel sud-est della Turchia
Dal 4 settembre nel Sudest della Turchia si sono riaccese tensioni che sembravano sopite: c'è il coprifuoco a Cizîra Botan (Cizre), e ci sono cecchini sui minareti e altre alte torri della città. Diversi altri villaggi nelle regioni kurde della Turchia sono stati tagliati fuori dal mondo esterno da parte delle forze di sicurezza turche. Questa situazione riguarda anche il quartiere centrale di Sur a Diyarbakir, la capitale non ufficiale del Kurdistan turco. Inoltre, il governo turco ha deciso di arrestare rappresentanti e politici kurdi eletti, tra i quali il popolare ex sindaco di Diyarbakir Abdullah Demirbas, per aver partecipato alle campagne contro gli arresti di giovani kurdi. Demirbas era già stato imprigionato per diversi anni una prima volta, perché aveva sostenuto l'uso della lingua kurda.
Nella sua posizione di sindaco Demirbas aveva mostrato un forte impegno nei confronti dei diritti delle minoranze. Andando decisamente contro la volontà di Erdogan, aveva deciso di far restaurare una chiesa armena e una chiesa siro-ortodossa. Aveva anche visitato Israele, dove aveva cercato di ristabilire i contatti con gli Ebrei che un tempo vivevano a Diyarbakir e nelle regioni kurde. Nel 2007, è stato sollevato dal suo incarico per la prima volta, perché aveva tenuto pubblicamente un discorso in lingua kurda. Dopo la sua rielezione nel 2009, le autorità turche avevano "trovato" nuove accuse contro di lui. Due mesi dopo il suo insediamento, è stato condannato a due anni di carcere per "crimini linguistici". A causa della sua salute cagionevole, è stato rilasciato presto. Anche questa volta però si trova in cattive condizioni di salute - e sua figlia Ezgi Demirbas è particolarmente preoccupata: "La salute di mio padre si sta deteriorando. Da ieri sera (14 settembre), i medici e l'avvocato che è presente in ospedale segnalano che la sua condizione sta peggiorando".
Le già fortissime tensioni degli ultimi giorni nel Sudest della Turchia, con l'arresto di Abdullah Demirbas si sono ulteriormente inasprite. I sostenitori del partito islamico al governo AKP e del partito nazionalista MHP stanno cercando di denunciare l'opposizione kurda democratica - mentre è proprio questa opposizione che da settimane chiede la fine delle violenze tra il PKK kurdo e l'esercito turco. Così il co-presidente del pro-kurdo Partito Democratico del Popolo (HDP) ed ex presidente dell'Associazione per i diritti umani di Diyarbakir, Selahattin Demirtas, ha chiesto ufficialmente sia al PKK kurdo sia al governo turco di fermare la violenza e di riprendere i negoziati di pace. La detenzione dei rappresentanti dell'opposizione democratica non farà altro che aumentare le tensioni. L'arresto di Demirbas in qualche modo colpisce direttamente anche gli Assiri / Aramei / Caldei, Yezidi e gli Armeni che ancora vivono nel sud-est della Turchia. Mentre Demirbas si batte per la tolleranza e la convivenza pacifica, da anni il governo dell'AKP cerca di propagandare una ideologia islamista fra i Kurdi principalmente musulmani sunniti. Questa ideologia rappresenta un grande pericolo per queste minoranze e per i milioni di Aleviti che vivono in Turchia.
Vedi anche in gfbv.it: www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150828it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150806it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150730it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150727it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150624it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150611it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150609it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150522it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150320it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150128it.html | www.gfbv.it/3dossier/kurdi/indexkur.html | www.gfbv.it/3dossier/kurdi/kurtur-it.html
in www: http://it.wikipedia.org/wiki/Yazidi | http://it.wikipedia.org/wiki/Kurdistan
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lunedì 28 settembre 2015
Intervista ad Andrea Margelletti, Presidente del Centro Studi Internazionali
L'Associazione
per i Diritti Umani ha rivolto, per voi, alcune domande al Dott.
Andrea Margelletti, Presidente del Centro Studi Internazionali
(Ce.S.I.) e lo ringrazia molto per la sua disponibilità.
E'
probabile che tra i migrati che arrivano in Europa ci siano persone
“pericolose”? Come combattere la cultura della paura, diffusa da
alcune parti politiche?
Bisognerebbe
definire cosa vuol dire “pericolose”: una cosa sono i terroristi,
un'altra sono i criminali. Sul fatto che arrivino criminali o persone
che in poco tempo vanno a delinquere, mi pare evidente perchè è una
realtà che accomuna tutte le migrazioni. Chi si sposta in condizioni
disperate, in alcuni casi, può essere attratto dai guadagni facili e
questo è successo anche agli italiani che sono emigrati all'estero;
quindi si tratta di un fenomeno endemico nei grandi numeri.
Altra
cosa, invece, è il terrorismo: fino ad ora non ci sono risultati
terroristi arrivati con i barconi anche perchè il terrorista è una
persona estremamente formata, preziosa per il gruppo terroristico e
non si rischia di metterlo su un barcone dove può affondare; è più
facile che arrivi in Europa con un visto turistico o, addirittura,
che sia cittadino europeo.
Per
bloccare il traffico umano è inutile arrestare solo gli scafisti.
Quali operazioni sarebbero necessarie allo scopo?
Le
operazioni che nessuno si sente in grado di fare: sarebbe opportuno
intervenire nelle zone per cui le persone partono (e non mi riferisco
soltanto alla Libia, ma anche all'Africa sub-sahariana) con delle
politiche di lunghissimo termine ed estremamente costose. Al momento,
non mi pare che alcun Paese europeo o occidentale abbia voglia di
spendere miliardi di euro per questo tipo di attività che richiedono
molti anni per vedere i primi risultati.
Qual è
il suo parere, quindi, riguardo alle politiche europee in termini di
sicurezza e di immigrazione?
Dal
punto di vista della sicurezza interna, c'è grandissima
collaborazione tra le forze di polizia e i servizi di
informazione-sicurezza. Poi ciascun Paese adotta, sul proprio
territorio nazionale, le misure che ritene più efficaci e opportune.
In
termini di immigrazione non c'è una reale politica europea: l'Italia
è stata lasciata sola ad affrontare il problema. Spesso la Ue, di
fronte a problemi grossi, diventa una realtà di singoli e non più
un'unione.
La
comunità internazionale dovrebbe intervenire in alcune aree del
mondo, ad esempio in Siria?
In Siria
sono già presenti alcune ONG e sono in atto alcune operazioni – da
parte della comunità internazionale – contro l'Isis, ma mi pare
che anche in Siria, per l'ennesima volta, non vi sia, a livello di
Paesi occidentali, una visione comune su come affrontare il problema.
Prima di
tutto dovremmo avere una politica comune, a fonte della quale si
fanno scelte comuni che possano essere anche sbagliate, ma che almeno
sono condivise da tutti. Il fatto di procedere in maniera disunita ci
rende deboli e vulnerabili.
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domenica 27 settembre 2015
Berlino accolga anche chi fugge per fame. La maggior parte delle persone che attraversano i confini europei per trovare lavoro e costruire nuove vite non sono rifugiati.
di Ian Buruma (da La stampa)
Com’è
commovente arrivare in Germania, dove i tifosi di calcio reggono
striscioni di benvenuto ai rifugiati dal Medio Oriente devastato
dalla guerra. La Germania è la nuova terra promessa per i disperati
e gli oppressi, i sopravvissuti alla guerra e alla razzia.
Anche i tabloid tedeschi popolari, di norma non molto disponibili, stanno promuovendo la volontà di aiutare. Mentre i politici nel Regno Unito e in altri Paesi si torcono le mani e spiegano perché anche un afflusso relativamente minore di siriani, libici, iracheni, o eritrei rappresenta una minaccia letale per il tessuto sociale delle loro società, «Mama Merkel» ha promesso che la Germania non rifiuterà nessun autentico rifugiato.
Si stima che quest’anno entreranno in Germania 800 mila rifugiati, mentre il primo ministro britannico David Cameron sta sollevando un polverone per meno di 30 mila domande di asilo e lancia cupi allerta su «sciami di persone» che attraversano il Mare del Nord. E, a differenza della Merkel, Cameron è in parte responsabile per aver attizzato una delle guerre (Libia) che hanno reso la vita insopportabile per milioni di persone. Non c’è da stupirsi che la Merkel voglia che i Paesi europei prendano più rifugiati nell’ambito di un sistema di quote obbligatorie.
In realtà, nonostante la retorica ansiogena dei suoi politici, il Regno Unito ha una società etnicamente più mescolata, e per certi versi più aperta, della Germania. Londra è incomparabilmente più cosmopolita di Berlino e Francoforte. E, nel complesso, la Gran Bretagna ha ampiamente beneficiato dell’immigrazione. Infatti, il Servizio Sanitario Nazionale ha avvertito che accettare meno immigrati sarebbe catastrofico e lascerebbe gli ospedali britannici gravemente a corto di personale.
Lo stato d’animo della Germania contemporanea può essere eccezionale. Accettare rifugiati, o qualsiasi genere di immigrati, non è mai stato facile politicamente. Alla fine degli Anni 30, quando gli ebrei in Germania e in Austria erano in pericolo di vita, pochi Paesi, tra cui i ricchi Stati Uniti, erano pronti a prendere più di una manciata di rifugiati. La Gran Bretagna aprì le porte a circa 10 mila bambini ebrei nel 1939, all’ultimo minuto, e solo a condizione che avessero sponsor locali e non avessero con loro i genitori.
Dire che l’atteggiamento generoso della Germania di oggi ha molto a che fare con il comportamento omicida dei tedeschi in passato non serve a spiegarlo. Anche i giapponesi portano un carico di crimini storici, ma il loro atteggiamento verso gli stranieri in difficoltà è molto meno accogliente. Anche se pochi tedeschi hanno ricordi personali del Terzo Reich, molti sentono ancora il bisogno di dimostrare che hanno imparato dalla storia del loro Paese.
Ma l’attenzione quasi esclusiva dei politici e dei media sull’attuale crisi dei rifugiati nasconde questioni più ampie sull’immigrazione. Le immagini di misere famiglie di profughi alla deriva in mare, in balia di contrabbandieri e gangster rapaci, può facilmente ispirare sentimenti di pietà e compassione (e non solo in Germania). Ma la maggior parte delle persone che attraversano i confini europei per trovare lavoro e costruire nuove vite non sono rifugiati.
Quando i funzionari britannici hanno detto che era «chiaramente deludente» che in Gran Bretagna ci fossero 300 mila persone in più rispetto a quante ne fossero andate via nel 2014, non stavano parlando principalmente di richiedenti asilo. La maggioranza di questi nuovi arrivati provengono da altri Paesi dell’Unione europea, come la Polonia, la Romania e la Bulgaria.
Alcuni entrano come studenti, e alcuni per cercare un lavoro. Non vengono per salvarsi la vita, ma per migliorarla. Accomunando i richiedenti asilo con i migranti economici, questi ultimi sono screditati come se stessero cercando di intrufolarsi con falsi pretesti.
È opinione diffusa che i migranti economici, dentro o fuori dell’Ue, siano principalmente poveri intenzionati a vivere con i soldi delle tasse pagate dai relativamente ricchi. In realtà, la maggior parte di loro non sono parassiti. Vogliono lavorare.
I vantaggi per i Paesi ospitanti sono facili da vedere: i migranti economici spesso lavorano di più per meno soldi rispetto alla gente del posto. Questo, per la verità, non è nell’interesse di tutti: ricordare i benefici della manodopera a basso costo non persuade le persone a rischio di vedersi tagliare il salario. È, in ogni caso, più facile fare appello alla compassione per i rifugiati che all’accettazione dei migranti economici. Anche in Germania.
Nel 2000, il Cancelliere tedesco Gerhard Schröder voleva rilasciare visti di lavoro per circa 20.000 stranieri esperti di alta tecnologia, molti dei quali provenienti dall’India. La Germania ne aveva un grande bisogno ma Schröder incontrò una dura opposizione. Un politico coniò lo slogan «Kinder statt Inder» (bambini invece di indiani).
Ma i tedeschi, come i cittadini di molti altri Paesi ricchi, non producono abbastanza bambini. Questi Paesi hanno bisogno di immigrati con energia giovanile e competenze per riempire i posti di lavoro che i locali, per qualsiasi motivo, non sono in grado o non vogliono. Questo non significa che tutte le frontiere debbano essere aperte a tutti. L’idea della Merkel delle quote per i rifugiati dovrebbe essere applicata anche ai migranti economici.
Finora, tuttavia, l’Ue non ha saputo adottare una politica coerente sull’immigrazione. I cittadini dell’Ue possono circolare liberamente all’interno dell’Unione (la Gran Bretagna vuole fermare anche questo, ma è improbabile che possa avere successo). Ma l’immigrazione economica dai Paesi non Ue, in condizioni da organizzare in modo accurato, è indispensabile e legittima. Questo non perché i migranti meritino la simpatia degli europei, ma perché l’Europa ha bisogno di loro.
Non sarà facile. La maggior parte delle persone sembrano essere più facilmente influenzate dalle emozioni - che possono portarle all’omicidio di massa o a un’autentica compassione, a seconda delle circostanze - che dal freddo e razionale calcolo del loro interesse personale.
Anche i tabloid tedeschi popolari, di norma non molto disponibili, stanno promuovendo la volontà di aiutare. Mentre i politici nel Regno Unito e in altri Paesi si torcono le mani e spiegano perché anche un afflusso relativamente minore di siriani, libici, iracheni, o eritrei rappresenta una minaccia letale per il tessuto sociale delle loro società, «Mama Merkel» ha promesso che la Germania non rifiuterà nessun autentico rifugiato.
Si stima che quest’anno entreranno in Germania 800 mila rifugiati, mentre il primo ministro britannico David Cameron sta sollevando un polverone per meno di 30 mila domande di asilo e lancia cupi allerta su «sciami di persone» che attraversano il Mare del Nord. E, a differenza della Merkel, Cameron è in parte responsabile per aver attizzato una delle guerre (Libia) che hanno reso la vita insopportabile per milioni di persone. Non c’è da stupirsi che la Merkel voglia che i Paesi europei prendano più rifugiati nell’ambito di un sistema di quote obbligatorie.
In realtà, nonostante la retorica ansiogena dei suoi politici, il Regno Unito ha una società etnicamente più mescolata, e per certi versi più aperta, della Germania. Londra è incomparabilmente più cosmopolita di Berlino e Francoforte. E, nel complesso, la Gran Bretagna ha ampiamente beneficiato dell’immigrazione. Infatti, il Servizio Sanitario Nazionale ha avvertito che accettare meno immigrati sarebbe catastrofico e lascerebbe gli ospedali britannici gravemente a corto di personale.
Lo stato d’animo della Germania contemporanea può essere eccezionale. Accettare rifugiati, o qualsiasi genere di immigrati, non è mai stato facile politicamente. Alla fine degli Anni 30, quando gli ebrei in Germania e in Austria erano in pericolo di vita, pochi Paesi, tra cui i ricchi Stati Uniti, erano pronti a prendere più di una manciata di rifugiati. La Gran Bretagna aprì le porte a circa 10 mila bambini ebrei nel 1939, all’ultimo minuto, e solo a condizione che avessero sponsor locali e non avessero con loro i genitori.
Dire che l’atteggiamento generoso della Germania di oggi ha molto a che fare con il comportamento omicida dei tedeschi in passato non serve a spiegarlo. Anche i giapponesi portano un carico di crimini storici, ma il loro atteggiamento verso gli stranieri in difficoltà è molto meno accogliente. Anche se pochi tedeschi hanno ricordi personali del Terzo Reich, molti sentono ancora il bisogno di dimostrare che hanno imparato dalla storia del loro Paese.
Ma l’attenzione quasi esclusiva dei politici e dei media sull’attuale crisi dei rifugiati nasconde questioni più ampie sull’immigrazione. Le immagini di misere famiglie di profughi alla deriva in mare, in balia di contrabbandieri e gangster rapaci, può facilmente ispirare sentimenti di pietà e compassione (e non solo in Germania). Ma la maggior parte delle persone che attraversano i confini europei per trovare lavoro e costruire nuove vite non sono rifugiati.
Quando i funzionari britannici hanno detto che era «chiaramente deludente» che in Gran Bretagna ci fossero 300 mila persone in più rispetto a quante ne fossero andate via nel 2014, non stavano parlando principalmente di richiedenti asilo. La maggioranza di questi nuovi arrivati provengono da altri Paesi dell’Unione europea, come la Polonia, la Romania e la Bulgaria.
Alcuni entrano come studenti, e alcuni per cercare un lavoro. Non vengono per salvarsi la vita, ma per migliorarla. Accomunando i richiedenti asilo con i migranti economici, questi ultimi sono screditati come se stessero cercando di intrufolarsi con falsi pretesti.
È opinione diffusa che i migranti economici, dentro o fuori dell’Ue, siano principalmente poveri intenzionati a vivere con i soldi delle tasse pagate dai relativamente ricchi. In realtà, la maggior parte di loro non sono parassiti. Vogliono lavorare.
I vantaggi per i Paesi ospitanti sono facili da vedere: i migranti economici spesso lavorano di più per meno soldi rispetto alla gente del posto. Questo, per la verità, non è nell’interesse di tutti: ricordare i benefici della manodopera a basso costo non persuade le persone a rischio di vedersi tagliare il salario. È, in ogni caso, più facile fare appello alla compassione per i rifugiati che all’accettazione dei migranti economici. Anche in Germania.
Nel 2000, il Cancelliere tedesco Gerhard Schröder voleva rilasciare visti di lavoro per circa 20.000 stranieri esperti di alta tecnologia, molti dei quali provenienti dall’India. La Germania ne aveva un grande bisogno ma Schröder incontrò una dura opposizione. Un politico coniò lo slogan «Kinder statt Inder» (bambini invece di indiani).
Ma i tedeschi, come i cittadini di molti altri Paesi ricchi, non producono abbastanza bambini. Questi Paesi hanno bisogno di immigrati con energia giovanile e competenze per riempire i posti di lavoro che i locali, per qualsiasi motivo, non sono in grado o non vogliono. Questo non significa che tutte le frontiere debbano essere aperte a tutti. L’idea della Merkel delle quote per i rifugiati dovrebbe essere applicata anche ai migranti economici.
Finora, tuttavia, l’Ue non ha saputo adottare una politica coerente sull’immigrazione. I cittadini dell’Ue possono circolare liberamente all’interno dell’Unione (la Gran Bretagna vuole fermare anche questo, ma è improbabile che possa avere successo). Ma l’immigrazione economica dai Paesi non Ue, in condizioni da organizzare in modo accurato, è indispensabile e legittima. Questo non perché i migranti meritino la simpatia degli europei, ma perché l’Europa ha bisogno di loro.
Non sarà facile. La maggior parte delle persone sembrano essere più facilmente influenzate dalle emozioni - che possono portarle all’omicidio di massa o a un’autentica compassione, a seconda delle circostanze - che dal freddo e razionale calcolo del loro interesse personale.
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sabato 26 settembre 2015
Rifugiati in Tunisia: tra detenzione e deportazione
Premessa
Negli ultimi mesi abbiamo assistito al tentativo di rilanciare il progetto di esternalizzazione delle frontiere europee. Un piano di esternalizzazione su piú fronti, che sulla carta riguarderebbe sia le politiche di controllo e di intercettazione dei migranti diretti in Europa, -con la firma del processo di Karthoum il 28 novembre 2014 ma già in parte preannunciato nella Task Force per il Mediterraneo partita nel novembre 2013 - sia le politiche di asilo, secondo quanto proposto dal Ministro dell’Interno italiano Angelino Alfano durante il Consiglio “Giustizia e Affari Interni” dell’Unione europea del 12 marzo 2015. La Tunisia, insieme a Egitto, Marocco, Niger e Sudan, viene presentata come uno dei primi “laboratori” in cui dovrebbero venire attivati i progetti di esternalizzazione dell’asilo attraverso l’apertura di campi di “accoglienza” finanziati dall’Unione europea. E la Tunisia sarebbe anche uno dei due paesi, insieme all’Egitto, a cui l’Europa chiederà di impegnarsi in attività di sorveglianza marittima e di Search and rescue. Se così fosse, le imbarcazioni di migranti provenienti dalla Libia verrebbero intercettate dalla Garde Nationale tunisina e i migranti verrebbero trasferiti sul territorio tunisino dove le autorità tunisine verrebbero coadiuvate da OIM e UNHCR nelle procedure di esame delle domande di asilo e nella gestione dei potenziali rifugiati. Obiettivo che, in fondo, l’Unione europea aveva in parte provato a raggiungere nel marzo del 2014, ottenendo la firma della Tunisia sul partenariato di mobilità che tuttavia per il momento resta in fase di negoziazione. Certamente, gli accordi bilaterali tra Tunisia e stati europei, primo tra tutti l’Italia che nel giugno 2014 ha ulteriormente rafforzato i rapporti con la Tunisia in materia di migrazioni, non costuiscono affatto una novità; e, tuttavia, l’attuale progetto di cooperazione con i Paesi terzi sul controllo dell’immigrazione e per l’esternalizzazione dell’asilo, che vede la Tunisia tra i primi stati-laboratorio, sembra indicare un cambio di marcia nella costruzione di uno spazio di pre-frontiere europee. Mentre l’Unione europea sta dunque progettando di rafforzare le proprie pre-frontiere, umanitarie e non, esternalizzando politiche di controllo, campi di detenzione e meccanismi di protezione, alcuni dei rifugiati “diniegati” di Choucha sono ancora al campo, chiuso ufficialmente da UNHCR nel giugno 2013, da ormai quattro anni, chiedendo all’Europa di essere reinstallati in un luogo sicuro.
Il dossier che presentiamo racconta quanto sta accadendo ai migranti e ai rifugiati in Tunisia, in particolare rispetto a coloro che vengono imprigionati nel Centro di detenzione per stranieri di Al Wardia, in un quartiere della periferia di Tunisi.
Dossier sulla situazione del Centro di detenzione per stranieri a Al Wardia, Tunisi (Glenda Garelli, Federica Sossi, Martina Tazzioli)
La situazione del Centro di detenzione per stranieri di Al Wardia è particolarmente allarmante. Sappiamo che ogni mese vi vengono detenuti centinaia di migranti, senza alcuna possibilità di un sostegno legale e giuridico e, per questo, in totale balia dei poliziotti che gestiscono il Centro. I prigionieri con cui siamo riuscite a entrare in contatto telefonico ci hanno descritto una situazione molto critica, dovuta all’assenza di possibili contatti con il mondo esterno, al sovraffollamento delle celle, alla pressione da parte dei poliziotti e ai ricatti subiti per ogni domanda, alla carenza di vere cure mediche, alla situazione di scarso igiene e allo scarso cibo distribuito. Ma il fatto più preoccupante è l’assenza di ogni forma di assistenza giuridica, di modo che tutto ciò che avviene durante la detenzione e dopo è sul piano dell’illegalità. I migranti detenuti a Wardia hanno due possibilità di uscire. La prima consiste nel pagare loro stessi il biglietto per il loro rimpatrio. Segnaliamo, inoltre, che nel Centro vengono imprigionati anche i rifugiati siriani, che, non potendo evidentemente rientrare nel loro paese, sono obbligati a pagarsi un biglietto per la Turchia. Nel Centro, vengono inoltre detenuti anche rifugiati a cui l’Unhcr ha riconosciuto lo status in altri paesi. La seconda possibilità di uscire dal Centro è quella di essere deportati in Algeria. Ogni settimana, infatti, ci sono delle deportazioni durante la notte o nelle prime ore del mattino: i migranti vengono condotti in un posto di frontiera vicino alla città di Kasserine e lasciati dall’altra parte, in una zona desertica. Spesso ci sono casi di morte, perché i migranti si perdono prima di arrivare in un luogo abitato. Siamo venute noi stesse a conoscenza della morte di due migranti di origine somala, con cui eravamo in contatto durante la loro detenzione a Al Wardia e che in seguito erano stati deportati insieme ad altre persone. I sopravvissuti a questa deportazione ci hanno chiamate da una città algerina per raccontarci di questa vicenda. Vicino alla prigione per gli uomini c’è anche un luogo di detenzione per le donne e i bambini. Con questo Centro non siamo riuscite a stabilire un contatto diretto, ma siamo a conoscenza della sua esistenza attraverso le testimonianze dei rifugiati siriani con cui abbiamo potuto parlare e le cui famiglie erano detenute nei locali di quest’altro Centro. Abbiamo tali informazioni perché durante il mese di novembre 2014 siamo state contattate da un rifugiato diniegato del campo di Choucha che era stato imprigionato a Wardia e che avevamo conosciuto in occasione di una nostra visita al Campo. Abbiamo dunque potuto parlare con lui e con altre persone presenti al Centro a più riprese, sebbene ogni volta, dopo le nostre conversazioni al telefono, i migranti siano stati minacciati dai poliziotti. Abbiamo potuto anche mantenere i contatti dopo i loro rimpatri o le loro deportazioni. Abbiamo così raccolto diverse testimonianze di cui qui pubblichiamo quelle che abbiamo potuto registrare e trascrivere.
Intervista a A. dopo il suo rimpatrio (gennaio 2013)
D : Ci puoi descrivere la prigione di Tunisi in cui sei stato ? Vorremmo cercare di capire se sia possibile fare qualcosa per denunciare la situazione e per le altre persone che vi sono ancora detenute.
R: I poliziotti tunisini arrestano le persone straniere per la strada e poi le obbligano a pagare il biglietto per il loro rimpatrio.
D : Nel Centro di Al Wardia ci sono dunque solo migranti, alcuni che sono stati arrestati per strada e altri che arrivano direttamente dalla prigione?
R: Sì. Ci sono stranieri, perché è un Centro per gli stranieri, ci sono i rifugiati siriani che arrivano in Tunisia e anche alcuni rifugiati di Choucha, come me per esempio. All’interno, devi pagare per ogni cosa, se vuoi avere il cellulare, devi pagare 200 dinari. C’è soprattutto un commissario della polizia di frontiera che lavora con la Garde Nationale, è lui che organizza le cose. Dopo essere state nel Centro, le persone vengono deportate verso l’Algeria e vengono abbandonate verso mezzanotte nel deserto, nei pressi della città di Tebessa.
D : Quanti prigionieri c’erano al Centro quando sei arrivato lì?
R : C’erano continuamente nuovi arrivi, i nuovi arrivano il giovedì e la domenica.
D: Ma dove vengono deportati esattamente, in quale città dell’Algeria?
R : Per quanto riguarda l’Algeria non lo so esattamente, so che per quanto riguarda la Tunisia passano dalla città di Kasserine. So che in Algeria li lasciano vicino a una piccola città, subito dopo la frontiera.
D: Ma c’è un accordo tra la Tunisia e l’Algeria per le deportazioni?
R : No, non c’è un accordo, li lasciano lì clandestinamente. Gli danno una bottiglia d’acqua, una baguette e li abbandonano lì.
D: E’ quello che è successo anche ai somali che erano in prigione con te? E dopo che cosa è successo?
R : Alcuni si sono persi nel deserto e sono morti, mentre i nigeriani che erano con loro hanno camminato molto ma alla fine si sono ritrovati di nuovo in Tunisia, con i poliziotti tunisini. Quanto i somali che erano nella mia stessa cella sono stati deportati, i poliziotti mi hanno fatto molta pressione dicendomi che se non avevo i soldi per comperare il biglietto di rimpatrio mi avrebbero deportato in Algeria come avevano già fatto con i miei compagni di cella.
D: Quanto tempo sei rimasto a Al Wardia?
R: Due mesi. A Al Wardia c’erano circa 100 persone, ma bisogna tener conto anche delle persone che sono negli altri quattro Centri. Non so esattamente dove si trovino, io conosco quello di Alaouina ; e per tutti i Centri c’è un unico medico, così, se sei malato, ti dicono che devi aspettare il tuo turno, perché il medico deve andare anche negli altri Centri.
D : Ma nel Centro è possibile avere contatti con l’esterno ? potete tenere il cellulare?
R : Sì, ma bisogna pagare. Nel periodo in cui ero a Al Wardia un mio amico ha avuto la possibilità di avere un avvocato, quando vi aveva contattato e voi l’avevate messo in contatto con un avvocato. Nessuno prima di lui aveva avuto questa possibilità. Il poliziotto gli ha detto che aveva avuto una grande fortuna perché, appunto, nessuno prima di lui aveva avuto un avvocato. L’avvocato che è entrato al Centro ha fatto delle domande e il direttore gli ha risposto che il paese è di tutti, ma che bisogna rispettare le regole. Hanno minacciato l’avvocato, dicendogli che gli avrebbero potuto creare problemi nel caso in cui avesse continuato ad occuparsi del mio amico. Poi, quando l’avvocato se n’è andato, la polizia è venuta nella cella per minacciare il mio amico proprio perché aveva un avvocato e delle persone in Italia che si occupavano di lui e che lo aiutavano. Non riuscivano a capire, gli hanno fatto un sacco di domande rispetto a ciò, sia rispetto al fatto che conoscesse degli italiani sia rispetto al fatto che avesse un avvocato. L’hanno interrogato varie volte, e infine gli hanno detto che doveva comperare il suo biglietto d’aereo, e di farlo in fretta, perché non volevano che un avvocato e altre persone si occupassero di questa cosa. Gli hanno detto che doveva andarsene il prima possibile, perché altrimenti l’avrebbero deportato in Algeria; è per questo che aveva paura e che vi ha chiesto di aiutarlo a comperare il biglietto.
D: Quante persone sono state deportate in Algeria durante il periodo in cui sei stato lì.
R: 26 persone, perché non avevano assistenza giuridica o i soldi per comperarsi il biglietto per il rimpatrio.
D : Solo uomini ?
R: Per quanto riguarda le donne, non lo so, perché erano in un Centro vicino ma io non riuscivo a vederle. Ma per quanto riguarda gli uomini sono sicuro, la Tunisia non è un paese accogliente.
D: E per quel che concerne i rifugiati siriani, che viaggio fanno per arrivare in Tunisia?
R : Arrivano dalla Turchia con l’aereo.
D: E’ per questo che al Centro di detenzione gli chiedono di ritornare in Turchia?
R: Alcuni arrivano dall’Egitto passando attraverso il Libano, oppure arrivano in Libia con la barca. Qui, in generale, i visti hanno una validità di tre mesi, e quando il tuo visto scade bisogna pagare 100 dinari al mese per avere una carta provvisoria. Se sei al Centro di detenzione, per il rimpatrio ti chiedono di pagare l’intera somma che non hai pagato a partire dalla data di scadenza del tuo visto. Per questo l’Oim non riesce a organizzare i rimpatri, perché anche l’Oim secondo le autorità tunisine deve pagare l’intera somma, non solo quella del biglietto. Per quanto ci riguarda, noi di Choucha, che siamo in Tunisia da molto tempo e che adesso non abbiamo i documenti, siamo quasi obbligati a cercare di prendere la barca per andare in l’Italia. Io ho potuto vedere a Zarzis quanto guadagnano quelli che organizzano i viaggi, ho fatto anche dei video nei luoghi di partenza, e ho potuto rendermi conto di quanti soldi guadagnano. Ho scattato foto e ho fatto dei video, e scrivevo. Sono stato anche a Zwara per vedere i contrabbandieri. Di fatto, i giovani partivano. Ma tutti i miei video e le mie foto, ed anche la mia apparecchiatura, sono rimasti nella mia camera a Tunisi. Ero lì quando c’è stato il naufragio di 250 persone, tra cui molti rifugiati di Choucha. Quando le autorità tunisine hanno dichiarato che il campo di Choucha era stato chiuso e che non esisteva più, mentre noi rifugiati diniegati eravamo ancora lì, l’Unhcr non si è più occupata di noi. Siamo a Choucha dal 2011, ma i documenti che ci sono stati dati dall’Unhcr ci creano problemi se incontriamo la Garde Nationale. Ci ritirano i documenti e ci mettono in prigione.
D : L’Unhcr vi diceva di andare in Libia ?
R : No, non ci dicevano proprio nulla. Ci dicevano solo che non potevamo rimanere lì, e che dovevamo organizzarci per rientrare nei nostri paesi.
D : Hai dei contatti con le persone che sono state deportate in Algeria ?
R: Conosco i somali che sono stati deportati e anche un ragazzo che si chiama T. Lui mi aveva chiamato e mi aveva spiegato che in Algeria i poliziotti li mettono in prigione e dopo sei mesi li portano nel deserto tra l’Algeria e il Niger. Una volta arrivati lì, hanno 15 giorni per lasciare l’Algeria, se non se ne vanno di propria iniziativa e a proprie spese allora vengono deportati. Ma ci sono altre persone che vi possono raccontare meglio di me, due nigeriani che erano a Ben Guerdane. Uno di loro, O., può dirvi quello che succede perché loro due erano stati arrestati dalla polizia tunisina perché non avevano il passaporto e sono stati deportati in Algeria con i somali che erano nella mia stessa cella a Al Wardia. Hanno camminato a lungo, e mentre alcuni dei somali sono morti, loro si sono ritrovati di nuovo in Tunisia. La polizia tunisina li ha presi di nuovo, ma ora penso che siano a Ben Guerdane.
D : Dunque, per ritornare a questo episodio, sappiamo che due persone sono morte, ma in quale modo ?
R : Sono morte di sete nel deserto. Se si va da quelle parti con quelli della Mezzaluna rossa, si può trovare il punto in cui sono morti.
D: Ci sono altre persone, oltre ai somali, che sono morte nel deserto ?
R : Sì, molte. Quello delle deportazioni in Algeria è un sistema in atto da molto tempo, ben prima che io fossi portato in prigione. Prima della guerra, le deportazioni venivano effettuate verso la Libia, ma ora, con i problemi in Libia, deportano verso l’Algeria. Le persone deportate vengono lasciate dalla polizia dalla parti del monte Chaambi, il punto in cui ci sono i salafiti e la polizia che li combatte. Il monte Chaambi è vicino alla città di Kasserine.
D: C’erano dei medici nella prigione?
R: C’era un medico che si occupava delle donne e dei bambini. Se hai qualcosa di grave, ti portano direttamente all’ospedale.
D : E né l’Unhcr né l’Oim sono mai venuti a parlarvi ?
R: Mai. C’erano alcuni giovani che chiamavano continuamente Alessandra dell’Oim, ma quelli dell’Oim dicevano che non avevano soldi e quindi che non potevano aiutarli. Io ho il numero di telefono di Alessandra dell’Oim di Tunisi, sul mio cellulare.
D : E quindi voi eravate in contatto solo con la polizia ? Ma chi era in prigione tra le persone di Choucha?
R : Io avevo i documenti dell’Unhcr, il documento che ci hanno dato a Choucha quando siamo arrivati lì.
D : Che cosa si può fare secondo te per denunciare quello che sta accadendo ?
R : Bisogna denunciare quello che fanno, dire che fanno dei rastrellamenti per la strada, e che, dopo, portano le persone nel deserto e li condannano a morire lì. Questo non è possibile, tutti hanno il diritto a vivere. Ho dato le foto che avevo al giornale “Jeune Afrique”, perché conosco qualcuno che vi lavora e ho domandato di pubblicarle. Ho collaborato con Lorena Lando dell’Oim per cercare di capire come si organizzano le persone che vanno in Libia; ad Alessandra dell’Oim di Tunisi ho raccontato tutti i dettagli dei viaggi verso l’Italia e le morti in mare, e lei mi ha risposto che era troppo complicato.
D : Puoi raccontarci meglio com’è la situazione in prigione ?
R : A volte la polizia era violenta nei nostri confronti. A volte ci davano lo stesso cibo per l’intera giornata, e spesso riso cotto male, oppure fagioli con la carne. Sempre le stesse cose. A mezzogiorno riso e la sera couscous, o viceversa. A volte pasta senza carne. Avevo sempre la mia acqua. Non ci lasciano mangiare, non ci danno il bagnoschiuma o il sapone per la doccia. I bagni sono terribili, non vengono puliti mai e le persone possono prendersi delle malattie.
D : Ma le celle sono diverse nel caso in cui qualcuno paghi ?
R : Le persone che devono essere rimpatriate in settimana pagano i poliziotti per avere condizioni migliori e per poter stare in una cella migliore, come ha fatto, per esempio, il signore del Gambia con cui avete parlato.
D : Queste persone hanno il soldi per poter avere una cella migliore ?
R : Se gli dai dei soldi ti mettono in una cella migliore.
D : Ma sempre nella stessa prigione ?
R: Se hai i soldi puoi andare nelle celle migliori, ma solo per una settimana. Quando acquisti il biglietto d’aereo ti mettono in una di queste celle per due settimane sino al momento della partenza. Le persone che vengono arrestate (per esempio, una persona che aveva una ditta e che quindi aveva un po’ di soldi, o i siriani che hanno un po’ di soldi) possono pagare per avere migliori condizioni di detenzione, e vengono spostate in una caserma vicina.
D : Ma sempre nella stessa struttura?
R: Sempre a Al Wardia, ma non nello stesso edificio. Le celle sono nello stesso complesso, ma in un altro edificio, una caserma. Una parte dell’edificio è per la Garde Nationale, e poi c’è un altro edificio. Inoltre: dal momento che i siriani hanno un po’ di soldi, la polizia aumenta il prezzo e così devono pagare di più, e devono farlo in dollari, non in dinari. Ai siriani gli fanno pagare 300 dollari. Nel periodo in cui sono stato lì ci sono state le seguenti deportazioni: 240 siriani deportati in Algeria e 180 in Turchia; dunque, più di 300 persone in totale – dopo cerco il foglio in cui l’avevo scritto e vi dico esattamente.
Grazie mille e grazie per il tuo aiuto. Cercheremo di fare qualcosa. Comunque, restiamo in contatto.
*** Intervista con D. (febbraio 2013)
D : Conosci dei rifugiati con lo status che sono stati imprigionati a Wardia ?
R : Sì, certo. C’era anche una persona di Choucha con lo status di rifugiato che, a un certo punto, aveva deciso di andare in Libia per partire per l’Italia perché non c’erano soluzioni per la sua reinstallazione. La barca è stata intercettata dalle autorità italiane e dopo la Garde Nationale ha portato i migranti al porto di Sfax. Poi, questo rifugiato di Choucha, B., è stato messo nella prigione di Al Wardia. D : Quando è successo ? R : Non ricordo con precisione, ma verso marzo o aprile 2014.
D : Sei rimasto in contatto con lui mentre era in prigione ?
R : Sì, ho anche contattato l’Unhcr per chiedergli di aiutarlo, dal momento che era un rifugiato. Ma le persone dell’ufficio dell’Unhcr mi hanno risposto che non potevano fare nulla, dal momento che il mio amico aveva fatto una cosa irregolare (prendere la barca dalla Libia per partire come clandestino) e dunque non potevano aiutarlo. L’Unhcr ci tratta come clandestini, anche se non abbiamo altra scelta che quella di andare in Libia e partire con la barca.
D : E cosa è successo nel suo caso ?
R : Nemmeno l’Oim poteva aiutarlo a lasciare il paese, e allora ha chiesto soldi ai suoi amici e ha comperato il biglietto di ritorno, per poter rientrare nel suo paese. Era un rifugiato e tuttavia l’Unhcr non ha fatto nulla per lui.
D: Conosci altri migranti che sono stati imprigionati a Al Wardia ?
R : Sì, anche dei siriani, perché i miei amici che sono lì in prigione mi hanno detto che ci sono i siriani e anche le loro famiglie. Una volta una donna siriana ha messo su facebook la foto di suo figlio che era anche lui in prigione, poi, verso mezzanotte, è arrivata la polizia e non si sa dove li abbiano portati. Anche noi rifugiati ora abbiamo paura, perché si sa che se si viene fermati dalla polizia e portati a Al Wardia dopo si viene deportati in Algeria. Prima la polizia deportava in Libia, ma ora deporta in Algeria. Qualche giorno fa ero all’ufficio immigrazione di Tunisi e la polizia mi ha chiesto il passaporto; ho mostrato il documento di rifugiato, quello dell’Unhcr, ma mi hanno detto che per la Tunisia quel documento non vale nulla e che potevo gettarlo nella spazzatura. Così, siamo in una situazione di totale insicurezza, possiamo essere arrestati dalla polizia in ogni momento.
Intervista con R., rifugiato eritreo soccorso dalla Garde Nationale tunisina (luglio del 2013)
D : quando sei arrivato in Tunisia?
R: Sono arrivato nel luglio del 2013. Sono partito dalla Libia in barca con altri eritrei, dalla città di Zhwara e poi la nostra imbarcazione dopo qualche ora ha cominciato ad avere dei problemi. Siamo rimasti sette giorni in mare, nessuno è venuto a salvarci. Abbiamo chiamato l’Italia, le autorità italiane ma nessuno è venuto. Il settimo giorno siamo stati salvati dalla Garde Nationale tunisina che ci ha portato a Zarzis.
D : E poi cosa è successo? Quante persone erano con te sulla barca?
R: Eravamo 94 persone, tutti eritrei. Quando siamo arrivati la Garde Nationale ci ha trasferito per qualche ore in un luogo a Zarzis, non mi ricordo dove. E poi, dopo forse un giorno, 60 di noi sono stati trasferiti nella prigione di Ouardia. Q: E gli altri? R: Non so, penso a Medenine. Sì, a Medenine.
D: E perchè ti hanno portato insieme a altri a Ouardia e gli altri in un altro luogo?
R: Non lo so, ci hanno diviso in due gruppi ma non conosco il criterio.
D : Eri già un rifugiato quando sei arrivato in Tunisia?
R: Sì avevo ricevuto lo status di rifugiato in Sudan. E anche altre delle persone sull’imbarcazione erano rifugiati come me.
D : Qunto sei rimasto a Ouardia?
R: Piú o meno un mese. Poi, ho chiamato l’UNHCR dicendo che sono un rifugiato e alla fine, dopo un mese, sono riusciti a liberarmi. Penso che tutti siano stati liberati ma io sono l’unico a essere ancora in Tunisia. Gli altri sono tornati in Libia e alcuni di loro sono adesso in Italia.
D : Che cosa ha fatto la polizia a Zarzis?
R: Mi hanno solo chiesto nome e cognome, tutto qui. E hanno portato le prime 60 persone del gruppo, me incluso, a Ouardia.
D : Quindi adesso hai il certificato di rifugiato rilasciato dall’UNHCR?
R: Sì, guarda, è questo documento. Ma non serve a niente in questo paese. Vivo qui in un quartiere periferico di Tunisi, consapevole che la polizia mi può arrestare in ogni momento. Non hai nessun diritto qui in Tunisia come rifugiato. Quando l’UNHCR mi ha aiutato ad uscire da Ouardia, poi mi hanno detto: è meglio se vai via perchè qui non puoi fare niente. Q: Ti hanno detto di tornare in Libia? R: No, non hanno detto questo. Ma hanno detto che devo costruire la mia vita autonomamente, dal momento che il documento da rifugiato qui non mi dà niente.
Negli ultimi mesi abbiamo assistito al tentativo di rilanciare il progetto di esternalizzazione delle frontiere europee. Un piano di esternalizzazione su piú fronti, che sulla carta riguarderebbe sia le politiche di controllo e di intercettazione dei migranti diretti in Europa, -con la firma del processo di Karthoum il 28 novembre 2014 ma già in parte preannunciato nella Task Force per il Mediterraneo partita nel novembre 2013 - sia le politiche di asilo, secondo quanto proposto dal Ministro dell’Interno italiano Angelino Alfano durante il Consiglio “Giustizia e Affari Interni” dell’Unione europea del 12 marzo 2015. La Tunisia, insieme a Egitto, Marocco, Niger e Sudan, viene presentata come uno dei primi “laboratori” in cui dovrebbero venire attivati i progetti di esternalizzazione dell’asilo attraverso l’apertura di campi di “accoglienza” finanziati dall’Unione europea. E la Tunisia sarebbe anche uno dei due paesi, insieme all’Egitto, a cui l’Europa chiederà di impegnarsi in attività di sorveglianza marittima e di Search and rescue. Se così fosse, le imbarcazioni di migranti provenienti dalla Libia verrebbero intercettate dalla Garde Nationale tunisina e i migranti verrebbero trasferiti sul territorio tunisino dove le autorità tunisine verrebbero coadiuvate da OIM e UNHCR nelle procedure di esame delle domande di asilo e nella gestione dei potenziali rifugiati. Obiettivo che, in fondo, l’Unione europea aveva in parte provato a raggiungere nel marzo del 2014, ottenendo la firma della Tunisia sul partenariato di mobilità che tuttavia per il momento resta in fase di negoziazione. Certamente, gli accordi bilaterali tra Tunisia e stati europei, primo tra tutti l’Italia che nel giugno 2014 ha ulteriormente rafforzato i rapporti con la Tunisia in materia di migrazioni, non costuiscono affatto una novità; e, tuttavia, l’attuale progetto di cooperazione con i Paesi terzi sul controllo dell’immigrazione e per l’esternalizzazione dell’asilo, che vede la Tunisia tra i primi stati-laboratorio, sembra indicare un cambio di marcia nella costruzione di uno spazio di pre-frontiere europee. Mentre l’Unione europea sta dunque progettando di rafforzare le proprie pre-frontiere, umanitarie e non, esternalizzando politiche di controllo, campi di detenzione e meccanismi di protezione, alcuni dei rifugiati “diniegati” di Choucha sono ancora al campo, chiuso ufficialmente da UNHCR nel giugno 2013, da ormai quattro anni, chiedendo all’Europa di essere reinstallati in un luogo sicuro.
Il dossier che presentiamo racconta quanto sta accadendo ai migranti e ai rifugiati in Tunisia, in particolare rispetto a coloro che vengono imprigionati nel Centro di detenzione per stranieri di Al Wardia, in un quartiere della periferia di Tunisi.
Dossier sulla situazione del Centro di detenzione per stranieri a Al Wardia, Tunisi (Glenda Garelli, Federica Sossi, Martina Tazzioli)
La situazione del Centro di detenzione per stranieri di Al Wardia è particolarmente allarmante. Sappiamo che ogni mese vi vengono detenuti centinaia di migranti, senza alcuna possibilità di un sostegno legale e giuridico e, per questo, in totale balia dei poliziotti che gestiscono il Centro. I prigionieri con cui siamo riuscite a entrare in contatto telefonico ci hanno descritto una situazione molto critica, dovuta all’assenza di possibili contatti con il mondo esterno, al sovraffollamento delle celle, alla pressione da parte dei poliziotti e ai ricatti subiti per ogni domanda, alla carenza di vere cure mediche, alla situazione di scarso igiene e allo scarso cibo distribuito. Ma il fatto più preoccupante è l’assenza di ogni forma di assistenza giuridica, di modo che tutto ciò che avviene durante la detenzione e dopo è sul piano dell’illegalità. I migranti detenuti a Wardia hanno due possibilità di uscire. La prima consiste nel pagare loro stessi il biglietto per il loro rimpatrio. Segnaliamo, inoltre, che nel Centro vengono imprigionati anche i rifugiati siriani, che, non potendo evidentemente rientrare nel loro paese, sono obbligati a pagarsi un biglietto per la Turchia. Nel Centro, vengono inoltre detenuti anche rifugiati a cui l’Unhcr ha riconosciuto lo status in altri paesi. La seconda possibilità di uscire dal Centro è quella di essere deportati in Algeria. Ogni settimana, infatti, ci sono delle deportazioni durante la notte o nelle prime ore del mattino: i migranti vengono condotti in un posto di frontiera vicino alla città di Kasserine e lasciati dall’altra parte, in una zona desertica. Spesso ci sono casi di morte, perché i migranti si perdono prima di arrivare in un luogo abitato. Siamo venute noi stesse a conoscenza della morte di due migranti di origine somala, con cui eravamo in contatto durante la loro detenzione a Al Wardia e che in seguito erano stati deportati insieme ad altre persone. I sopravvissuti a questa deportazione ci hanno chiamate da una città algerina per raccontarci di questa vicenda. Vicino alla prigione per gli uomini c’è anche un luogo di detenzione per le donne e i bambini. Con questo Centro non siamo riuscite a stabilire un contatto diretto, ma siamo a conoscenza della sua esistenza attraverso le testimonianze dei rifugiati siriani con cui abbiamo potuto parlare e le cui famiglie erano detenute nei locali di quest’altro Centro. Abbiamo tali informazioni perché durante il mese di novembre 2014 siamo state contattate da un rifugiato diniegato del campo di Choucha che era stato imprigionato a Wardia e che avevamo conosciuto in occasione di una nostra visita al Campo. Abbiamo dunque potuto parlare con lui e con altre persone presenti al Centro a più riprese, sebbene ogni volta, dopo le nostre conversazioni al telefono, i migranti siano stati minacciati dai poliziotti. Abbiamo potuto anche mantenere i contatti dopo i loro rimpatri o le loro deportazioni. Abbiamo così raccolto diverse testimonianze di cui qui pubblichiamo quelle che abbiamo potuto registrare e trascrivere.
Intervista a A. dopo il suo rimpatrio (gennaio 2013)
D : Ci puoi descrivere la prigione di Tunisi in cui sei stato ? Vorremmo cercare di capire se sia possibile fare qualcosa per denunciare la situazione e per le altre persone che vi sono ancora detenute.
R: I poliziotti tunisini arrestano le persone straniere per la strada e poi le obbligano a pagare il biglietto per il loro rimpatrio.
D : Nel Centro di Al Wardia ci sono dunque solo migranti, alcuni che sono stati arrestati per strada e altri che arrivano direttamente dalla prigione?
R: Sì. Ci sono stranieri, perché è un Centro per gli stranieri, ci sono i rifugiati siriani che arrivano in Tunisia e anche alcuni rifugiati di Choucha, come me per esempio. All’interno, devi pagare per ogni cosa, se vuoi avere il cellulare, devi pagare 200 dinari. C’è soprattutto un commissario della polizia di frontiera che lavora con la Garde Nationale, è lui che organizza le cose. Dopo essere state nel Centro, le persone vengono deportate verso l’Algeria e vengono abbandonate verso mezzanotte nel deserto, nei pressi della città di Tebessa.
D : Quanti prigionieri c’erano al Centro quando sei arrivato lì?
R : C’erano continuamente nuovi arrivi, i nuovi arrivano il giovedì e la domenica.
D: Ma dove vengono deportati esattamente, in quale città dell’Algeria?
R : Per quanto riguarda l’Algeria non lo so esattamente, so che per quanto riguarda la Tunisia passano dalla città di Kasserine. So che in Algeria li lasciano vicino a una piccola città, subito dopo la frontiera.
D: Ma c’è un accordo tra la Tunisia e l’Algeria per le deportazioni?
R : No, non c’è un accordo, li lasciano lì clandestinamente. Gli danno una bottiglia d’acqua, una baguette e li abbandonano lì.
D: E’ quello che è successo anche ai somali che erano in prigione con te? E dopo che cosa è successo?
R : Alcuni si sono persi nel deserto e sono morti, mentre i nigeriani che erano con loro hanno camminato molto ma alla fine si sono ritrovati di nuovo in Tunisia, con i poliziotti tunisini. Quanto i somali che erano nella mia stessa cella sono stati deportati, i poliziotti mi hanno fatto molta pressione dicendomi che se non avevo i soldi per comperare il biglietto di rimpatrio mi avrebbero deportato in Algeria come avevano già fatto con i miei compagni di cella.
D: Quanto tempo sei rimasto a Al Wardia?
R: Due mesi. A Al Wardia c’erano circa 100 persone, ma bisogna tener conto anche delle persone che sono negli altri quattro Centri. Non so esattamente dove si trovino, io conosco quello di Alaouina ; e per tutti i Centri c’è un unico medico, così, se sei malato, ti dicono che devi aspettare il tuo turno, perché il medico deve andare anche negli altri Centri.
D : Ma nel Centro è possibile avere contatti con l’esterno ? potete tenere il cellulare?
R : Sì, ma bisogna pagare. Nel periodo in cui ero a Al Wardia un mio amico ha avuto la possibilità di avere un avvocato, quando vi aveva contattato e voi l’avevate messo in contatto con un avvocato. Nessuno prima di lui aveva avuto questa possibilità. Il poliziotto gli ha detto che aveva avuto una grande fortuna perché, appunto, nessuno prima di lui aveva avuto un avvocato. L’avvocato che è entrato al Centro ha fatto delle domande e il direttore gli ha risposto che il paese è di tutti, ma che bisogna rispettare le regole. Hanno minacciato l’avvocato, dicendogli che gli avrebbero potuto creare problemi nel caso in cui avesse continuato ad occuparsi del mio amico. Poi, quando l’avvocato se n’è andato, la polizia è venuta nella cella per minacciare il mio amico proprio perché aveva un avvocato e delle persone in Italia che si occupavano di lui e che lo aiutavano. Non riuscivano a capire, gli hanno fatto un sacco di domande rispetto a ciò, sia rispetto al fatto che conoscesse degli italiani sia rispetto al fatto che avesse un avvocato. L’hanno interrogato varie volte, e infine gli hanno detto che doveva comperare il suo biglietto d’aereo, e di farlo in fretta, perché non volevano che un avvocato e altre persone si occupassero di questa cosa. Gli hanno detto che doveva andarsene il prima possibile, perché altrimenti l’avrebbero deportato in Algeria; è per questo che aveva paura e che vi ha chiesto di aiutarlo a comperare il biglietto.
D: Quante persone sono state deportate in Algeria durante il periodo in cui sei stato lì.
R: 26 persone, perché non avevano assistenza giuridica o i soldi per comperarsi il biglietto per il rimpatrio.
D : Solo uomini ?
R: Per quanto riguarda le donne, non lo so, perché erano in un Centro vicino ma io non riuscivo a vederle. Ma per quanto riguarda gli uomini sono sicuro, la Tunisia non è un paese accogliente.
D: E per quel che concerne i rifugiati siriani, che viaggio fanno per arrivare in Tunisia?
R : Arrivano dalla Turchia con l’aereo.
D: E’ per questo che al Centro di detenzione gli chiedono di ritornare in Turchia?
R: Alcuni arrivano dall’Egitto passando attraverso il Libano, oppure arrivano in Libia con la barca. Qui, in generale, i visti hanno una validità di tre mesi, e quando il tuo visto scade bisogna pagare 100 dinari al mese per avere una carta provvisoria. Se sei al Centro di detenzione, per il rimpatrio ti chiedono di pagare l’intera somma che non hai pagato a partire dalla data di scadenza del tuo visto. Per questo l’Oim non riesce a organizzare i rimpatri, perché anche l’Oim secondo le autorità tunisine deve pagare l’intera somma, non solo quella del biglietto. Per quanto ci riguarda, noi di Choucha, che siamo in Tunisia da molto tempo e che adesso non abbiamo i documenti, siamo quasi obbligati a cercare di prendere la barca per andare in l’Italia. Io ho potuto vedere a Zarzis quanto guadagnano quelli che organizzano i viaggi, ho fatto anche dei video nei luoghi di partenza, e ho potuto rendermi conto di quanti soldi guadagnano. Ho scattato foto e ho fatto dei video, e scrivevo. Sono stato anche a Zwara per vedere i contrabbandieri. Di fatto, i giovani partivano. Ma tutti i miei video e le mie foto, ed anche la mia apparecchiatura, sono rimasti nella mia camera a Tunisi. Ero lì quando c’è stato il naufragio di 250 persone, tra cui molti rifugiati di Choucha. Quando le autorità tunisine hanno dichiarato che il campo di Choucha era stato chiuso e che non esisteva più, mentre noi rifugiati diniegati eravamo ancora lì, l’Unhcr non si è più occupata di noi. Siamo a Choucha dal 2011, ma i documenti che ci sono stati dati dall’Unhcr ci creano problemi se incontriamo la Garde Nationale. Ci ritirano i documenti e ci mettono in prigione.
D : L’Unhcr vi diceva di andare in Libia ?
R : No, non ci dicevano proprio nulla. Ci dicevano solo che non potevamo rimanere lì, e che dovevamo organizzarci per rientrare nei nostri paesi.
D : Hai dei contatti con le persone che sono state deportate in Algeria ?
R: Conosco i somali che sono stati deportati e anche un ragazzo che si chiama T. Lui mi aveva chiamato e mi aveva spiegato che in Algeria i poliziotti li mettono in prigione e dopo sei mesi li portano nel deserto tra l’Algeria e il Niger. Una volta arrivati lì, hanno 15 giorni per lasciare l’Algeria, se non se ne vanno di propria iniziativa e a proprie spese allora vengono deportati. Ma ci sono altre persone che vi possono raccontare meglio di me, due nigeriani che erano a Ben Guerdane. Uno di loro, O., può dirvi quello che succede perché loro due erano stati arrestati dalla polizia tunisina perché non avevano il passaporto e sono stati deportati in Algeria con i somali che erano nella mia stessa cella a Al Wardia. Hanno camminato a lungo, e mentre alcuni dei somali sono morti, loro si sono ritrovati di nuovo in Tunisia. La polizia tunisina li ha presi di nuovo, ma ora penso che siano a Ben Guerdane.
D : Dunque, per ritornare a questo episodio, sappiamo che due persone sono morte, ma in quale modo ?
R : Sono morte di sete nel deserto. Se si va da quelle parti con quelli della Mezzaluna rossa, si può trovare il punto in cui sono morti.
D: Ci sono altre persone, oltre ai somali, che sono morte nel deserto ?
R : Sì, molte. Quello delle deportazioni in Algeria è un sistema in atto da molto tempo, ben prima che io fossi portato in prigione. Prima della guerra, le deportazioni venivano effettuate verso la Libia, ma ora, con i problemi in Libia, deportano verso l’Algeria. Le persone deportate vengono lasciate dalla polizia dalla parti del monte Chaambi, il punto in cui ci sono i salafiti e la polizia che li combatte. Il monte Chaambi è vicino alla città di Kasserine.
D: C’erano dei medici nella prigione?
R: C’era un medico che si occupava delle donne e dei bambini. Se hai qualcosa di grave, ti portano direttamente all’ospedale.
D : E né l’Unhcr né l’Oim sono mai venuti a parlarvi ?
R: Mai. C’erano alcuni giovani che chiamavano continuamente Alessandra dell’Oim, ma quelli dell’Oim dicevano che non avevano soldi e quindi che non potevano aiutarli. Io ho il numero di telefono di Alessandra dell’Oim di Tunisi, sul mio cellulare.
D : E quindi voi eravate in contatto solo con la polizia ? Ma chi era in prigione tra le persone di Choucha?
R : Io avevo i documenti dell’Unhcr, il documento che ci hanno dato a Choucha quando siamo arrivati lì.
D : Che cosa si può fare secondo te per denunciare quello che sta accadendo ?
R : Bisogna denunciare quello che fanno, dire che fanno dei rastrellamenti per la strada, e che, dopo, portano le persone nel deserto e li condannano a morire lì. Questo non è possibile, tutti hanno il diritto a vivere. Ho dato le foto che avevo al giornale “Jeune Afrique”, perché conosco qualcuno che vi lavora e ho domandato di pubblicarle. Ho collaborato con Lorena Lando dell’Oim per cercare di capire come si organizzano le persone che vanno in Libia; ad Alessandra dell’Oim di Tunisi ho raccontato tutti i dettagli dei viaggi verso l’Italia e le morti in mare, e lei mi ha risposto che era troppo complicato.
D : Puoi raccontarci meglio com’è la situazione in prigione ?
R : A volte la polizia era violenta nei nostri confronti. A volte ci davano lo stesso cibo per l’intera giornata, e spesso riso cotto male, oppure fagioli con la carne. Sempre le stesse cose. A mezzogiorno riso e la sera couscous, o viceversa. A volte pasta senza carne. Avevo sempre la mia acqua. Non ci lasciano mangiare, non ci danno il bagnoschiuma o il sapone per la doccia. I bagni sono terribili, non vengono puliti mai e le persone possono prendersi delle malattie.
D : Ma le celle sono diverse nel caso in cui qualcuno paghi ?
R : Le persone che devono essere rimpatriate in settimana pagano i poliziotti per avere condizioni migliori e per poter stare in una cella migliore, come ha fatto, per esempio, il signore del Gambia con cui avete parlato.
D : Queste persone hanno il soldi per poter avere una cella migliore ?
R : Se gli dai dei soldi ti mettono in una cella migliore.
D : Ma sempre nella stessa prigione ?
R: Se hai i soldi puoi andare nelle celle migliori, ma solo per una settimana. Quando acquisti il biglietto d’aereo ti mettono in una di queste celle per due settimane sino al momento della partenza. Le persone che vengono arrestate (per esempio, una persona che aveva una ditta e che quindi aveva un po’ di soldi, o i siriani che hanno un po’ di soldi) possono pagare per avere migliori condizioni di detenzione, e vengono spostate in una caserma vicina.
D : Ma sempre nella stessa struttura?
R: Sempre a Al Wardia, ma non nello stesso edificio. Le celle sono nello stesso complesso, ma in un altro edificio, una caserma. Una parte dell’edificio è per la Garde Nationale, e poi c’è un altro edificio. Inoltre: dal momento che i siriani hanno un po’ di soldi, la polizia aumenta il prezzo e così devono pagare di più, e devono farlo in dollari, non in dinari. Ai siriani gli fanno pagare 300 dollari. Nel periodo in cui sono stato lì ci sono state le seguenti deportazioni: 240 siriani deportati in Algeria e 180 in Turchia; dunque, più di 300 persone in totale – dopo cerco il foglio in cui l’avevo scritto e vi dico esattamente.
Grazie mille e grazie per il tuo aiuto. Cercheremo di fare qualcosa. Comunque, restiamo in contatto.
*** Intervista con D. (febbraio 2013)
D : Conosci dei rifugiati con lo status che sono stati imprigionati a Wardia ?
R : Sì, certo. C’era anche una persona di Choucha con lo status di rifugiato che, a un certo punto, aveva deciso di andare in Libia per partire per l’Italia perché non c’erano soluzioni per la sua reinstallazione. La barca è stata intercettata dalle autorità italiane e dopo la Garde Nationale ha portato i migranti al porto di Sfax. Poi, questo rifugiato di Choucha, B., è stato messo nella prigione di Al Wardia. D : Quando è successo ? R : Non ricordo con precisione, ma verso marzo o aprile 2014.
D : Sei rimasto in contatto con lui mentre era in prigione ?
R : Sì, ho anche contattato l’Unhcr per chiedergli di aiutarlo, dal momento che era un rifugiato. Ma le persone dell’ufficio dell’Unhcr mi hanno risposto che non potevano fare nulla, dal momento che il mio amico aveva fatto una cosa irregolare (prendere la barca dalla Libia per partire come clandestino) e dunque non potevano aiutarlo. L’Unhcr ci tratta come clandestini, anche se non abbiamo altra scelta che quella di andare in Libia e partire con la barca.
D : E cosa è successo nel suo caso ?
R : Nemmeno l’Oim poteva aiutarlo a lasciare il paese, e allora ha chiesto soldi ai suoi amici e ha comperato il biglietto di ritorno, per poter rientrare nel suo paese. Era un rifugiato e tuttavia l’Unhcr non ha fatto nulla per lui.
D: Conosci altri migranti che sono stati imprigionati a Al Wardia ?
R : Sì, anche dei siriani, perché i miei amici che sono lì in prigione mi hanno detto che ci sono i siriani e anche le loro famiglie. Una volta una donna siriana ha messo su facebook la foto di suo figlio che era anche lui in prigione, poi, verso mezzanotte, è arrivata la polizia e non si sa dove li abbiano portati. Anche noi rifugiati ora abbiamo paura, perché si sa che se si viene fermati dalla polizia e portati a Al Wardia dopo si viene deportati in Algeria. Prima la polizia deportava in Libia, ma ora deporta in Algeria. Qualche giorno fa ero all’ufficio immigrazione di Tunisi e la polizia mi ha chiesto il passaporto; ho mostrato il documento di rifugiato, quello dell’Unhcr, ma mi hanno detto che per la Tunisia quel documento non vale nulla e che potevo gettarlo nella spazzatura. Così, siamo in una situazione di totale insicurezza, possiamo essere arrestati dalla polizia in ogni momento.
Intervista con R., rifugiato eritreo soccorso dalla Garde Nationale tunisina (luglio del 2013)
D : quando sei arrivato in Tunisia?
R: Sono arrivato nel luglio del 2013. Sono partito dalla Libia in barca con altri eritrei, dalla città di Zhwara e poi la nostra imbarcazione dopo qualche ora ha cominciato ad avere dei problemi. Siamo rimasti sette giorni in mare, nessuno è venuto a salvarci. Abbiamo chiamato l’Italia, le autorità italiane ma nessuno è venuto. Il settimo giorno siamo stati salvati dalla Garde Nationale tunisina che ci ha portato a Zarzis.
D : E poi cosa è successo? Quante persone erano con te sulla barca?
R: Eravamo 94 persone, tutti eritrei. Quando siamo arrivati la Garde Nationale ci ha trasferito per qualche ore in un luogo a Zarzis, non mi ricordo dove. E poi, dopo forse un giorno, 60 di noi sono stati trasferiti nella prigione di Ouardia. Q: E gli altri? R: Non so, penso a Medenine. Sì, a Medenine.
D: E perchè ti hanno portato insieme a altri a Ouardia e gli altri in un altro luogo?
R: Non lo so, ci hanno diviso in due gruppi ma non conosco il criterio.
D : Eri già un rifugiato quando sei arrivato in Tunisia?
R: Sì avevo ricevuto lo status di rifugiato in Sudan. E anche altre delle persone sull’imbarcazione erano rifugiati come me.
D : Qunto sei rimasto a Ouardia?
R: Piú o meno un mese. Poi, ho chiamato l’UNHCR dicendo che sono un rifugiato e alla fine, dopo un mese, sono riusciti a liberarmi. Penso che tutti siano stati liberati ma io sono l’unico a essere ancora in Tunisia. Gli altri sono tornati in Libia e alcuni di loro sono adesso in Italia.
D : Che cosa ha fatto la polizia a Zarzis?
R: Mi hanno solo chiesto nome e cognome, tutto qui. E hanno portato le prime 60 persone del gruppo, me incluso, a Ouardia.
D : Quindi adesso hai il certificato di rifugiato rilasciato dall’UNHCR?
R: Sì, guarda, è questo documento. Ma non serve a niente in questo paese. Vivo qui in un quartiere periferico di Tunisi, consapevole che la polizia mi può arrestare in ogni momento. Non hai nessun diritto qui in Tunisia come rifugiato. Quando l’UNHCR mi ha aiutato ad uscire da Ouardia, poi mi hanno detto: è meglio se vai via perchè qui non puoi fare niente. Q: Ti hanno detto di tornare in Libia? R: No, non hanno detto questo. Ma hanno detto che devo costruire la mia vita autonomamente, dal momento che il documento da rifugiato qui non mi dà niente.
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venerdì 25 settembre 2015
Petting zoo: un film sui diritti negati delle ragazze-madri singles
di Monica Macchi
Il Texas ha il più alto numero di ragazze madri, gli adolescenti che hanno rapporti sessuali sono il 52,5 % (la media nazionale è del 47%), e il tasso di diffusione dell’hiv è tra i più alti del Paese ma a causa di sostenitori molto influenti come George W. Bush e al fatto che i distretti scolastici hanno completa autonomia in tema di educazione sessuale, l’astinenza viene presentata come l’unico metodo sicuro per prevenire le malattie sessualmente trasmissibili, le gravidanze e i “traumi emotivi legati ai rapporti sessuali”. Recentemente poi è stata approvata una legge secondo cui le cliniche che praticano aborti devono dotarsi di locali, attrezzature e personale, equivalenti a quelli delle sale chirurgiche degli ospedali: il governo conservatore sostiene che queste misure servano a garantire la sicurezza delle donne, ma per le associazioni contrarie alla legge il vero obiettivo del provvedimento è rendere ancora più difficile l’interruzione di gravidanza. E in effetti in tutto il Texas, che ha una superficie di 700.000 chilometri quadrati ed è il secondo Stato più popoloso degli Usa, le cliniche che praticano aborti erano 41 nel 2012, e oggi sono solo18.
Questo è l’ambiente sottoproletario e puritano in cui si muove Layla, una diciassettenne che dopo aver ricevuto una borsa di studio per Austin, scopre di essere incinta e pressata dalla sua famiglia, contraria all’aborto, rinuncia al college e va a vivere con la nonna in una roulotte.
Domenica 27 settembre
2015 presso cinema Beltrade (Milano) ore 15.00
“I
texani stanno crescendo, generazione dopo generazione,
come
adulti sessualmente analfabeti”
David C. Wiley,
presidente dell’American School Health Association
Il Texas ha il più alto numero di ragazze madri, gli adolescenti che hanno rapporti sessuali sono il 52,5 % (la media nazionale è del 47%), e il tasso di diffusione dell’hiv è tra i più alti del Paese ma a causa di sostenitori molto influenti come George W. Bush e al fatto che i distretti scolastici hanno completa autonomia in tema di educazione sessuale, l’astinenza viene presentata come l’unico metodo sicuro per prevenire le malattie sessualmente trasmissibili, le gravidanze e i “traumi emotivi legati ai rapporti sessuali”. Recentemente poi è stata approvata una legge secondo cui le cliniche che praticano aborti devono dotarsi di locali, attrezzature e personale, equivalenti a quelli delle sale chirurgiche degli ospedali: il governo conservatore sostiene che queste misure servano a garantire la sicurezza delle donne, ma per le associazioni contrarie alla legge il vero obiettivo del provvedimento è rendere ancora più difficile l’interruzione di gravidanza. E in effetti in tutto il Texas, che ha una superficie di 700.000 chilometri quadrati ed è il secondo Stato più popoloso degli Usa, le cliniche che praticano aborti erano 41 nel 2012, e oggi sono solo18.
Questo è l’ambiente sottoproletario e puritano in cui si muove Layla, una diciassettenne che dopo aver ricevuto una borsa di studio per Austin, scopre di essere incinta e pressata dalla sua famiglia, contraria all’aborto, rinuncia al college e va a vivere con la nonna in una roulotte.
Ecco
la recensione completa:
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Per Donatella Colasanti e tutte le donne vittime di violenza
“Si chiamava Donatella
come me”
di Monica Macchi
“Dedicato a Donatella, a Rosaria,
Mariacarmela, Valentina
e a tutte le donne vittime di
violenza”
“Battiamoci per la verità”
Donatella Colasanti
29 settembre 1975: Rosaria Lopez e Donatella Colasanti arrivano con Gianni Guido e Angelo Izzo a Villa Moresca a San Felice Circeo, di proprietà della famiglia di Andrea Ghira che li raggiungerà poco dopo. Le due ragazze vengono rinchiuse in bagno, drogate, torturate, seviziate, violentate in un crescendo di odio sia misogino che classista. Dopo diverse ore, Rosaria viene annegata nella vasca da bagno e Donatella riesce a sopravvivere fingendosi morta. La sera successiva i tre ragazzi, giovani neofascisti della “Roma bene”, caricano le due ragazze nel baule dell’automobile, tornano in città e vanno a mangiare in trattoria. Un metronotte sente le urla di Donatella dall’auto parcheggiata in via Pola e nel giro di poche ore Izzo e Guido vengono arrestati (Izzo è stato fotografato mentre esibisce spavaldamente le manette ai polsi, sorridendo), mentre Ghira, grazie a una soffiata, non verrà mai catturato e si dice che sia morto in Spagna anche se l’identità della salma non è mai stata affermata in maniera incontrovertibile. La Colasanti ha seguito tutte le fasi del processo che ha dato un contributo fondamentale nella formulazione della nuova legge contro lo stupro che viene ora considerato un reato contro la persona e non più contro la morale e nel 2005 muore a soli 47 anni per un tumore al seno.
26 settembre alle 20,30 e 27 alle 19,00 presso il Csoa Spartaco di via Selinunte a Roma, va in scena “Si chiamava Donatella come me”, uno spettacolo teatrale di Donatella Mei, che si è sempre occupata di storie di donne (nel 2013 scrive “Desdemona, Ofelia, Giulietta e le altre (ovvero se Shakespeare fosse stato femminista)” e nel 2015 la trilogia su Dora Maar, Tina Modotti e Camille Claudel). Uno spettacolo di denuncia a livello personale e politico ed insieme una riflessione sui meccanismi relazionali fra uomini e donne ma soprattutto un viaggio nell’anima della protagonista in cui ogni tappa è scandita dalla storia giudiziaria e dal destino diverso e paradossale dei tre colpevoli. Uno spettacolo tragicamente attuale.
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Guida sanitaria per espatriati
Con
piacere vi informiamo che il
progetto Siscos - Guida sanitaria per espatriati - è
disponibile online, con un sito web aggiornato e facilmente
navigabile.
Lo scopo è quello di fornire alcune semplici norme di comportamento
per i tanti problemi sanitari che tutti gli operatori delle ONG
convenzionate con SISCOS possono dover affrontare nelle missioni
all’estero.
“Siamo convinti che partendo dalla prevenzione sanitaria si possa contribuire alla sicurezza degli operatori delle Ong” – ha sottolineato Cinzia Giudici, Presidente della Siscos, in occasione della presentazione della Guida alla conferenza “La sicurezza è una cosa seria”, organizzata dalle tre reti ONG alla Farnesina con la presenza del Ministro degli Affari Esteri Paolo Gentiloni. E’ per questo che la Guida consente di raggiungere i migliori siti internazionali che approfondiscono il tema della protezione del personale impegnato in missioni in paesi tropicali e non, offrendo aggiornamenti costanti sulle emergenze sanitarie inatto.
La Guida ospita inoltre il dossier “Suggerimenti per la gestione dei rischi e la sicurezza degli operatori delle Organizzazioni di Cooperazione e Solidarietà Internazionale”, predisposto dalle reti di Ong Aoi, Cini, Link2007 in collaborazione con l’Unità di Crisi del MAECI, con informazioni e suggerimenti utili a fornire una visione d’insieme delle problematiche relative alla sicurezza in contesti potenzialmente pericolosi.
“Siamo convinti che partendo dalla prevenzione sanitaria si possa contribuire alla sicurezza degli operatori delle Ong” – ha sottolineato Cinzia Giudici, Presidente della Siscos, in occasione della presentazione della Guida alla conferenza “La sicurezza è una cosa seria”, organizzata dalle tre reti ONG alla Farnesina con la presenza del Ministro degli Affari Esteri Paolo Gentiloni. E’ per questo che la Guida consente di raggiungere i migliori siti internazionali che approfondiscono il tema della protezione del personale impegnato in missioni in paesi tropicali e non, offrendo aggiornamenti costanti sulle emergenze sanitarie inatto.
La Guida ospita inoltre il dossier “Suggerimenti per la gestione dei rischi e la sicurezza degli operatori delle Organizzazioni di Cooperazione e Solidarietà Internazionale”, predisposto dalle reti di Ong Aoi, Cini, Link2007 in collaborazione con l’Unità di Crisi del MAECI, con informazioni e suggerimenti utili a fornire una visione d’insieme delle problematiche relative alla sicurezza in contesti potenzialmente pericolosi.
Il sito della guida sanitaria è visitabile al link http://guidasanitaria.siscos.org, oppure raggiungibile dal portale Siscos www.siscos.org
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giovedì 24 settembre 2015
Razzisti, ma soprattutto ignoranti
di
Davide
Rossi
Segretario
generale SISA
Migliaia
di profughi delle guerre scatenate dall’Occidente, dalla Siria alla
Libia, cercano scampo in Europa. Come sempre l’egoismo razzista si
contrappone alla solidarietà umana e a una analisi seria delle
vicende, capace di riconoscere le gravi responsabilità dei governi
europei nella caduta di Gheddafi e nel contrasto del governo
legittimo siriano di Assad, da sempre volto al rispetto di tutti i
gruppi linguistici e religiosi della Repubblica Araba Socialista di
Siria.
Tuttavia,
i razzisti, certamente in mala fede, ma soprattutto ignoranti,
agitano due temi, quello dell’impossibilità dell’accoglimento
dei migranti in Europa, in cui secondo loro non ci sarebbe posto e
quello, con il quale cercano di camuffare il loro razzismo, di
aiutare i migranti a casa loro. Occorre invece capire perché milioni
di donne e di uomini di Africa, Asia, America Latina e soprattutto
giovani dei paesi arabi del Mediterraneo, nel giro di pochi anni
verranno – per fortuna - in Europa, per lavorare, assolvendo in
molti casi alle mansioni rifiutate dagli europei, pagare le tasse e
contribuire in modo fondamentale al sostegno della pensioni degli
europei, le quali gli stranieri stanno già pagando coi loro
contributi. Questi stranieri arriveranno in numero molto più
considerevole dei profughi che con pieni diritti e ragioni
attualmente stanno cercando salvezza oltre i muri abominevoli eretti
qua e là dall’Ungheria a tante altre parti del vecchio continente.
Qui
non c’è posto
In
Europa vive la popolazione più vecchia della terra, più o meno ogni
giorno muoiono due anziani e nasce solo un bambino, che tra l’altro,
si chiama spesso Hu, Carlos, Vladimir e Aisha. A Bruxelles, capitale
europea, da oltre dieci anni il nome più frequente tra i bambini
nati nel corso dell’anno e che risulta essere il primo all’anagrafe
è Mohammed. Senza i figli degli immigrati, che sono i cittadini
europei di domani, l’Europa vivrebbe uno spopolamento di
proporzioni incredibili. Per altro in Europa nelle case è garantito
ciò che lo sfruttamento delle materie prime energetiche e alimentari
compiuto dall’Occidente nel resto del pianeta è negato alla
popolazione mondiale, ovvero letti confortevoli e non giacigli
malsani, tetti veri che proteggano dal freddo e dalla pioggia e
rubinetti che garantiscano acqua corrente, quasi sempre potabile e
spesso non solo fredda, ma anche calda. Tali elementari diritti umani
sono negati a larga parte dell’umanità e chiunque si trovi a
vivere là dove si devono fare chilometri a piedi per garantirsi a
mala pena un secchio d’acqua al giorno ambisce come naturale a
migliorare le proprie condizioni di vita, quindi migra là dove
letti, tetti e rubinetti sono garantiti. Per di più in Europa la
densità demografica è scarsa, qui di posto ce n’è molto. Mentre
nel mondo si vive in dieci in sessanta metri quadrati, in Europa in
molti casi in cento metri quadrati vivono solo una o due persone. Il
Bangladesh ad esempio ha una superficie di 150mila chilometri
quadrati, l’Italia ha esattamente una superficie doppia, 300mila,
in Italia vivono 60 milioni di persone, in Bangladesh 180 milioni,
ovvero il triplo. È come se in Italia ci fossero 360 milioni di
cittadini. L’Egitto ha 100 milioni di abitanti, in stragrande
maggioranza giovani, come il Bangladesh, con poche prospettive di
lavoro e di futuro, in Egitto teoricamente il territorio nazionale è
di un milione di chilometri quadrati, ma escluse le zone aride e
desertiche, una popolazione quasi doppia di quella italiana vive di
fatto in un territorio che è un terzo di quello italiano, in
famiglie numerose e in case in cui l’acqua è portata per le scale
nei secchi e la luce elettrica, quando c’è, entra attraverso un
filo volante che giunge direttamente dalla strada e passa per la
finestra. Ai ragazzi somali va anche peggio, l’Italia ha messo
sotto il loro terreno e nel mare prospiciente le loro coste le poche
scorie radioattive delle centrali nucleari italiane e parte delle
abbondanti scorie radioattive delle centrali francesi, per questo è
stata uccisa Ilaria Alpi, i somali quindi non possono coltivare,
allevare bestiame, pescare, possono solo fare i pirati, bloccando e
rivendendo i prodotti delle navi che transitano davanti alle loro
coste, o emigrare. Si potrebbero proporre altre centinaia di casi in
tutto il mondo. Quello che deve essere chiaro è che chiunque, avendo
quindici o sedici anni e trovandosi in queste realtà drammatiche e
disastrate, vorrebbe vivere in un altro posto, dove acqua e luce sono
garantiti e magari anche un letto e un tetto. Per questo milioni di
ragazzi del Mediterraneo e del resto del mondo nei prossimi anni
verranno a vivere in Europa.
Aiutiamoli
a casa loro
I
primi che vorrebbero essere aiutati a casa loro sono le donne e gli
uomini, le ragazze e i ragazzi di tutti i paesi della terra, che
ambirebbero a crescere in pace nei loro paesi, vedendosi garantiti
non solo casa, scuola, lavoro, salute, ma anche come detto, un letto
decoroso, un tetto solido e un rubinetto d’acqua corrente. Le
pessime condizioni di vita di larga parte dell’umanità tuttavia
sono determinate dallo sfruttamento occidentale. La ricchezza
costruita e accumulata dall’Occidente dal 1945 a oggi è il
risultato in minima parte del lavoro degli europei e in massima parte
dello sfruttamento e della rapina delle materie prime energetiche e
alimentari del resto del mondo. Tale rapina a prezzi di furto, seppur
camuffata da scambio commerciale, è oggi sempre più difficile per
l’Occidente, essendoci paesi come la Cina e la Russia ben disposti
a pagare cifre dieci volte più alte quelle materie prime
precedentemente depredate dall’Occidente, che infatti vive, come
scrivo spesso, un declino non reversibile.
Si
potrebbero fare centinaia di esempi, ne faccio alcuni. Quando gli
algerini hanno votato per chiedere che gli europei pagassero il
doppio il metano e il petrolio esportato dal loro paese, in modo da
garantirsi un più degno stato sociale, Francia e Italia hanno
organizzato un colpo di stato per negare agli algerini i loro
diritti. Quando Thomas Sankara ha creato il Burkina Faso esigendo
relazioni commerciali rispettose, il presidente francese Mitterand ne
ha organizzato l’omicidio e la sostituzione con politici piegati
agli interessi occidentali, come un quarto di secolo prima sempre gli
occidentali hanno eliminato Patrice Lumumba in Congo, che chiedeva
rispetto per il suo popolo e un pagamento corretto per l’esportazione
delle ricchezze nazionali. In Congo oggi gli europei organizzano una
guerra in Kivu, perché non vogliono pagare il coltan, la
columbotantalite, che serve per le batterie dei cellulari, più di
quello che oggi pagano i cinesi. Insomma a parole gli occidentali
sono per il libero mercato, ma poi, quando non possono rapinare le
ricchezze, il libro mercato non lo gradiscono più e come nel caso
del coltan, lo rubano e lo esportano attraverso l’Uganda, che non
ha una miniera di coltan, ma è il secondo esportatore mondiale.
Aiutare
a casa loro le donne e gli uomini del mondo significherebbe allora
improntare gli scambi commerciali a regole di giustizia, al pagamento
di salari equi, non mezzo dollaro per dodici ore al giorno in una
piantagione di caffè del Gabon, o in una piantagione di cacao in
Costa d’Avorio.
I
governi occidentali e le multinazionali orchestrano tra loro una
bestiale connivenza che ha come finalità quella di preservare queste
pratiche di sfruttamento planetario generalizzato, arricchendo le
multinazionali e garantendo un tenore mediamente alto di vita ai
cittadini occidentali, che possono permettersi un livello di consumi
inimmaginabile in qualsiasi altra parte della terra. Occorrerebbe
scardinare questo sistema, dimezzare, come minimo, gli utili delle
multinazionali e chiedere che tali utili vengano corrisposti ai paesi
produttori, in cui l’Occidente dovrebbe smettere di imporre al
potere politici le cui sole qualità sono la connivenza con gli
interessi occidentali a danno dei loro popoli. Non a caso quella
manciata di nazioni del mondo che si oppone a questa bestiale pratica
di rapina, dai paesi bolivariani dell’America Latina, all’Iran,
alla Corea Popolare, sono sistematicamente criminalizzati dalla
stampa occidentale, mentre dei paesi in cui si muore di fame per
garantire all’Occidente il furto delle materie prime non si parla
mai. I cinesi, in Africa e nel resto del mondo, non solo pagano cifre
infinitamente più alte le materie prime, ma anche collaborano
all’edificazione di pozzi, strade, case, scuole e ospedali, la
simpatia che suscita la Cina nei paesi del Sud del mondo nasce da
gesti concreti di rispetto e di solidarietà praticati dal governo di
Pechino e mai praticati dagli occidentali.
Occorrerebbe
anche mettere in conto che, per aiutare a casa loro il resto dei
cittadini del mondo, gli occidentali, anche contrastando e mutando le
politiche criminali dei governi occidentali e delle multinazionali,
dovrebbero pagare le materie prime di più, dal cacao al caffè,
dalla benzina alla bolletta della luce. Certo è difficile proporlo
per famiglie già impoverite dalla crisi, ma non vi è alternativa e
sarebbe allora necessario rivedere radicalmente il piano di priorità
e di investimenti nazionali, stabilendo chiaramente che aiuti e
sovvenzioni ai cittadini europei di ciascuna nazione dovrebbero
essere erogati e garantiti.
Chi
dunque propone di aiutare le donne e gli uomini della terra a casa
loro, o ha in mente una miserevole e inutile attività caritatevole,
o agita demagogicamente una frase priva di sostanza solo e soltanto
per alimentare la guerra tra poveri, europei e del mondo, senza
focalizzare i problemi e la realtà nella loro essenza.
Ci
troviamo quindi, di fronte a mutamenti epocali, che hanno ragioni
storiche e sociali profonde. Per costruire il futuro occorre capire
tali mutamenti, non nasconderli per agitare pratiche stupidamente
razziste. Solo la consapevolezza di tali mutamenti ci permetterà di
costruire una società solidale e aperta, ma prima di tutto capace di
essere parte dei cambiamenti stessi senza subirli passivamente o
peggio contrastarli con astio e paura e comunque inutilmente.
Solo
promuovendo il rispetto reciproco e una convivenza rispettosa di
ciascuna cultura sarà possibile costruire l’Europa di domani,
l’alternativa è la bestiale barbarie dello scontro di civiltà, un
progetto criminale, ma anche assurdo, perché vedrebbe comunque - e
per fortuna - alla fine soccombere i razzisti, ma dopo una
frantumazione sociale spaventosa in cui gli stranieri, autentici
rappresentanti delle nuove forme del proletariato, si troverebbero a
fronteggiare con pochi europei al loro fianco, una campagna d’odio
di enormi proporzioni, in cui la violenza diventerebbe quotidiana. È
tempo invece di costruire gli spazi di convivenza democratica del
futuro, partendo dalla cultura e magari dal senso della storia. I
lombardi ad esempio sono lombardi perché quindici secoli fa dalla
Pannonia sono arrivati i longobardi. I flussi migratori, generati
dalle realtà economiche e demografiche sopra esposte, sono
incontenibili e saranno sempre più numerosi, nessuna forma di
repressione, stupida, sbagliata e inutilmente violenta, potrà
ridurli.
Contrastare
il futuro è stupido e velleitario, costruirlo in forma solidale è
infinitamente più utile, ragionevole e intelligente.
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mercoledì 23 settembre 2015
Cosa ha imparato l'Europa dagli errori delle politiche passate?. Un intervento di Barbara Spinelli
Barbara
Spinelli (Gue/Ngl) è intervenuta nella riunione congiunta delle
commissioni Affari
esteri (AFET) e Libertà civili, giustizia e affari interni (LIBE)che
si è tenuta questa mattina nella sede del Parlamento europeo di
Bruxelles sulRispetto
dei diritti umani nel contesto dei flussi migratori nel
Mediterraneo, alla
presenza della vicepresidente della Commissione europea e Alto
rappresentante per la politica estera Federica Mogherini, del
commissario per la Migrazione, affari interni e cittadinanza dell’UE
Dimitris Avramopoulos e dell’Alto commissario delle Nazioni Unite
per i Rifugiati (UNHCR) António
Guterres
«Vorrei
porre due domande all'Alto Rappresentante per la politica estera
Mogherini riguardo all’operazione navale EUNAVFOR Med, considerando
che ci troviamo alle soglie del passaggio alla fase due
dell’operazione, quella che prevede lo smantellamento delle
organizzazioni dei trafficanti tramite l’abbordaggio e
l’affondamento in mare aperto dei barconi su cui viaggiano i
profughi – e dunque più vicini alla fase tre, quella in cui
l’operazione sarà condotta nelle acque territoriali libiche e nel
territorio stesso della Libia.
Quello
che vorrei chiedere è contenuto, grosso modo, nell’intervista
rilasciata dal ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov il 13
settembre: intervista che ritengo di estrema importanza in virtù
della decisione – favorevole o non favorevole all’iniziativa UE –
che il governo russo prenderà nel Consiglio di sicurezza della
Nazioni Unite.
Quale
significato assume il concetto di lotta agli smuggler quando
ci troviamo di fronte non a barconi, come sempre più spesso accade,
ma a gommoni che il più delle volte non sono "governati"
da nessuno? Gli smuggler cui
si pretende di dare la caccia con questa operazione sono spesso molto
lontano dai barconi.
Quale
dovrebbe essere esattamente il mandato dell'operazione EUNAVFOR Med
quando, nell’ipotetica terza fase, saranno previste operazioni
militari nelle acque territoriali e nei porti della Libia? Infine, e
soprattutto: quali lezioni ha tratto l'Europa dagli errori delle
politiche passate – come giustamente si è interrogato il
rappresentante della Tunisia Karim Helali che ha parlato prima di me
– errori che, non dimentichiamolo, hanno provocato e acuito l'esodo
di questi anni?»
martedì 22 settembre 2015
Corso: CINEMA e DIRITTI
L'Associazione
per i Diritti Umani
in collaborazione con Arci
Scuotivento di MONZA
presenta
il corso di cinematografia:
CINEMA
e DIRITTI
TEMI
Un corso di cinema –
declinato in vari modi: tecniche, generi, approfondimenti tematici,
etc. - riguarda la capacità di leggere un film come se fosse un
testo scritto. La domanda principale è : “Da quali elementi è
costituito un film?”. Il Cinema può essere usato come momento di
approfondimento per alcune materie di studio e di argomenti di grande
attualità (Storia, Intercultura, Geografia/Geopolitica, Filosofia,
Sociologia) .
Il linguaggio
cinematografico è, infatti, caratterizzato da un codice , come un
testo letterario, che va decifrato per coglierne i significati
profondi, i messaggi diretti e indiretti in modo che, chi guarda e
ascolta un'opera filmica (come un'altra opera d'ARTE) sia consapevole
del contenuto della stessa.
Ecco, quindi, che
proponiamo un corso che coniuga l'aspetto tecnico con il contenuto.
Verranno analizzati cortometraggi, documentari sui temi dei diritti
umani, verranno analizzati spezzondi di film che hanno segnato la
Cinematografia per una riflessione partecipata sugli argomenti
trattati e sulle tecniche di comunicazione degli stessi.
Siamo – soprattutto i
giovani- costantemente bombardati da immagini e dal linguaggio dei
mass-media che è composto da immagini, appunto, suoni, parole.
Pensiamo alla tv, al computer con Internet, al Cinema, ai
videogames...In questa giungla di sollecitazioni è necessario saper
scegliere il prodotto utile alla crescita, alla giusta e corretta
informazione, alla buona conoscenza di sé e di ciò che accade
intorno a noi.
FINALITA’ e
OBIETTIVI
La finalità principale è
quella di dare agli utenti tutti gli strumenti per decodificare il
linguaggio delle immagini, da cui siamo costantemente stimolati. Ogni
prodotto audiovisivo, infatti, è veicolo di comunicazione di un
messaggio: ma di quali messaggi ? E come tali messaggi vengono
comunicati ?
Come già detto, i
percorsi si pongono gli obiettivi di insegnare a scegliere, tra i
vari messaggi,quelli positivi; di stabilire quale sia un buon
prodotto filmico; di “difendersi” dalle informazioni, opinioni e
altro che pilotano le nostre scelte all’interno della società
contemporanea, società dell’immagine e non del contenuto.
METODOLOGIA
Il progetto prevede 4
incontri in cui l’esperto parlerà, con lezioni frontali, delle
tecniche cinematografiche di base ( a cui potranno seguire
approfondimenti). Ogni lezione sarà accompagnata dalla visione
guidata di spezzoni tratti dai film più importanti della
cinematografia mondiale, passata e recente. Analisi critica degli
spezzoni insieme ai partecipanti.
Alla fine del percorso,
si lavorerà insieme sulla decodifica di un cortometraggio. Verranno
consegnate dispense sui termini tecnici più usati.
DURATA e COSTI
4 incontri di 90 minuti
ciascuno
Quota
per partecipante: 60 euro
DATE e ORARI
venerdì
30 ottobre, ore 21.00
venerdì
6 novembre, ore 21.00
venerdì
13 novembre, ore 21.00
venerdì
20 novembre, ore 21.00
Il corso verrà
attivato con un minimo di 10 partecipanti e si terrà presso Arci Scuotivento, Via Monte Grappa 4B, Monza
Per prenotazioni, scrivere a : peridirittiumani@gmail.com
ESPERTO
Alessandra Montesanto,
critico cinematografico, formatrice presso vari istituti scolastici,
cultore della materia presso l’Università di Urbino, autrice del
volume “Visioni urbane – Cinema tra viaggi e architetture”,
Arcipelago edizioni. Curatrice del volume “Immigrazione e
Mass-media. Per una corretta informazione” Arcipelago Edizioni
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Una nuova rubrica. America latina: i diritti negati
Care
amiche, cari amici
oggi
inauguriamo, con molto piacere, una nuova rubrica. Si intitola
“America latina: i diritti negati” ed è tenuta da Mayra
Landaverde, giornalista, attivista, esperta di America latina. I suoi testi
andranno ad approfondire tematiche sui diritti umani relativi a
quell'area del mondo, in particolare la relazione tra Messico e Stati
Uniti. Gli articoli verranno pubblicati il MARTEDI, ogni due
settimane.
L'Associazione
per i Diritti Umani ringrazia tantissimo Mayra Landaverde.
America
latina: i diritti negati
Di
giornalismo si muore
di
Mayra Landaverde
Avevo
pensato di invitarlo come relatore a un corso che organizza la mia
associazione. Mi sembrava uno molto in gamba e particolarmente
informato su una delle regioni più complicate e violente del
Messico: Veracruz. Da lì ci passa il treno che trasporta
i
migranti centroamericani nel loro intento di arrivare negli Stati
Uniti. In Veracruz si trovano anche Las Patronas, le donne che tutti
i giorni preparano del cibo da lanciare
sul treno carico di persone affamate che viaggiano da giorni, da
mesi. Ruben era fotoreporter. Aveva scattato ultimamente delle foto
scomode per il Presidente della Regione Javier Duarte de Ochoa. Non
ho fatto in tempo a contattarlo. Lo hanno ucciso a Città del
Messico il 2 agosto di quest’anno. Certo, ufficialmente non
si sa il
motivo, ma lo sappiamo tutti. Lui stesso si era traferito a Città
del Messico per paura di essere ammazzato per i suoi scatti che
rivelavano lo spreco di soldi del Governo dello Stato di Veracruz.
Aveva detto a tutti di essere stato ripetutamente minacciato ed è
andato via. Ma loro l’hanno trovato lo stesso. Delle persone
sconosciute sono entrati nel suo appartamento e hanno ucciso Ruben
insieme a quattro donne che erano in quel momento con lui.
Ma
prima di ammazzarlo l’hanno assediato, minacciato, picchiato.
Perché non c’era manifestazione sociale cui lui non partecipasse,
anche se l’entourage del Gobernador
gli aveva detto molto chiaramente che lui non poteva più scattare foto.
Gli negavano l’accesso agli eventi oppure lo intimavano di andarsene
anche dalle manifestazioni pubbliche.
A
giugno del 2014 il Presidente della Regione Veracruz Javier Duarte ha
dichiarato pubblicamente : “ Fate i bravi, verranno tempi
difficili, faremo un po’ di pulizia e tanti cadranno”. Qualche
mese dopo Ruben è stato trovato morto a casa sua.
A
partire dal 2000 ,Veracruz registra al meno 36 giornalisti uccisi.
Reporters
Without Borders riporta 3 giornalisti uccisi in Messico nel 2014. In
quanto a libertà di espressione il paese si trova al 148 posto in
una lista di 180 paesi.
L’anno
scorso durante una manifestazione per i 43 studenti scomparsi di
Ayotzinapa, 14 giornalisti sono stati brutalmente pestati dalla
polizia e tolti da macchine fotografiche.
Il
4 settembre 2015 in pieno centro di Città del Messico in una via
pubblica 3 giornalisti dell’Agenzia SubVersiones sono stati
minacciati di morte a causa dei loro reportage troppo scomodi per il
Governo del Presidente Pena Nieto.
Il
Messico vive una gravissima situazione di censura da anni per questo
500 scrittori, artisti e giornalisti di tutto il mondo (alcuni di
loro:
Christiane Amanpour, Francisco Goldman, Paul Auster, Noam Chomsky,
Salman Rushdie, Gael García Bernal, Diego Luna, Guillermo del Toro,
Denise Dresser, Juan Villoro y Sergio Aguayo)
hanno scritto al Presidente della Repubblica chiedendo di garantire
la libertà di espressione nel paese e la piena sicurezza fisica e
psicologica dei giornalisti.
Il
paese è in guerra, e non ho paura a scriverlo, perché è così.
Stanno ammazzando la gente che non fa altro che il proprio lavoro
denunciando la grande ingiustizia e miseria che sta vivendo il mio
paese.
E
il Governo messicano non fa e non farà nulla, anzi continuerà con
la repressione.
Tan
solo pochi giorni fa è stata pubblicata la notizia della morte di
una giornalista, si, mentre io scrivevo queste righe lei è stata
sequestrata torturata e assassinata nel suo domicilio, beh, era una
giornalista.
E
in Messico di giornalismo si muore.
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lunedì 21 settembre 2015
I frutti del carcere
Milano. La Loggia dei Mercanti, a un passo dal Duomo, ospita - sabato 26 settembre – l’iniziativa “I frutti del carcere”. In programma l’esposizione delle produzioni carcerarie e incontri di approfondimento sui temi della detenzione e delle alternative al carcere. Un’occasione per conoscere il lavoro dei detenuti, le attività svolte nei laboratori degli Istituti di pena con la mostra mercato di mobili, gioielli, accessori, abiti, prodotti alimentari (pane, focacce, dolci) oltre a fiori e piante. Saranno organizzati anche incontri e dibattiti di approfondimento incentrati sui temi della detenzione, del lavoro carcerario e delle misure alternative. A cura associazione di promozione sociale “Per i Diritti”. L’evento è inserito nel calendario di Expo in Città. Ore 10-18.30. Sito: www.comune.milano.it.
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Rom e rifugiati: in Campidoglio oltre 6 mila firme per l’inclusione
Le due delibere di iniziativa popolare della campagna Accogliamoci saranno discusse entro sei mesi.
Le due delibere di iniziativa popolare promosse dalla campagna Accogliamoci – per il superamento dei “campi rom” e per una riforma dell’accoglienza dei rifugiati a Roma – dovranno essere discusse dal Campidoglio entro sei mesi. Questa mattina i promotori della campagna hanno consegnato 6300 firme al Comune di Roma, superando così il tetto delle 5 mila sottoscrizioni necessarie affinché una delibera di iniziativa popolare venga obbligatoriamente discussa dall’Assemblea capitolina.
Per i promotori della Campagna - lanciata lo scorso giugno da una coalizione di associazioni composta da Radicali Roma, Associazione 21 luglio, A Buon Diritto, Possibile, Cild, Arci Roma, Un Ponte per, Asgi e Zalab – il successo della raccolta firme e il coinvolgimento diretto di un così alto numero di cittadini rappresentano per l’Amministrazione di Roma Capitale una occasione importante per affrontare finalmente in maniera strategica due questioni decisive per la città. «La situazione dei rom e dei rifugiati nella Capitale non può più essere affrontata attraverso un approccio emergenziale, come le varie amministrazioni capitoline che si sono succedute nel corso degli anni hanno continuato a fare – affermano i promotori della campagna -. Soprattutto all’indomani dello scandalo di Mafia Capitale, urge un’inversione di tendenza rispetto al passato: i cittadini che hanno aderito ad Accogliamoci chiedono una Capitale senza più ruspe né ghetti, senza più violazioni dei diritti umani e inutile spreco di risorse pubbliche».
La delibera sul tema rom prevede il superamento della “politica dei campi” attraverso la chiusura progressiva dei sette “villaggi della solidarietà” e dei tre “centri di raccolta rom” presenti oggi a Roma - in cui uomini, donne e bambini vivono in condizioni precarie ai margini della società - garantendo alle famiglie rom e sinte l’accesso a percorsi di inclusione abitativa e sociale, come previsto dalla Strategia Nazionale di Inclusione di Rom, Sinti e Camminanti.
L’altra delibera di iniziativa popolare mira alla riorganizzazione del sistema di accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati a Roma definendo politiche di inclusione efficaci - e monitorate da organizzazioni indipendenti - che non si limitino alla prima assistenza, ma tutelino realmente il diritto d’asilo superando il sistema dei grandi centri profughi attraverso un’accoglienza diffusa e integrata sul territorio: centri di dimensioni contenute e piccoli gruppi che consentano ai beneficiari di entrare in relazione col territorio e di acquisire una propria autonomia e un’autentica inclusione sociale.
Hanno aderito alla campagna personalità del mondo politico, tra cui Emma Bonino, Luigi Manconi, Riccardo Magi, Giuseppe Civati, Rita Bernardini, Furio Colombo, Khalid Chaouki e Fabrizio Barca. GUARDA IL VIDEO del concerto per la chiusura della raccolta firme con gli interventi di Emma Bonino, Luigi Manconi, Carlo Stasolla e Riccardo Magi.
«La chiusura positiva della raccolta firme rappresenta solo il primo passo della campagna Accogliamoci. Da questo momento in poi sarà nostro compito vigliare sull’impegno dell’Amministrazione capitolina a discutere le due delibere e esortarla ad avere il coraggio di mettere in campo politiche inclusive che liberino la città dai ghetti, dai diritti calpestati e dai muri dell’intolleranza», concludono i promotori dell’iniziativa.
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