"...Non si potrà avere un globo pulito se gli uomini sporchi restano impuniti. E' un ideale che agli scettici potrà sembrare utopico, ma è su ideali come questo che la civiltà umana ha finora progredito (per quello che poteva). Morte le ideologie che hanno funestato il Novecento, la realizzazione di una giustizia più giusta distribuita agli abitanti di questa Terra è un sogno al quale vale la pena dedicare il nostro stato di veglia".
Papa Francesco mette d’accordo tanti: i cattolici, ma
anche i fedeli di altre confessioni, come i migranti di Lampedusa o di Ponte
Galeria che a lui si sono appellati in nome dell’umanità che dovrebbe
appartenere a tutti. E proprio agli immigrati sono andati il pensiero e la
preghiera dell’Angelus di domenica 29 dicembre 2013.
“In terre lontane anche quando trovano lavoro - e non
sempre - non sempre i profughi e gli immigrati incontrano accoglienza vera,
rispetto, apprezzamento dei valori di cui sono portatori. Le loro legittime
aspettative si scontrano con situazioni complesse e difficoltà che sembrano a
volte insuperabili”: questo un brano del discorso del pontefice, parole lucide
e prive di retorica che ritornano a far riflettere sugli ultimi tragici fatti
di cronaca, che per noi lettori è soltanto, appunto, “cronaca”, ma per molti
richiedenti asilo e aiuto è speranza di vita. “Pensiamo al dramma di quei
migranti e rifugiati che sono vittime del rifiuto, dello sfruttamento, che sono
vittime delle persone e del lavoro schiavo”: qui il Papa sottolinea, senza reticenze,
quali sono i problemi e le difficoltà di chi lascia il proprio Paese d’origine,
affronta un viaggio spesso spaventoso, si affida agli estranei e cerca la
sopravvivenza. Uomini, donne e anche bambini. Non fa sconti, il Papa, nel ricordare
le responsabilità e diventa portavoce di quegli uomini, di quelle donne e di
quei bambini.
Ma l’Angelus è stato rivolto anche agli altri “esiliati”,
quelli che non sono poi così lontani, che magari sono all’interno delle nostre
stesse famiglie, nei nostri palazzi, nelle strade che percorriamo ogni giorno:
sono quelli che Papa Francesco ha definito “esiliati nascosti. Gli anziani, per
esempio, che a volte vengono trattati come presenze ingombranti”. A loro
possiamo aggiungere anche i senzatetto e tutti quei poveri che non si meritano
tanta indifferenza.
La società è, o potrebbe ritornare a farsi famiglia: una
comunità dovrebbe reggersi sull’ attenzione e sulla reciprocità. E il discorso
di un uomo non solo di Chiesa, ma di un uomo semplicemente religioso può
contribuire a ricordarlo anche a chi, come chi scrive, è laico e crede ancora
nei valori e nei diritti universali.
Jolanda risponde ad alcune domande sulla sua vita e, con
la naturalezza dei suoi cinque anni, dice di essere nata a Siena, ma di essere
anche albanese; racconta di aver paura dell’Albania perché ci sono i banditi
con la pistola, ma di aver voglia di tornare perché può andare da sola dalle
amiche, mentre a Milano è pericoloso perché ci sono le macchine.
Jolanda è una delle due figlie di Adrian Paci, l’artista
albanese che vive e lavora a Milano dal 1997. Il PAC, Padiglione d’Arte
Contemporanea, in Via Palestro, gli dedica una ricca retrospettiva che si può
visitare fino al 6 gennaio 2014 e dal titolo “Vite in transito”.
Nato nel 1969 a Scutari, Paci è arrivato in Italia negli
anni’90, gli anni del cosiddetto “primo flusso migratorio” quando tanti suoi
connazionali venivano dall’Albania e dal resto dell’Europa dell’Est in cerca di
fortuna su barconi carichi di persone e di speranze. Un fenomeno, questo, che
da allora continua ripetersi per tanta umanità sfortunata.
Adrian Paci è, invece, arrivato in aereo e con il visto
sul passaporto perché voleva studiare in Italia come vincitore di una borsa di
studio in “Arte e liturgia” ottenuta presso l’Istituto Beato Angelico di
Milano. E da qui inizia la sua carriera.
Una carriera che è possibile ripercorrere nella mostra in
corso al PAC di Milano e il cui titolo Vite
in transito fa riferimento alla propria e a quella della sua famiglia, ma
soprattutto a quella di tanti migranti poveri che cercano in Occidente un
eldorado, spesso veicolato dalle immagini fittizie della televisione e di altri
media, ma che non corrisponde più alla realtà. Il titolo della retrospettiva ,
però, può essere letto anche in senso più metaforico: si riferisce, infatti,
anche al divenire dell’esistenza stessa che, per tutti, porta a continui cambiamenti.
Pittura su vari materiali, tecniche diverse di tratti e
di segni, videoinstallazioni, fotografie: la ricerca poliedrica creativa e
stilistica di uno degli artisti contemporanei più affermati al mondo, riporta
sempre al centro della riflessione temi di grande attualità. Sdraiata verso la
grande vetrata dell’edificio e imponente, si allunga una grande colonna di
marmo che ricorda quelle antiche greco-romane: si tratta dell’opera più recente
realizzata da Adrian Paci. Una colonna di marmo orizzontale rivolta verso una
parete su cui scorre un video. Nelle immagini è inquadrata una nave cargo sulla
quale alcuni artigiani cinesi stanno lavorando un grosso pezzo di marmo da cui
prenderà forma proprio quella colonna. The
column, questo il titolo dell’installazione,riprende i temi cari all’autore: il viaggio come speranza e
utopia, la de-localizzazione del lavoro, la trasformazione delle tradizioni.
A proposito di lavoro, Paci ritorna sul tema anche in Electric blue: si tratta di un video in
cui un uomo, per mantenere la sua famiglia, rinuncia al sogno di diventare
regista e decide di copiare videocassette di film porno. Scoprirà che suo
figlio le guarda e deciderà di cancellarle con filmati presi dalla televisione.
Il risultato sarà che sulle videocassette verranno registrate immagini della
guerra appena scoppiata nel Kosovo mischiate a quelle porno: ma qual è la vera
pornografia?
Alla Biennale 2005 di Venezia, l’artista porta un video
dal titolo Turn On: al PAC è esposta
una bellissima fotografia, tratta da quell’opera, che racconta da sola altre
vite in transito, o meglio, in attesa: è ritratto, infatti, un gruppo di
disoccupati di Scutari, seduti sui gradini dello stadio, ad aspettare di essere
reclutati per un lavoro a cottimo. E’ notte e ognuno di loro ha con sé un
generatore di corrente: una luce fioca che illumina volti seri e segnati dal
freddo; una luce tenue ancora di speranza.
La speranza, o l’illusione, dei protagonisti anche del
video intitolato Centro di permanenza
temporaneo: lo spettatore si trova di fronte a una scena di mobile
immobilità, l’aeroporto come luogo di transito per eccellenza, ma anche
non-luogo.La scaletta del velivolo
piena di persone pronte a partire…ma manca l’aereo e i migranti restano sospesi
nel vuoto.
Cari lettori, oggi vi proponiamo il video dell’incontro che
abbiamo avuto con Mohamed Ba – attore e scrittore – in occasione del progetto
ideato e organizzato da Associazione Spazio Tadini, intitolato SAVE MY DREAM:
alcuni artisti hanno donato un’opera, esposta nella mostra allestita nello
spazio dell’associazione fino alla fine di gennaio. Le opere sono in vendita e
il ricavato sarà devoluto ai Comuni di Lampedusa e di Linosa per contribuire all’aiuto e
all’accoglienza dei migranti.
L’Associazione per i Diritti Umani ha organizzato, giovedì
12 dicembre scorso, l’incontro-intervista con Mohamed Ba per approfondire i
temi legati ai processi migratori: perché molte persone decidono di abbandonare
il Paese d’origine? Quali sono le difficoltà che incontrano una volta arrivate
in Europa, in Italia?Cosa dovrebbero
fare le istituzioni per migliorare le loro condizioni? Si è discusso di questo
e di molto altro a partire anche dal libro intitolato “Il tempo dalla mia
parte” e dallo spettacolo teatrale “Il riscatto”.
Vi ricordiamo, inoltre, che abbiamo scritto la recensione
del film Và pensiero-Storie ambulanti, recensione
che potete trovare nei post precedenti. Il film riprende queste tematiche e
Mohamed è uno dei protagonisti: non solo del film, ma purtroppo, anche di una
bruttissima storia che lo ha segnato, in tutti i sensi, e che dovrebbe
continuare a far riflettere.
Senza parole. Basta parole, vogliamo i fatti. Forse con
queste frasi si può interpretare la scelta di cucirsi, letteralmente, le
labbra; una scelta effettuata da dieci immigrati - sei marocchini e quattro
tunisini - rinchiusi nel Centro di Identificazione e di Espulsione di Ponte
Galeria, nel Lazio, come forma di protesta per le condizioni in cui si trovano
e anche per la scomparsa, da parte di uno di loro, dei soldi inviati alla
famiglia in Tunisia mentre si trovava in carcere, a Civitavecchia.
Foto Ansa
E' vero: alcuni immigrati sono stati in prigione, ma dopo aver espiato
la pena sono stati di nuovo rinchiusi nel CIE. Per questo motivo il Garante dei
detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, ha rilasciato un comunicato in cui chiede
il superamento dei CIE e nuove procedure per il rientro nei Paesi d'origine per
i migranti detenuti.
Il Garante si riferisce alla possibilità del rimpatrio volontario
assistito (RAV) che dovrebbe essere finanziato dal Ministero dell'Interno, un
progetto che prevede - per chi sceglie di tornare in patria al termine della
pena - di intraprendere un percorso assistito basato su tempi certi e senza
passare di nuovo per il CIE dove i migranti vengono identificati. Invece
“l'introduzione di un meccanismo di identificazione già in carcere”,
sostieneMarroni, “è la premessa per
permettere ai detenuti stranieri di scontare la loro pena nel Paese d'origine”.
Foto Ansa
Il Direttore del Centro, Vincenzo Lutrelli, afferma che la situazione è
sotto controllo, anche se uno dei migranti con le labbra cucite si è sentito
male e altri 37 stanno facendo lo sciopero della fame.
Un ultimo episodio di disperazione, inoltre, si è verificato lunedì
scorso, quando un urlo improvviso è salito dal reparto donne del centro, dove
si trovano circa trenta persone. Una giovane tunisina voleva togliersi la vita,
impiccandosi con un lenzuolo. Lei e il suo compagno, arrivati a fine novembre a
Lampedusa, avevano appena ricevuto il rigetto della loro richiesta di asilo
politico. Lutrelli ha parlato con la donna, le ha fatto incontrare il compagno
ed è riuscito a farla desistere dal suo intento suicida. Ma per quanti
richiedenti asilo la situazione potrebbe degenerare?
Intanto, in questi giorni, un altro gesto, un'altra scelta
significativa: quella del deputato Pd, Kalid Chaouki, che si era rinchiuso nel
centro di Lampedusa per chiederne la chiusura dopo la vergogna dei migranti
“disinfettati” con un getto d'acqua gelata, in pieno inverno, all'aperto e
privati degli abiti. Il giorno della vigilia di Natale sono cominciati i
trasferimenti degli immigrati verso altre strutture.
Il ministro per l'integrazione, Cècile Kyenge, ha così commentato le
notizieche arrivano dai CIE: “Gli
ultimi fatti confermano la necessita’ di modificare un sistema che ha portato
tensioni e difficolta’ all’interno dei centri”, impegnandosi a ripensare e
migliorare, 'di concerto con il Governo', le misure di accoglienza”, mentre i
migranti di Ponte Galeria scrivono a Papa Francesco, appellandosi al suo senso
di giustizia.
Parlare
di mafia, sorridere e commuoversi: è possibile. E' riuscito a farlo
Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif - ex del trio de Le
Iene, celebre
trasmissione televisiva di Italia 1, ma anche aiuto regista di Marco
Tullio Giordana in quel capolavoro de I
100 passi (sulla
vicenda di Peppino Impastato) di cui La
mafia uccide solo d'estate
è come un fratello cinematografico.
Diliberto
è cresciuto professionalmente e ha deciso di mettersi dietro la
cinepresa per raccontare la mafia attraverso gli occhi di un bambino,
Arturo, e con il registro della commedia che, spesso, durante la
narrazione, porta al sorriso.
Nato
a Palermo, Arturo è stato concepito lo stesso giorno in cui venne
ucciso Michele Cavataio per mano di Riina, Provenzano, Bagarella e da
due affiliati della famiglia Badalamenti, tutti travestiti da
militari della Guardia di Finanza.
Sono
gli anni in cui la mafia abbatte quegli eroi contemporanei che hanno
lottato fino all'ultimo per sconfiggerla, in una città omertosa,
impaurita o rassegnata. E il piccolo Arturo, che cresce in questo
ambiente complesso e contraddittorio dove alcuni sono gentili e altri
spietati, vuole incontrare chi sta dalla parte giusta come il
commissario Boris Giuliano o il Generale Dalla Chiesa. L'unico che
non riesce ad incontrare è il Presidente del Consiglio, che in
quegli anni era Giulio Andreotti, ma che dallo schermo televisivo gli
impartisce una lezione sentimentale. Sì, perchè il nostro giovane
protagonista è da sempre innamorato di Flora che vede come una
principessa fin dai tempi delle elementari.
Passano
gli anni, i bambini crescono e Arturo coltiva la passione per il
giornalismo; non riesce ad essere molto diverso da quella comunità
che non vuole ribellarsi al malaffare. Ma, nel '93, qualcosa cambia.
Cambia per Arturo e Flora, cambia per Palermo, cambia per l'Italia
intera: l'uccisione dei giudici Falcone e Borsellino squarcia le
coscienze e riconsegna la voglia di dire “no” alla violenza e
all'ingiustizia. E dal sorriso si passa alla riflessione.
Un
viaggio lucido, a tratti anche divertente, in un Paese-bambino che,
forse, un po' negli anni è cresciuto: come il protagonista, infatti,
anche gli italiani hanno acquisito lucidità e fermezza
nell'affrancarsi dalla cultura della prevaricazione e delle minacce
per desiderare riaffermare i valori dell'onestà e dell'amore, quello
autentico e pulito. Pif, anche lui palermitano, guarda con disincanto
la propria terra, ma le attribuisce la capacità di riscattarsi
grazie al ricordo e all' esempio di tante persone cadute per lasciare
a tutti noi un futuro limpido e rassicurante. Arturo legge le targhe
con i nomi di quelle persone, uomini e donne, giovani e meno giovani,
che hanno perso la vita in nome della libertà, della giustizia, del
rispetto e della legalità. Quelle targhe che devono essere un monito
quotidiano per il nostro impegno a fare altrettanto.
Il
film lLa mafia uccide solo d'estate è ancora proiettato nelle
sale cinematografiche italiane e presto uscirà in DVD.
Martedì
17 dicembre, il Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro
della Giustizia, Mariagrazia Cancellieri, ha approvato il decreto
legge riguardante le carceri e il disegno di legge sul processo
civile.
Il
Presidente, Giorgio Napolitano, la Corte costituzionale e la Corte
europea dei diritti dell'Uomo avevano più volte sollecitato il
governo italiano a rafforzare misure, anche alternative al carcere,
per risolvere il problema del sovraffollamento negli istituti
penitenziari, nel rispetto della sicurezza sociale.
Mauro Scrobogna La Presse
Il
decreto sulle carceri, innanzitutto, prevede la nascita del “Garante
nazionale dei diritti dei detenuti”, senza alcun onere per la
finanza pubblica.
Viene,
poi, incentivata la scarcerazione anticipata. In questo caso, ha
affermato il Ministro Cancellieri, resta ferma e fondamentale la
decisione del giudice: non si tratta di una scarcerazione “di
massa” e automatica, ma viene spalmata nel tempo e comunque è
sottoposta alla valutazione del giudice che deve verificare il
corretto comportamento dei detenuti. La Cancellieri ha, inoltre,
voluto sottolineare che non si parla di “indulti o indultini perchè
non c'è nulla di automatico e tutto viene affidato al giudice il
quale prevede, se lo ritiene, l'uscita agevolata”. La riforma della
custodia cautelare è, invece, al vaglio del Parlamento.
Nasce il
reato di spaccio lieve e viene inserita un'altra nuova misura: l'uso
del braccialetto elettronico per i piccoli spacciatori di sostanze
stupefacenti. I soggetti tossicodipendenti potranno essere affidati
a comunità di recupero e agli organismi di assistenza sociale per
ottenere le cure di cui necessitano. L'uso del braccialetto
elettronico riguarda i casi di detenzione domiciliare e garantisce,
secondo le parole dei ministri, “ il mantenimento di adeguati
standard di controllo istituzionale sui detenuti”.
In tema
di detenzione ed espulsione degli stranieri il Guardiasigilli ha
dichiarato: “Sarà più facile l'espulsione dei detenuti
stranieri”: il ddl prevede , infatti, l'anticipazione delle
procedure di identificazione al momento dell'arresto. Tale
anticipazione dovrebbe avvenire grazie ad un'amministrazioone
congiunta tra Ministero dell'Interno, Ministero di Giustizia e
consolati e questo eviterebbe il transito degli stranieri verso i
CIE. Una volta espiata la pena, i detenuti stranieri dovrebbero
essere espulsi anche se le espulsioni saranno disposte in base alle
risorse disponibili e secondo la decisione di un magistrato di
sorveglianza.
Per
quanto riguarda, infine, la giustizia civile, le procedure saranno
più veloci. In caso di cause semplici, il giudice potrà passare a
una riduzione del processo da tre a un anno, avvalendosi anche delle
consulenze tecniche: questo può risultare utile, ad esempio, nei
contenziosi per gli incidenti stradali.
Il
Premier Letta, al termine della lettura del testo, ha voluto ribadire
che dalle misure sulle carceri “non ci sono in nessun modo elementi
di pericolosità per i cittadini”.
La globalizzazione fa
viaggiare anche le merci e, tra queste, i prodotti alimentari; ma se
siamo ghiotti di piccoli crostacei, al momento dell'acquisto,
guardiamo da dove provengono e facciamo una riflessione.
La Thailandia è il Paese
leader mondiale nell'esportazione dei gamberi perchè ne produce una grandissima
quantità e perchè i gamberi Thai sono più
convenienti di quelli di
altri Paesi. Ma per questo c'è una spiegazione.
Un documentario trasmesso
dal servizio pubblico statunitense - a cui ha fatto seguito una serie di
indagini - dimostra che l'industria del gambero sfrutta il
lavoro migrante minorile.
Secondo i dati
ufficiali solo 150 su 700 operatori di pesce primari sono registrati
presso il Ministero e le grandi fabbriche basano il loro guadagno
sulle centinaia di capannoni in cui lavorano bambini che provengono
dal Myanmar. Perchè proprio loro? Perchè
vengono percepiti come una minaccia alla sicurezza
nazionale, diventando, per
questo, vittime di un pregiudizio etnico.
Le statistiche
rilevate dal Labour Rights Promotion Network (e riportate anche da
Altroconsumo, dicembre 2013), dicono che il 19% dei minori sfruttati ha meno di
15 anni e il 22% ha tra i 15 e i 22 anni. Sono costretti a sgusciare
gamberi per dodici ore al giorno, chiusi nei capannoni sporchi e
soggetti a sostanze chimiche dannose; spesso subiscono maltrattamenti
fisici da parte dei caporali e la confisca dei documenti;
sono stati, inoltre, riscontrati anche casi di estorsione da parte
dei poliziotti. Questa situazione non riguarda solo il settore della
pesca, ma anche quello dell'edilizia, dell'agricoltura e
dell'abbigliamento dove sono
impiegate, come moderni
schiavi, migliaia di persone, tra giovani e adulti.
Ancora più serio il
problema quando si tratta di bambini e adolescenti che, anche
secondo la legge thailandese, dovrebbero vedersi assicurato il
diritto ad un'istruzione gratuita e
obbligatoria e che, invece, si ritrovano a sopravvivere in
condizioni terribili.
Il problema è ora
monitorato dal governo degli Stati Uniti che ha trasformato il
“Rapporto sul traffico di persone” in uno strumento diplomatico
per avvertire Bangkok che questo traffico deve terminare e, se
la Thailandia non dovesse dimostrare la volontà di
cambiamento, le conseguenze a livello diplomatico ed economico sarebbero
importanti anche perchè verrebbe equiparata, in termini di
violazione dei diritti umani, alla Corea del Nord e all'Iran.
Sono
persone eritree, ghanesi, siriane, kurde, nigeriane e di altre
nazionalità. Sono persone e basta. Sono state riprese denudate, in
fila, mentre sui loro corpi veniva sprizzato un getto di
disinfestante per prevenire il pericolo di malattie infettive,
ammesso che alcuni migranti ne siano affetti. Queste le immagini del video trasmesso in esclusiva dal TG2, un video che fa indignare.
Giusi
Nicolini, sindaco di Lampedusa, l'isola che da anni accoglie chi
scappa dal proprio Paese d'origine e dove si trova il Centro di
identificazione e di espulsione in cui sono state fatte le riprese,
ha così commentato la situazione: “ E' una pratica da lager. Una
pratica sanitaria non si fa all'aperto, irrorando gli ospiti nudi,
con un tubo. Lampedusa e l'Italia intera si vergogna di queste
pratiche di accoglienza”. A queste parole hanno fatto seguito molte
altre di esponenti delle istituzioni. La Presidente della Camera,
Laura Boldrini ha aggiunto: “ Uomini e donne, per essere sottoposti
ad un trattamento sanitario, vengono fatti denudare all'aperto in
pieno inverno. Quelle immagini non possono lasciarci indifferenti.
Tanto più perchè arrivano dopo i tragici naufragi di ottobre e dopo
gli impegni che l'Italia aveva assunto in materia d'accoglienza.
Quesi trattamenti degradanti gettano sull'mmagine del nostro Paese un
forte discredito e chiedono risposte di dignità”.
Si parla
di “immagine” di un Paese quando si dovrebbe parlare di “civiltà”
e, inoltre, in entrambi questi interventi viene ripetuto il termine
“accoglienza”, ma l'accoglienza si mette in pratica con i fatti e
non con discorsi e promesse.
Sono
intervenuti, ovviamente, anche il Ministro per l'integrazione Cècile
Kyenge e il Premier Enrico Letta, ai quali è stata fatta una
richiesta chiara da parte di Laurens Jolles, delegato dell'UNHCR per
l'Italia e il Sud Europa: “ Il centro di accoglienza dovrebbe
essere riportato rapidamente alla sua capienza originaria di 850
posti” per dare agli ospiti un'assistenza adeguata.
Ma che
le condizioni dei migranti che vengono smistati all'interno dei CIE
siano gravissime non è notizia di attualità. E' una situazione che
permane invariata da anni. L'Associazione per i Diritti Umani, alcuni
mesi fa, ha intervistato Alexandta D'Onofrio che, in un progetto con
Grabriele del Grande, ha realizzato un film dal titolo
La vita che non CIE.
Intervista che vi riproponiamo qui di seguito.
La
vita che non CIE di Alexandra D'Onofrio
Più di mille migranti si trovano,
in questo ultimo periodo, nel centro di accoglienza di Lampedusa:
una struttura che avrebbe una capienza massima di 300 posti.
Dall'isola i migranti vengono smistati nei CIE, Centri di
identificazione e di espulsione. Ma cosa succede a queste persone,
senza permesso di soggiorno, dentro e fuori dai Cie? Ne abbiamo
parlato con Alexandra D'onofrio, regista del documentario intitolato
La vita che non Cie,
una trilogia di cortometraggi, prodotta da Fortress Europe, in cui
si narrano le storie di un ragazzo che cerca di raggiungere la
moglie incinta, dalla Tunisia all'Olanda; di un uomo che cerca di
aiutare, dall'esterno, i suoi compagni rimasti all'interno del Cie
di Torino, dopo esserci stato lui stesso; e di un figlio che non
cresce con il padre, espulso in Marocco dopo aver vissuto tanti anni
in Italia. Un lavoro cinematografico nato nel Cie di Modena dove,
nel febbraio 2011, Gabriele Del Grande ha conosciuto Kabbour, il
protagonista dell' ultima vicenda intitolata “Papà non torna
più”. Alexandra D'Onofrio ha, poi, seguito Kabbour in Marocco e
ha deciso di raccogliere altre storie per riflettere sul tema della
giustizia e sulle politiche riguardanti l'immigrazione ma,
soprattutto, per raccontare relazioni difficili e sentimenti
universali.
La vita che non Cie è il titolo di una trilogia
che, attraverso le vicende di un ragazzo, di un uomo e di un
bambino, racconta l'odissea dei migranti da punti di vista
differenti. Da dove nascono queste storie?
Abbiamo girato
questo film tra marzo e aprile 2011 e ci siamo posti l'obiettivo di
andare a cercare dei ritratti, delle storie che potessero raccontare
ciò che non si viene a sapere dai canali ufficiali, dai media. Il
problema è stato che, nel 2011, c'era il veto di entrare nei Cie
per giornalisti e documentaristi (adesso, invece, c'è questa
possibilità) e, quindi, abbiamo tessuto le storie di persone che ci
hanno raccontato i Cie da fuori. Nel primo caso si racconta la
storia d'amore di un ragazzo che è evaso: il fotografo Alessio
Genovese - che ha seguito la vicenda fin dall'inizio e del quale ho
usato le immagini lavorando in Audiodoc - aveva incontrato la moglie
di Nizar e aveva cominciato a fotografare lei mentre andava a
trovarlo al Cie. Dopo un mese c'è stata una rivolta, i reclusi sono
evasi e il Cie è stato chiuso. Si tratta del Cie di Chinisia, fuori
Trapani: Gabriele mi ha proposto di scrivere il soggetto e poi io ho
seguito Nizar in Olanda dov'era andato per raggiunegre la sua
compagna in attesa di un figlio... Attraverso questi corti abbiamo,
infatti, voluto raccontare sentimenti universali: l'amore, la
genitorialità, la solitudine. Nel secondo corto si parla del Cie
di Torino attraverso la storia di una persona rilasciata dopo circa
cinque mesi di reclusione. Al tempo abitavamo a Torino e l'unica
realtà che restava in contatto con i detenuti era una radio, Radio
Black Out, che metteva in onda le interviste alle persone dentro il
Cie. Abdelrahim, una volta uscito, si era impegnato a fare “da
tramite” e a portare dentro alcune cose che potessero servire ai
reclusi, come cibi o vestiti, ad esempio; il film, infatti, inizia
con lui che va al mercato a comprare reggiseni per le ragazze della
sezione femminile. Abbiamo cercato di capire quanto la vita di
Abdelrahim fosse cambiata dopo l'esperienza di detenuto nel Cie e
abbiamo anche cercato di capire il motivo della sua scelta di
mantenere questa relazione con i compagni. La terza storia
parla di una deportazione, di un rimpatrio. E' la storia di Kabbour
che ha vissuto in Italia per 11 anni, ha fatto le medie e le
superiori qui per poi lavorare nei mercati, ma si trova costretto a
tornare in Marocco perchè vendeva CD contraffatti. E' un reato per
il quale è stato considerato “socialmente pericoloso” e per cui
ha perso il permesso di soggiorno ed è stato rispedito indietro.
Nel frattempo, Kabbour si è formato una famiglia con una compagna,
cittadina polacca, con cui ha avuto un bambino, Tareq che, l'anno in
cui il padre è stato rimpatriato, aveva cinque anni.
In base
alle testimonianze che avete raccolto, com'è la vita all'interno
dei centri? O si deve parlare di sopravvivenza?
Una cosa
interessante del primo corto è che siamo riusciti ad utilizzare
materiale realizzato dai protagonisti stessi, che hanno filmato con
i telefonini. Le immagini riprendono la traversata, i primissimi
giorni con i festeggiamenti per essere riusciti ad arrivare, con
cerchi di canti e danze, ma poi i cellulari hanno ripreso anche la
situazione all'interno dei Cie, con le rivolte o con le persone che
stanno lì senza fare niente, ingabbiate, a guardare il cielo. Per i
reclusi la cosa straziante è non capire perchè: non hanno commesso
reato, hanno solo fatto la traversata senza avere la carta giusta
oppure si trovano senza permesso di soggiorno perchè l'hanno perso
strada facendo o perchè il loro contratto di lavoro non è stato
rinnovato. Non avere il permesso è un reato amministrativo che
equivale a passare con il semaforo rosso, eppure queste persone sono
detenute. Oltretutto, il periodo di reclusione è salito da sei a
diciotto mesi.
Nei titoli di coda si sottolinea che il 60%
delle persone trattenute non viene né identificato né rimpatriato.
Dopo un anno e mezzo di Cie, cosa succede?
Una volta fuori,
queste persone rischiano semplicemente di non essere ancora
identificate e di essere riportate dentro. Mentre giravo la storia a
Torino ci è stato spiegato che - siccome i detenuti non riescono a
dare un senso a quello che succede, non sanno quando verranno
rilasciati o se verranno riportati a casa - non riescono a dorire di
notte e , quindi, chiedono i calmanti. I calmanti, però, vengono
dati molto facilmente perchè servono anche a mantenere la calma
all'interno del Cie; vengono usati per sedare la rabbia. Quando
facevo le interviste per telefono, capivo che dall'altra parte c'era
una persona che non riusciva a parlare perchè intontita dai
farmaci.
Nel terzo corto, attraverso la storia di Kabbour e
Tareq, padre e figlio, si affronta il tema del “principio del
bilanciamento”, riconosciuto dalla Corte europea di Giustizia: di
cosa si tratta?
Il principio del bilanciamento dice che
spetta al giudice dare la priorità all'interesse del minore oppure
a quello dello Stato. Se il soggetto è stato considerato un
“pericolo sociale” ma ha un figlio, è lo Stato che decide a chi
o a cosa dare la priorità, ma non esiste una normativa precisa
riguardo a queste situazioni. Kabbour è uno di quelli che sono
riusciti a vincere la causa e da circa due mesi è ritornato in
Italia.
Mentre
il Consiglio dei Ministri dà via libera al decreto sulle carceri (di
cui parleremo nei prossimi giorni), noi diamo voce anche ai detenuti.
L'Associazione per i Diritti Umani, ha partecipato ad un' importante
iniziativa per capire meglio come si vive, o meglio si sopravvive,
negli istituti penitenziari italiani.
Come si
fa a muoversi, per mesi o per anni, in una cella di pochi metri
quadri? Fino a ventuno ore al giorno e con cinque persone
accanto...Come si fa a far trascorrere un tempo infinito senza avere
nulla da fare? Come è possibile salvaguardare la propria dignità?
Queste e
molte altre domande hanno dato vita all'incontro che si è tenuto, a
fine novembre, presso l'Urban Center di Milano, incontro al quale
hanno partecipato
Davide
Dutto, fotografo
- coautore con Michele Marziani del libro "Il
gambero nero"
(Edizioni Cibele) e promotore dell'associazione "Sapori reclusi"
che, partendo dal comune bisogno
dell'uomo di nutrirsi, vuole riunire
uomini e donne che vivono nascosti agli occhi dei più, con il resto
della società - e Giorgia
Gay, antropologa,
giornalista ed autrice dell'e-book ...
e per casa una cella - I detenuti e lo spazio: tattiche di reazione e
domesticazione,
una ricerca sulla percezione e l'utilizzo dello spazio in una
comunità ristretta.
La
serata ha visto la partecipazione significativa,di due detenuti del
carcere di Bollate e di Opera che hanno raccontato la loro
esperienza, ma hanno posto l'accento anche sulle difficoltà di
coloro che si trovano ancora nelle strutture penitenziarie e di
coloro che sono usciti, ma che fanno fatica a reintegrarsi nella
società.
Al
dibattito sono intervenuti, infine, anche Emilio
Caravatti
e Lorenzo
Consales,
docenti a contratto del Politecnico di Milano che hanno raccontato la
loro esperienza di interazione tra studenti di architettura e persone
detenute sulla riprogettazione degli spazi del carcere.
L'Associazione
per i Diritti Umani vi propone il video dei momenti più
interessanti. (Vi ricordiamo che potete vedere il materiale filmato della nostra associazione anche sul canale dedicato Youtube)
Venerdì
scorso è stata inaugurata a Milano la Casa dei diritti, in Via De
Amicis 10, uno spazio annunciato dal palco del Pride lo scorso giugno
e che secondo le parole di Pierfrancesco Majorino, assessore alle
politiche sociali, “rappresenta
il racconto di quello che stiamo facendo e che vogliamo continuare a
fare per la promozione della persona”.
Questo
luogo di proprietà del Comune segna il patto tra l’amministrazione,
l’associazionismo ed il terzo settore con lo scopo esplicito di
declinare la parola diritto in varie accezioni e sarà la sede
permanente di alcuni servizi: dai centri anti-violenza al testamento
biologico, dalla task force contro la discriminazione
sull’orientamento sessuale alle attivita’ di 2G, dalle esperienze
legate al forum città-mondo (in attesa dell’apertura del museo
delle culture) ai percorsi laboratoriali per le scuole milanesi sui
diritti umani nel mondo con Survival.
In
particolar modo poi, l’intervento del sindaco Pisapia ha
sottolineato il fatto che sia l’istituzione ad aprire una casa dei
diritti ma che poi la gestirà insieme ai cittadini con due effetti:
parlare al Paese, in particolare a Roma per combattere tutte le
discriminazioni e parlare al mondo intero, tramite la vetrina di
Expo2015 come dimostra l’esempio della Cascina Triulza, struttura
che si occupa del tema della fame nel mondo e che nel post-Expo
diventerà la Casa delle ong. Il sindaco ha, infatti, illustrato il
progetto della Casa dei diritti con queste parole: “Un luogo che
riafferma Milano come capitale dei diritti e dell’innovazione
sociale. Un luogo da cui far partire anche un’azione di stimolo al
Governo e al Parlamento su temi ormai centrali per riallineare il
diritto e la politica alla realtà sociale. Mi riferisco alla lotta
contro la discriminazione sessuale, al contrasto all’omofobia, alla
tutela della donna, tutti temi che non devono più aspettare di
diventare emergenze sociali, ma devono far parte dell’agenda
ordinaria della politica”.
Nella
seconda metà di gennaio si terrà un Forum in cui verrà spiegato
alle associazioni come partecipare a questo progetto. E noi
attendiamo fiduciosi che venga spiegato a tutte le associazioni che
operano a Milano come si può farne parte e qual'è l'iter per
proporre le iniziative.
Mohamed
Ba, accoltellato da uno sconosciuto mentre aspettava un autobus in
pieno centro, a Milano; Mor Sougou e Cheike Mbengue, feriti
gravemente a Firenze, nel 2011, in occasione dell'eccidio di Piazza
Dalmazia; e poi ancora due persone uccise. Queste sono le storie di
chi è sopravvissuto ad episodi di violenza ingiustificata e
ingiustificabile, esperienze e testimonianze raccolte nel film Và
pensiero. Storie ambulanti di
Dagmawi Yimer, presentato nei
giorni scorsi a Bologna e prodotto da Amm-Archivio delle memorie
migranti. Un film importante per mantenere viva la memoria su fatti
recenti e per continuare un approfondimento sui temi
dell'immigrazione e del razzismo. Un fenomeno questo che può far
paura o far torcere il naso a qualcuno ma che, in forme più o meno
sottili, serpeggia ancora nella società italiana, una società che,
come può ricordare il titolo del film con un omaggio a Giuseppe
Verdi, dovrebbe essere ricca di Cultura e la Cultura dovrebbe aprire
la mentalità.
Il
regista, rifugiato dall'Etiopia, vuole raccontare al pubblico la
violenza attraverso la voce e le emozioni di chi l'ha subita sulla
propria pelle a causa del colore di quella pelle. E l'intento è
duplice: far uscire le vittime dall'anonimato e far capire che,
dietro ai corpi e ai volti, ci sono degli uomini e tutti gli esseri
umani sono uguali.
Il film
parte da un fatto di cronaca: l'11 dicembre 2011 Gianluca Casseri,
estremista di destra, spara e uccide quelli che, su molti organi di
stampa, vengono definiti genericamente “due immigrati senegalesi”:
Yimer, invece, li fa conoscere attraverso il loro nome e cognome per
dare sostanza e dignità alle loro vite a alla loro morte: Diop Mor
che ha lasciato un bambino che, all'epoca, aveva sei anni e Sam Modu,
40 anni che lavorava in Italia per mandare i soldi in Senegal, dove
vive sua figlia tredicenne che lui non aveva mai conosciuto.
Mohamed
Ba, ferito nel 2009 e sopravvissuto ad un accoltellamento, racconta
che la ferita ancora più dolorosa (e probabilmente inguaribile) gli
è stata inflitta dall'indifferenza delle persone che, al momento
dell'aggressione, hanno fatto finta di niente e delle istituzioni
che, in seguito all'accaduto, non hanno dato alcun segnale. Un uomo
con la testa rasata gli si avvicina e dice “Qui c'è qualcosa che
non va” e Mohamed risponde: “No, non c'è niente che non va, è
una spledida giornata di sole”. L'uomo estrae il coltello e gli
affonda la lama nello stomaco. Non contento, quando Mohamed cade a
terra, gli sputa addosso. E ancora: Moustafa Dieng, a causa
dell'aggressione di Casseri, ha perso l'uso delle gambe e ora vive in
centro per disabili per seguire corsi di riabilitazione senza, però,
riuscire a riprendere a lavorare.
Queste
quattro persone sono due volte vittime, secondo il regista: vittime
dell'odio cieco e ottuso, ma vittime anche della stampa e dei mezzi
di informazione che invece di mettere al centro della notizia le
conseguenze per gli stranieri aggrediti, hanno scelto di parlare (e
di accandere i riflettori) sui delinquenti. Questo film vuole
ristabilire un giusto equilibrio e una corretta prospettiva
nell'analisi dei fatti.
Un
minore su dieci, in Italia, vive in uno stato di povertà assoluta,
un milione e 344 bambini che subiscono le conseguenze devastanti
della crisi economica e dei tagli agli enti locali: questo emerge
dall'ultimo rapporto redatto dall'organizzazione Save
the children dal
titolo “L'Italia SottoSopra”, 4° Atlante dell'Italia (a
rischio).
Spesso
sono figli di disoccupati o monoreddito oppure i loro genitori hanno
un livello di istruzione assente o molto basso: dal rapporto emerge
se i capofamiglia sono privi di un titolo di studio, il tasso di
povertà è del 3,1%.
La
logica obbligata del risparmio costringe i piccoli e gli adolescenti
a vedersi privati dei servizi di base o di cure mediche: molti non si
possono permettere una visita dall'oculista o dal dentista, i libri
per la scuola, anche alcuni capi di abbigliamento; tanti vivono in
condizioni abitative disagiate per non parlare della possibilità di
partecipare ad attività ricreative o sportive.
Interessante
anche il dato che i bambini più poveri soffronto spesso di obesità:
non è una contraddizione, ma un'altra conseguenza del loro stato.
Non si alimentano con cibi sani e nutrienti, perchè costano troppo,
per cui consumano prodotti che “riempiono”, ma fanno ingrassare e
minano la salute.
La
povertà, colpice maggiormente e come sempre, il Centro e Sud
dell'Italia, ma anche nel Nord si registra un incremento del 43%
rispetto a due anni fa.
Questi
dati sono sottolineati dalle parole di Valerio Neri, Direttore
generale di Save the
children Italia:
“In questa fase di crisi i bambini e gli adolescenti si trovano
stretti in una morsa: da una parte c'è la difficoltà di famiglie
impoverite, spesso costrette a tagliare i consumi per arrivare alla
fine del mese, dall'altra c'è il grave momento che attraversa il
Paese, con i conti in disordine, la crisi del welfare, i tagli dei
fondi all'infanzia, progetti che chiudono. In mezzo, oltre un milione
di minori in povertà assoluta, in contesti segnati da disagio
abitativo, alti livelli di dispersione scolastica, disoccupazione
giovanile alle stelle”.
Grave,
infine, il risultato sull'analisi del cosiddetto “early school
leavers”: 758mila ragazzi sono fermi alla licenza media e
tantissimi abbandonano il circuito formativo. Nel dossier si legge,
infatti, che la scuola “fa più fatica ad attrarre e trattenere gli
studenti più disagiati, impedendone la dispersione e il
rafforzamento delle competenze”.
“Un
numero così grande e crescente di minori in situazione di estremo
disagio, ci dice una cosa semplice”, aggiunge Neri, “la febbre è
troppo alta e persistente e i palliativi non bastano più, serve una
cura forte e strutturata”. La cura consiste nell'investire proprio
nella formazione e nella scuola di qualità perchè “la recessione
non è iniziata soltanto cinque anni fa in conseguenza della crisi
dei mutui subprime o degli attacchi speculativi all'euro, ma affonda
le sue radici nella crisi del capitale umano, determinato dal mancato
investimento, a tutti i livelli, sui beni più preziosi di cui
disponiamo: i bambini, la loro formazione e conoscenza”.
Shirin
Fazel Ramzanali è nata a Mogadiscio; ha studiato nelle scuole
italiane della Somalia, agli inizi degli anni '70, e poi si è
trasferita in Italia, con la sua famiglia, per fuggire dal regime
dittatoriale di Siad Barre. Nel 1994 ha scritto un libro, diventato
un testo fondamentale per parlare di colonialismo e primo vero
esempio di letteratura italiana della migrazione.
Un
testo che narra la Storia attraverso uno stile "meticcio":
spunti, considerazioni, note biografiche, riflessioni politiche. Un
libro diviso in sei parti: la prima incentrata sulla Somalia un Paese
che, come scrive l'autrice: "Un tempo era il Paese delle
favole"; nella seconda parte predomina l'aspetto autobiografico
con la diffidenza, da aprte degli italiani, nei confronti di chi
aveva il colore della pelle più scuro; poi la scrittrice racconta i
viaggi all'estero a fianco del marito e, nella quarta parte, riporta
la brutalità della guerra civile in Somalia per riprendere
l'argomento nella sezione successiva in cui spiega come il suo Paese
d'origine sia stato sfruttato dalle superpotenze occidentali. La
scrittrice, infine, racconta l'inserimento nella società italiana.
Lontano
da Mogadiscio torna in versione e-book e in edizione bilingue
(italiano e inglese) ed è arricchito da una postfazione di Simone
Brioni.
Abbiamo
intervistato per voi Shirin Fazel Ramzanali che ringraziamo
tantissimo per la sua disponibilità
Shirin
Fazel Ramzanali
Perchè la
decisione di far uscire di nuovo il libro, apparso nel 1994, come
primo testo di letteratura post-coloniale?
Lontano da Mogadiscio,
a distanza di vent’anni è un libro vivo, fa discutere su temi
importanti. E’stato usato e lo usano tuttora nella sezione di
Italianistica in molte università. Purtroppo il cartaceo, dopo un
numero di anni, va fuori stampa e diventa introvabile. La nuova
versione è bilingue, italiano-inglese; ed il fatto che è in formato
e-book lo rende reperibile ad un’ampia cerchia di lettori
internazionali. E’ una opportunità
per i giovani (italiani e somali) che vorranno leggerlo, scoprire che
Mogadiscio un tempo poteva sembrare una città di provincia italiana.
Si tende a guardare il presente senza riflettere sul passato,
dimenticando molto spesso che il fenomeno dell’immigrazione è in
parte anche legato ad un passato coloniale di molte nazioni europee. La versione inglese è
tradotta da me. Alcuni brani li ho riscritti, per cercare di
trasmettere le emozioni del momento. Questa riscrittura sicuramente
darà una nuova chiave di lettura al testo. Nei capitoli inediti
parlo delle mie esperienze degli ultimi decenni maturate durante le
mie permanenze in paesi diversi, racconto di luoghi come la città
inglese di Birmingham dove risiede una folta comunità di somali.
Sono a contatto con la diaspora e consapevole di tutte le
problematiche e difficoltà che si trascina dietro. Inoltre, osservo
e racconto con distacco questa Italia che sta cambiando volto, ma
ahimè attuando anche nuove sottili forme di discriminazione.
Che cosa è
cambiato, a distanza di vent'anni, nel suo Paese d'origine?
Purtroppo in questi
ultimi vent’anni la Somalia è stata violentata, sfruttata,
calpestata senza avere una voce in capitolo a livello mondiale come
stato sovrano. Milioni di rifugiati sparsi nei quattro continenti,
hanno faticato per rifarsi una nuova vita. Anche se fisicamente
lontani, hanno sempre sostenuto, con le loro rimesse ai parenti,
l’economia del paese. Abbiamo una generazione che ha conosciuto
solo guerra e continua a cercare all’estero una vita migliore. Sono
ancora fresche nella memoria le immagini delle centinaia di persone
che hanno perso la vita nel Mediterraneo. I giovani che rappresentano
il futuro della nazione purtroppo non hanno prospettive. Penso che la
Somalia ha sofferto abbastanza, e ha vissuto sulla propria pelle gli
orrori di una guerra civile. Certamente c’è chi ha beneficiato di
questa situazione, ma non voglio innescare una polemica.Voglio essere positiva
anche perché finalmente per la Somalia si è aperto un nuovo
orizzonte. Anche se ci sono elementi che mirano a destabilizzare il
paese, si ha la palpabile sensazione di una luce in fondo al tunnel.
Oggi c’è un governo stabile, e riconosciuto. A Mogadiscio si
stanno riaprendo le ambasciate. Il paese cerca una rinascita in tutti
i settori. Questa energia positiva ha innescato nei somali che vivono
all’estero la voglia di ritornare in patria e di portare il loro
know-how acquisito in questi lunghi anni di forzato esilio.
Ci può raccontare
quali sono state le difficoltà durante il suo inserimento nella
società italiana?
Io sono arrivata in
Italia nei primi anni settanta già come cittadina italiana. Avendo
frequentato le scuole italiane, ed essendo bilingue sin da bambina,
non ho avuto barriere a livello linguistico. Venendo però da una
città multiculturale, mi sono dovuta adattare ad una città
provinciale italiana che prima di allora non aveva avuto contatti con
persone di provenienza africana. Ho subìto sguardi di gente curiosa,
che mi rivolgeva domande imbarazzanti. Non è bello sentirsi
osservata come un fenomeno di baraccone.
Qual è il suo
rapporto con l'Italia e con gli italiani, oggi?
L’Italia è il mio
paese, ho vissuto i cambiamenti politici e sociali degli ultimi
quaranta anni. I miei genitori sono sepolti qui. I miei figli e
nipoti sono nati in questa terra . Mi sento inserita, vivo e
partecipo i problemi che tutti i cittadini affrontano. Il mio
rapporto con l’Italia di oggi è quello che vivono un po’ tutti.
Anche se vivo all’estero, grazie alla tv satellitare e le varie
risorse che la tecnologia ci offre, sono quotidianamente in contatto
con la realtà italiana. Sono estremamente delusa da una classe
politica che ha portato il paese allo sfascio, nonostante gli enormi
sacrifici imposti alle famiglie italiane, nonostante le continue
vessazioni subite dai piccoli imprenditori che sono la linfa vitale
dell’economia italiana e malgrado il lavoro umile degli immigrati
che con i loro sacrifici tengono a galla numerosi settori e
contribuiscono fattivamente alla formazione del Pil. Vorrei
finalmente al governo delle persone veramente capaci, in sintonia con
il popolo e che avessero come priorità il benessere dell’Italia.
In altre parole io, tutti noi vogliamo assistere ad un cambiamento
positivo nella gestione della cosa pubblica. Come italiana di
origine somala, sono delusa del fatto che il governo italiano ha
fatto troppo poco per accogliere i rifugiati somali. Come persona
migrante sono indignata che gli immigrati vengano
penalizzati da leggi che non tutelano la loro dignità di persona o
di cittadini. Il mio rapportovis-à-viscon gli italiani è di vecchia data, gli ho avuti come compagni dai
tempi dell’asilo. “Ragazzi” con cui sono a contatto ancora
oggi. Tra gli italiani ho amici, conoscenti e persone che stimo
moltissimo. Conosco e scambio quattro chiacchiere con le persone che
abitano nel mio quartiere. Ho un rapporto di confidenza con i miei
vicini, ci beviamo un tè insieme. Io non mi creo barriere mentali.
Secondo lei, gli
italiani hanno cambiato mentalità o permangono pregiudizi
consolidati nei confronti degli stranieri?
Non mi piace
generalizzare. Sparsi come formiche, per tutto il territorio italiano
c’e il lavoro di migliaia di persone che ogni giorno si danno da
fare per costruire una società sana e priva di pregiudizi. Purtroppo sui media
vanno a finire soltanto gli episodi di intolleranza e razzismo più
eclatanti, ma riportati in una prospettiva che invece di condannarli
senza possibilità di appello innescano piuttosto sterili polemiche
che si trascinano inutilmente per settimane. Ci sono i politici che
usano questo tipo di propaganda per fini elettorali. Di conseguenza
l’uomo comune si lascia trascinare in questo vortice che non fa
altro che alzare il livello di scontro e aumentare le paure per
“l’altro”. Quello che secondo me deve cambiare nella nostra
società è di dare spazio alla meritocrazia. Leggi che tutelano gli
immigrati facendoli sentire anche politicamente parte del territorio
in cui vivono. Non ghettizzarli. Riconoscere come cittadini italiani
i ragazzi nati e cresciuti nel nostro paese, che in effetti sono
italiani. Che senso ha dire ad
un giovane di pelle scura, nato e cresciuto in Italia di tornare al
suo paese? Solo quando una
società dà pari opportunità ai propri cittadini allora cambia il
modo di pensare, il modo di percepire l’altro. Non si può credere di
avere dei privilegi solo perché si è bianchi. Non scordiamoci che la
ricchezza dell’ Europa è costruita dallo sfruttamento di risorse
primarie che provengono da paesi etichettati “poveri”.
Fino al
prossimo 16 dicembre 2013 è possibile visitare, presso il chiostro
del Palazzo delle Stelline in Corso Magenta 59 a Milano, la mostra
“Work for Hope”, un progetto fotografico di Alessandro Gandolfi
che si inserisce in un'iniziativa voluta da COOPI (Cooperazione
Internazionale) e dalla Commissione Europea, dipartimento Aiuti
Umanitari e rivolta ai palestinesi che vivono nei territori occupati:
Striscia di Gaza e Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est.
L'iniziativa
prevede progetti di “cash for work”: si individuano le opere
utili da compiere e, nella loro messa in atto, vengono coinvolti i
capofamiglia dei nuclei più poveri con un impiego a tempo
determinato. In questo modo si risponde, almeno in parte, ai bisogni
familiari di base (cibo, salute e scuola) e si immette liquidità
nell'economia locale.
I
programmi sono pensati, ad esempio, per migliorare le infrastrutture
di base, anche perchè gli anni di occupazione e di conflitto non
hanno fatto altro che determinare un forte impatto sulle condizioni
di vita delle persone: gli spostamenti all'interno degli oPt sono
continuamente bloccati dalla presenza del muro, dei posti di blocco e
dei gates; la libertà di movimento è fortemente limitata anche
dalla richiesta di pass e di permessi per le aree ad accesso
limitato. Questo impatta sulla quotidianità con la mancanza di
strutture sanitarie, lavorative e scolastiche. Ecco, quindi, che
l'intervento dei “cash for work” può servire a creare aree gioco
per i bambini, può essere utile per il recupero delle cisterne per
la raccolta dell'acqua piovana, per la ristrutturazione di vecchi
edifici o per la manutenzione delle strade.
Sempre
attraverso il coinvolgimento delle comunità locali, la Commissione
Europea e Coopi sono impegnate anche in un'attività di “civil
protection”, nell'Area C dove i villaggi sono più a rischio di
insicurezza e di sfollamento e dove le restrizioni idriche e
l'impossibilità di
coltivazione della terra discriminano ancora di
più le popolazioni palestinesi residenti.
Da tutto
questo nasce anche un progetto multimediale, sempre a cura del
fotoreporter Alessandro Gandolfi in cui, attraverso
video-testimonianze, storie di ricostruzione e visite virtuali ai
villaggi, si raccontano piccoli, ma significativi passi per
salvaguardare la vita e la dignità dei coloni sotto assedio.
Per
saperne di più: workforhope.org (da cui abbiamo tratto anche le
fotografie pubblicate)
Stella,
una studentessa di farmacia entra in un gruppo di ricerca per
svolgere la sua tesi. Nel laboratorio di chimica qualcuno sta male,
si parla di coincidenze. Anna, una sua amica, vorrebbe che la ragazza
lasciasse il laboratorio perchè lo considera insalubre. Ma la
vicenda di Stella si intreccia con quella di un dottorando che ha già
percorso la strada in cui la giovane si imbatterà. Questa è la
fiction. Nel dicembre 2008 esce la notizia dell'apposizione dei
sigilli ai laboratori di chimica alla facoltà di farmacia
dell'università di Catania, a causa del sospetto ambientale, oltre
al ritrovamento del memoriale del dottorando Emanuele Patané, morto
di tumore al polmone nel 2003. E questa è la realtà. Attualmente
è in atto un processo che vede imputati i vertici della facoltà per
inquinamento e discarica non autorizzata. Vincitore del premio "Gillo
Pontecorvo - Arcobaleno Latino" all'ultima edizione della Mostra
del Cinema di Venezia dove è stato presentato fuori concorso, Con
il fiato sospeso di
Costanza Quatriglio
mette anche in luce la ricattabilità in cui spesso vivono gli
studenti universitari.
Abbiamo
intervistato per voi Costanza Quatriglio che ringraziamo molto
Questo
suo ultimo lavoro nasce da un fatto realmente accaduto. Ce lo può
raccontare?
Questo
lavoro nasce da un fatto realmente accaduto che è la scoperta che i
laboratori di chimica della Facoltà di Scienze farmaceutiche
dell'università di Catania sono stati chiusi dalla magistratura e
adesso c'è un'inchiesta in corso per inquinamento ambientale.
Questa
notizia non è stata particolarmente ripresa dai giornali, ma quando
l'ho letta, ho letto anche del rinvenimento di un diario di un
dottorando che, cinque anni prima nel 2003, aveva scritto cinque
pagine molto dettagliate sulla vita all'interno del laboratorio: si
lavorava senza norme di sicurezza. Questo ragazzo è morto di un
tumore al polmone e, nel diario, accusava l'università di essere la
causa di questa sua malattia.
Oltre a
lui sono morti altri ragazzi.
Quali
sono stati i passaggi necessari per reperire il materiale utilizzato
per la realizzazione del film?
Ho
iniziato a lavorare a questo film nel 2008/2009 e ci sono stati
passaggi molto, molto difficili da tutti i punti di vista. La prima
difficoltà è stata affrontare la questione dal punto di vista umano
perchè ho trovato un muro di omertà gigantesco da parte
dell'istituzione universitaria.
L'altra
difficoltà è stata capire come utilizzare il diario e uscire dalla
cronaca, per far diventare il film qualcosa di più universale
possibile: cioè, il ricercartore universitario che parla di mancanza
di sicurezza sul lavoro può diventare non solo una denuncia di
cronaca, ma anche “etica”. Ho frequentato i laboratori di chimica
di altre facoltà universitarie, ho conosciuto tante persone e ho
capito che questa vicenda raccontava una storia non solo catanese, ma
italiana.
Racconta
di un Paese in cui le norme di sicurezza sono poco considerate in
generale, di un Paese che non valorizza i talenti, di un Paese alla
deriva.
L'intossicazione
delle persone che fanno ricerca lì dentro trascende l'aspetto
biologico e diventa una morte di Stato.
Questa è
la denuncia più forte che ha voluto fare con questo film?
Sì, la
denuncia più forte; infatti ho avuto difficoltà a produrre questo
film.
E'
passato di mano in mano e ho lavorato con varie case di produzione
che però, all'inizio, sembravano accettare questa sfida molto
complessa, ma poi mi facevano perdere tempo.
Solo tra
questa primavera e l'estate, con altri collaboratori, siamo riusciti
a partire.
Il mio
primo obiettivo era quello di fare un cortometraggio tradizionale,
poi ho cambiato il dispositivo narrativo.
Perchè,
infatti, la scelta di mescolare finzione e documentario?
In
realtà il film è un film di finzione, nel senso che rimette in
scena completamente una storia scritta, inventata, anche se riprende
una vicenda reale. Lo fa utilizzando il gioco del cinema: io
intervisto il personaggio e l'intervista fa parte del linguaggio
classico del documentario. Per questo motivo si parla anche di stile
documentaristico.
Comunque
all'interno di un racconto di dolore c'è anche la vitalità dei
giovani che è, anche questa, etica e reale.
Dove si
può vedere il documentario ?
In
alcune sale cinematografiche italiane, con grande coraggio da parte
degli esercenti.
A
Catania è stato in programmazione tre settimane anche con quattro
spettacoli al giorno. La stessa cosa è successa a Roma.
Secondo
la mia opinione, il film - che dura 35 minuti – deve essere
proiettato una o due volte al giorno all'interno delle programmazioni
ufficiali.
La
scelta dell'argomento riguarda anche la sua esperienza personale?
Io mi
identifico in una generazione che ha ereditato un Paese guasto.
Certamente è un film che mi riguarda profondamente e riguarda tanti
di noi.